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La vegetariana di Han Kang

«Se solo i nostri occhi non fossero visibili agli altri (…) Se solo si potessero nascondere i propri occhi al mondo.»

Qual è il confine fra sogno e realtà? Cosa si nasconde oltre quella linea sottile che separa lo stato di veglia dalla condizione di torpore che ci allontana dal mondo reale? Han Kang non dice, ma narra, nella sua trama divisa in tre atti, di una scelta apparentemente drastica che sconvolge una intera famiglia. Scheda del libro: Han Kang - La vegetariana - Premio Nobel 2024Autore: Han Kang Genere: Narrativa  Casa editrice: Adelphi Pagine: 177 Prezzo: Euro 18,00 ISBN: 9788845931215 Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra Yeong-hye, moglie mediocre, prevedibile e sottomessa, così come la descrive la voce narrante del marito nella prima parte, conduce una vita ordinaria, muovendosi silenziosamente e discretamente nella relazione coniugale. Quando decide di smettere di mangiare carne, in seguito a sogni terrificanti, il legame con le persone che le stanno accanto comincia a incrinarsi, fino a segnare crepe irreparabili. Se i genitori della donna, dapprima assaliti da rabbia e contestazione, subiranno impotenti la sua decisione, la sorella maggiore Hin-hye suo marito ne resteranno invischiati. La prima si riscoprirà vittima di una vita non vissuta per un eccessivo senso di responsabilità e sopportazione, il secondo, artista taciturno che inserisce in ogni suo video un volo di uccelli, attratto da una macchia mongolica sul corpo di Yeong-hye, ritroverà la sua vena creativa e una spinta vitale che non ricordava più di avere, fino a compiere un passo che gli costerà la sicurezza familiare. «La cinse per la vita e le accarezzò la macchia: avrebbe desiderato condividerla con lei, che gli venisse impressa sulla pelle come un marchio a fuoco. Voglio inghiottirti, voglio che tu ti sciolga dentro di me e scorra nelle mie vene.» È questa la parte centrale dell’intera storia, scandita dal secondo racconto, in cui dagli incubi si passa a una dimensione sempre più eterea. Il corpo della protagonista diventa veicolo di trasfigurazione interiore per l’artista che lo dipinge. La carne si volatilizza, il corpo scopre il suo involucro, fino a scendere in profondità del nucleo personale e familiare. Il corpo diventa, dunque, un vero e proprio campo di battaglia per le  convinzioni della protagonista e per le proiezioni di coloro che la circondano. Il rifiuto del cibo e del modo di vivere convenzionale di Yeong-hye si trasforma in una lotta per l’autonomia e l’autodeterminazione, sfidando le norme sociali e le aspettative familiari. Con una prosa lirica e visionaria, ricca di metafore visive che creano atmosfere sognanti, e una struttura narrativa teatrale, l’autrice coreana indaga, destabilizzando, la tematica esistenzialista dell’allontanamento degli esseri umani, che pur vivono uno accanto all’altra. Si è soli pur condividendo la stessa casa, a separare sono i vuoti interiori inespressi, che si dilatano al punto da creare distanze insondabili e, soprattutto, inconciliabili. Nella scelta della protagonista si cela il disgusto per la dimensione carnale, animale e umana, canale di violenza, una brutalità che scalfisce anche i nuclei più intimi, dissolvendoli in particelle che si allontanano fra loro. Il dualismo corpo-anima è al centro della narrazione. Il corpo di Yeong-hye diventa man mano invisibile e lei finisce per assomigliare a un vegetale, alle creature di cui si nutre, fino a quando, rinunciando completamente al cibo, non diventa anch’essa un vegetale. «guarda, sorella, sto facendo la verticale; sul mio corpo crescono le foglie, e dalle mani mi spuntano le radici… affondo nella terra. Di più, sempre di più, all’infinito…» Visionario e dissolvente, l’ultimo atto del romanzo può diventare la metafora dell’anima che si libera dell’involucro materiale in cui si ritrova nella sua esperienza umana, un processo di svuotamento dal carnale allo spirituale, dalla violenza alla riappacificazione con l’universo intero, vegetale e aereo, un volo al di sopra della condizione materiale in cui noi esseri umani siamo ingabbiati nell’epoca contemporanea. “La vegetariana” di Han Kang è dunque una meditazione profonda su ciò che significa essere veramente liberi, un viaggio all’interno dell’anima che muta quando quello che trova fuori di sè non regala pace, un’esplorazione dolorosa e epica di ciò che resta quando tutto il resto è stato tolto.   Chi è Han Kang: Han Kang - La vegetariana - Premio Nobel 2024 Nata a Gwangju il 27 novembre 1970, è figlia dello scrittore Han Seung-won. Nel 2016 esce il suo romanzo “La vegetariana”, grazie al quale si aggiudica il Man Booker International Prize. Il romanzo è pubblicato in Italia da Adelphi, come anche “Atti umani” e “L’ora di greco”. Il 10 ottobre 2024 le viene conferito il Premio Nobel per la Letteratura per: «la prosa intensamente poetica che si confronta con i traumi storici e che rivela la fragilità della vita umana» e per la sua «consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, tra i vivi e i morti, e perché con il suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice della prosa contemporanea».

Pampaluna di Sara Durantini

Riscriver-si come donna, rivivendosi bambina e scoprendosi ancora. É questa l’operazione che in “Pampaluna”, Dalia Edizioni – 2024, fa Sara Durantini, autrice di origini mantovane, ternana di adozione, impegnata da anni nell’indagine della scrittura femminile. Ricordiamo il suo libro dedicato al Premio Nobel per la Letteratura 2022 “Annie Ernaux. Ritratto di una vita.” Dei Merangoli Editrice – 2022.

«Per molto tempo, sono stata un corpo senza storia.»

Esistono luoghi che si insinuano prepotentemente nelle crepe della memoria. Restano a farsi ricordare con i loro colori, suoni e odori. Sono luoghi che, a distanza di anni, ci fanno domandare se sono realmente esistiti, perché si sono mescolati a tal punto con il nostro vissuto personale che ci appaiono oramai estranei, di una estraneità che destabilizza perché in realtà, sappiamo bene, cela profonde radici a noi familiari. Succede con i luoghi della nostra prima infanzia, di cui ci arrivano immagini sbiadite che cominciamo a rincorrere come ipnotizzati, attratti dal desiderio di conoscere quanto indietro possano riportarci. Succede a chi vuole ritrovarsi, quando scopre di appartenere a quel luogo e di essere fatto di un tempo che vuole trovare posto nel punto esatto in cui, come diceva Sartre, passato e futuro si incontrano, quando è nel presente che diamo un senso a chi siamo e vogliamo essere. Cominciano così tutte le storie, raccontando di luoghi lontani che forse sono stati, forse chissà, dove la vita accade… « ‘Pampaluna’ sussurrò Caterina a fior di labbra. E poi, guardandomi dritta negli occhi, aggiunse: ‘così si chiama la tua cascina, lo sapevi?’ Fu quella la seconda volta che sentii il nome di quel luogo di fuoco e acqua.» Scheda del libro: Pampaluna di Sara Durantini - Dalia Edizioni, 2024. Autore: Sara Durantini Genere: Narrativa  Casa editrice: Dalia Edizioni Pagine: 144 Prezzo: Euro 14,00 ISBN: 9788899207694   La storia di Pampaluna vede i suoi esordi editoriali vent’anni fa, per poi rinascere a nuova vita, scavando nei ricordi più recenti alla ricerca di quei fili invisibili che si intrecciano inevitabilmente a quel che siamo stati ieri. Una storia raccontata per sfuggire all’oblio, la prigione a cui troppe volte, nel corso dei secoli, sono state relegate le donne. Protagoniste, il più delle volte, di storie silenziose, di una monotona quotidianità che nasconde una sacralità di primo acchito imperscrutabile. «… una casa azzurra immersa nell’oro del granoturco vicino alle sponde del fiume Oglio.» Una immagine quasi fiabesca, immersa in una dimensione atemporale apre la narrazione, che per tutto il tempo si avvale di una rievocazione sinestetica. Dall’odore del fieno e del «pane tostato inzuppato nel latte appena munto» alla luce cerulea delle imposte, fino al «cielo stellato e l’aria tiepida».
Pampaluna di Sara Durantini - Dalia Edizioni, 2024.
I luoghi di “Pampaluna”.
Autore Foto: Arodi Mat Nurdin
Copyright: Arodi Mat Nurdin
Una mamma che rammenda e una nonna che tiene sulle ginocchia un cesto di vimini mentre pigolano pulcini … e i tempi passano. E la protagonista bambina, di quattro anni, con le trecce che scendono sulle spalle, viaggia a bordo di un trattore fra i campi e festeggia la spremitura dell’uva … e il tempo passa anche per lei, in un moto ondoso che oscilla costantemente tra passato e presente, mentre la Storia le scorre accanto, facendo il suo corso. «Sono le piccole cose che restano dentro. Si appiccicano alla pelle, come i luoghi vissuti, i profumi respirati, i libri letti, la musica ascoltata.» “Pampaluna” è, fra le tante cose, un amarcord denso di eventi del passato italiano e di quelli che hanno segnato il decennio ’80-’90, dalla musica pop nostrana e d’oltreoceano al cinema, dall’alluvione del Polesine alla caduta del Muro di Berlino. Perché noi siamo fatti di storie che si intrecciano alla grande Storia, siamo il riflesso delle piccole storie che ci attraversano e gli avvenimenti che ci segnano in quanto comunità. Ma c’è una parte di comunità sociale che prende vita in “Pampaluna” e si rivela con una voce potente, quella femminile, della sua condizione nella società patriarcale.

«Ero nata in un corpo a cui era stata preclusa la parola.»

 "La terra inesplorata delle donne" - Dalia Edizioni, 2023.
Sara Durantini è studiosa di scrittura femminile. Ha curato l’antologia “La terra inesplorata delle donne” – Dalia Edizioni, 2023.
La piccola protagonista scopre di non articolare bene le parole e il suo diventa un mondo ovattato fatto di suoni nascosti nella sua anima di piccola donna in crescita. Deve imparare ad articolare le parole durante le sessioni di logopedia nel centro abitato in cui si trasferisce a seguito della separazione dei suoi genitori, coinvolta in una vera odissea interiore. E allora viene voglia di correre ad abbracciare la bambina smarrita, confusa dalle incoerenze del mondo adulto, delusa dalle aspettative tradite, mentre fuori il Pci viene sconfitto e il Muro di Berlino crolla. Come nelle fiabe, sarà una fata madrina a porgerle in dono lo strumento per affrontare le sue paure più grandi: una maestra con un quaderno e una penna. E le storie sopite prendono vita e plasmano la realtà della giovane protagonista che, attraverso l’istruzione, accede a una nuova realtà, oltrepassando le barriere e le aspettative di classe. E chi è la nuova donna che oggi racconta? Un insieme di frammenti di ieri e di oggi: l’immagine delle lunghe trecce dorate come il fieno nel granaio dove correva con gli zoccoli ai piedi e si tuffava sulle balle scorticandosi le ginocchia, cadendo dalla scala, l’adolescente riflessiva dal petto stretto nella maglia di Fiorucci che ascolta la musica nella sua stanza, e intanto sogna di diventare scrittrice, ma non può dirlo e deve confessare di voler fare la maestra, mestiere dignitoso e remunerativo.
Annie Ernaux. Ritratto di una vita di Sara Durantini - Dei Merangoli Editrice, 2022
Annie Ernaux. Ritratto di una vita di Sara Durantini – Dei Merangoli Editrice, 2022
Con il suo lungo racconto “Pampaluna”, Sara Durantini offre, alla stregua della sua prediletta Annie Ernaux, una singolare prospettiva che connette l’esperienza personale a questioni di più ampio respiro sociale, dal persistere del pensiero patriarcale alle soglie del Duemila alla liberazione della donna, appartenente alla classe media, attraverso l’istruzione. E come si libera la giovane protagonista di questo racconto? Attraverso la parola scritta, che per affermarsi deve conoscere la vergona della sua immaginazione.
Pampaluna di Sara Durantini - Dalia Edizioni, 2024.
“Quaderno proibito”, di Alba de Céspedes, 1952. Edizioni Oscar Mondadori.
Come accade per la voce narrante di “Quaderno proibito”, romanzo scritto da Alba de Céspedes e pubblicato nel 1952, per una donna le proprie confessioni su carta devono restare nascoste, perché, come scrive Durantini: «Solo la carta, il nudo foglio bianco le permetteva di esprimersi. Il foglio bianco era sinonimo di una vastità di possibilità.» Ma cosa può esprimere di davvero importante una donna? Agli occhi della società patriarcale i suoi pensieri possono apparire vacui e inutili, e questo una donna lo sa, lo ha sempre saputo. Sara Durantini, passando in rassegna i suoi ricordi, si avvale di citazioni di scrittrici per esprimere le consapevolezze acquisite, facendo ricorso a parole pronunciate con coraggio, embrioni di creature che hanno imparato a muovere i primi passi nel mondo con crescente coscienza. Risiede in questo la potenza della scrittura femminile.

«Li vedi i solchi lasciati dal sangue? È su quelli che è stata costruita la tua casa. È lì che ora vive il tuo tormento.»

Chi è Sara Durantini: Annie Ernaux. Ritratto di una vita di Sara Durantini - Dei Merangoli Editore, 2022 Sara Durantini, nata a San Martino dall’Argine (MN) nel 1984, è laureata in Lettere moderne e da giovanissima inizia a dedicarsi alla scrittura. Infatti vince l’edizione 2005-2006 per la sezione inediti del Premio Tondelli con il racconto L’odore del fieno e nel 2007 pubblica Nel nome del padre (Fernandel Editore). Partecipa alle antologie collettive di varie case editrici. Nel 2021 pubblica L’evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux (13lab editore). Nel 2023 esce per Dalia Edizioni l’antologia da lei curata dal titolo “La terra inesplorata delle donne”. Da oltre dieci anni scrive articoli per riviste letterarie online e cartacee. L’intervista di Mi libro in volo a Sara Durantini.

L’isola e il tempo di Claudia Lanteri

«La logica può fare luce solo su una piccola parte di quel che si viene a sapere, o di quello che uno si ricorda.»

Non ha paura di far sentire la sua voce Claudia Lanteri, si ritaglia il suo spazio con sicurezza e maestria. È una voce che incanta per la sua precisione linguistica. Le parole sono scelte con cura nel suo romanzo d’esordio pubblicato da Einaudi, dal titolo “L’isola e il tempo”, attingendo sovente dalla tradizione vernacolare, che dà corpo alla narrazione, una impronta neorealistica dagli echi veristi, illuminando il luogo-non luogo in cui l’autrice sceglie di ambientare la sua storia. Questo luogo è un’isola siciliana, situata “di fronte alla ‘Mpidusa”, una piccola isola in provincia di Agrigento, poco popolata, dalla vegetazione brulla e la terra scura, all’ombra del Monte Rosso. Un posto dove “A stare soli uno è padrone di tutte le cose, passate e presenti, le abbraccia a colpo d’occhio, tutte insieme”, dove non è ancora arrivata la corrente elettrica. Qui gli abitanti sopravvivono di pesca, di coltivazione di capperi e lenticchie, e di pastorizia. Siamo nell’estate del 1958 e il tredicenne Nonò, al termine della scuola, dopo aver ripetuto due volte la classe sesta perché non può permettersi di continuare gli studi, sale tutti i giorni in cima alla montagna a osservare l’isola per avvertire le novità che porta la giornata. È giunto sull’isola Edoardo Dalmasso, un professore “del tipo naturalista” che raccoglie campioni di piante e animali, e Nonò ha preso a osservarlo e seguirlo, finendo per diventare il suo giovane assistente, esperto del territorio, “curioso e sveglio”. Insieme osservano la covata delle turriàche e le cimici carabiniere, raccolgono i fiori del cappero per poi appiattirli con la pressa idraulica e incollarli sui quaderni, scrivendoci i nomi in latino. La quiete isolana viene interrotta dall’arrivo di un barchino verde, guidato dall’unico superstite del naufragio di una barca a vela che, come racconta il sopravvissuto, è stato causato da un incendio. Sul barchino c’è anche il cadavere della moglie del naufrago. L’inchiesta che ne deriva crea fermento sull’isola, in particolare nell’animo di Nonò, che incalza dietro alle supposizioni di omicidio del professor Dalmasso nei confronti del superstite Surico, tanto più perché è comparso un manoscritto della vittima, la moglie del sopravvissuto, che Nonò ha trafugato. Ma le indagini vengono sabotate e il professore fa rientro nel continente. Inizia così il tormento di Nonò, intestardito dal voler restituire giustizia al mistero del naufragio, che ha causato anche la morte di minori. A questo punto i piani temporali si sovrappongono di continuo e l’autrice comincia a tormentare il lettore. Ma Claudia Lanteri si può permettere di giocare con il lettore, in primis perché la sua è una letteratura “col rampino”. In “L’isola e il tempo” si ravvisano potenti echi letterari: da Verga, a Morante e Conrad, Omero, Melville, Poe, fino a Pirandello e a Calvino. Inoltre, la solida e singolare struttura narrativa del romanzo, conferisce potenza all’autorialità di questa nuova voce nell’editoria contemporanea, al punto che al lettore pare di conoscerla da tempo. Scheda del libro: L'isola e il tempo di Claudia Lanteri - Einaudi Unici, 2024Autore: Claudia Lanteri Genere: Narrativa  Casa editrice: Einaudi – Collana “Unici” Pagine: 368 Prezzo: Euro 19,00 ISBN: 9788806261160 Con la sua destrezza letteraria, l’autrice trasporta il lettore in una ricerca del tempo continua, perché è proprio il tempo il vero protagonista del romanzo, un tempo circolare ma anche un tempo dilatato, perché quello che circonda l’isola, il mare, ha un suo tempo, e come è questo tempo? É fluido, è impetuoso, è calmo, a volte, ed è anche ostile. Il lettore viene cullato dalle onde della creatività dell’autrice, che si capisce subito essere una creatività potente, metaletteraria. «È solo un racconto, Nonò, Dimenticati di tutta questa faccenda e vai avanti. Incaponirsi a drizzare un legno storto non serve a nulla. (…) Sento salire la rabbia come un sapore di veleno nella bocca. (…) E allora i racconti a cosa servono, se non servono a nulla? (…) A cosa servono i racconti non lo so. Vorrei poterti dire che è più sicuro affidarsi alla scienza, ma anche da quella mi sento tradito. A qualche cosa servono: è come se tu potessi metterti un paio di occhiali a fantasia per vedere il mondo in un modo nuovo, che non avevi previsto o calcolato.» Lo scrittore crea, crea le storie, le storie nelle storie con le parole, e la storia e la parola di Claudia Lanteri sono corpose, magmatiche, precise, persino feroci. L’acqua è fluida, ma nel caso di Lanteri non è legata all’emotività viscerale, ma a un tipo di emotività più controllata che cova, proprio come un’onda può travolgere all’improvviso. «Non mi persuado ancora di andare a letto: è una notte senza una goccia di luna o stelle; quando è così, il fondo del mare brilla dall’interno, come se tutte le meduse, e le anguille, e i pesci lanterna offrissero la loro luminescenza per indicare il cammino al cercatore stanco.» E cosa, o meglio chi è l’elemento che scatena questa onda d’urto? É Nonò, il Nofriu di un tempo passato, che si muove nella storia come un folletto che sbuca dalla memoria di Nofriu adulto e ingarbuglia le fila della trama. Nofriu e Nonò, nel duplice piano narrativo che escogita l’autrice, sono due personaggi diversi, il primo è il personaggio del presente, l’altro del passato, ma le cose si scompigliano al punto da trascinare il lettore nel mistero dei misteri letterari: l’inquietante animo umano alle prese con la propria coscienza. Nonò ricorda e racconta senza sosta, ma quanto c’è di vero nelle sue parole? Ci si può fidare della sua memoria labile, colpita dal dolore?  «In quest’ora le cose si confondono nel ricordo, i vivi coi morti, non importa quante volte io riprendo a raccontarli da capo. Anche i loro volti restano volatili, difficili da riagguantare, come i fumi sdegnosi della ventarola che mi hanno dato alla testa, come la vita che accade sempre a un passo da me.» Nonò è l’innocenza della vita, la pagina bianca, immacolata, che il lettore deve scoprire e riempire con le sue supposizioni. Nonò si imbatte nel male, nell’oscurità, nell’ombra che porta il mare, un crimine che destabilizza il suo equilibrio isolano. Pur sperduta in mezzo al mare, lontana dal continente, l’isola di Nonò riceve lo schianto di un dolore, la sferzata brusca del male, e questo lo getta nello sconforto, perché “è una lotta amara, restituire giustizia.” La verità ha molteplici volti, non sai mai da quale parte sta girata, e ti arrovelli per capire quale è quella definitiva, ma non arrivi mai alla vera verità. Nonò si tormenta, si sente protagonista di quella bufera che si è abbattuta sull’isola, se gli altri abitanti dimenticano, lui non può, si domanda anche se ha una parte di colpa anche lui in tutta la storia. Alla propria coscienza non si può sfuggire: lontano dal mondo o immerso nel mondo, l’essere umano è destinato a scontrarsi con l’oscurità. Come dice Conrad, il mare è complice dell’irrequietezza dell’uomo.
Linosa, isola della Sicilia in cui Claudia Lanteri ambienta il suo romanzo d’esordio, pubblicato da Einaudi nella collana “Unici”.
E il mare dell’sola di cui racconta Claudia Lanteri è un mare dalle oscure profondità, dove non ci si bagna. Gli abitanti, le donne specialmente, non si fanno bagnare dalle acque, perché “siamo un’isola, il mare non ci bagna.”  È un mondo circoscritto, dal quale non fuggire, perché “di mal di terra non è morto mai nessuno.” Eppure Nonò ogni mattina si affaccia dal confine dell’isola raggiungendo la cima del monte. Nonò è l’elemento di disturbo, l’outsider fra gli abitanti, che va alla ricerca della verità nascosta fra le acque oscure e abissali, sfidando le colonne d’Ercole del limite psichico umano, perché quel mare turba ma al tempo stesso attira. E dal mare prima o poi bisogna farsi bagnare, per poi riemergere in una nuova terra, uscendo dal ventre che ci ha custoditi troppo a lungo nell’innocenza. Infine, non si può trascurare di spendere parole sulla Sicilia raccontata da Claudia Lanteri, una terra che, se da un lato profuma di antico ed esibisce la sua immobilità arcaica, dall’altro prorompe in una raffica di modernità, che si ravvisa soprattutto nell’ancestrale mistero femminile, in parte stregonesco, in parte ribelle e sovversivo. «- E tu nuvola brutta oscura che sei venuta a fare? Con il cucchiaio di legno mescola e con la schiumarola toglie i grumi: la fronte nemmeno sudata, non sembra stanca, sembra una maga alla mescita di pozioni. Mi pare che il vento porti ancora qualche volta l’eco delle sue litanie. “Ecco, tre gocce con la luna piena, e poi mangia una crosta di pane, mangia una crosta di pane e io te le strappo dai denti e dico: Questo è il pane mio!” Ascoltavo in silenzio per impararle. (…) mai ha voluto insegnarmi i suoi scongiuri e i suoi poteri, gelosa, e quante volte mi sarebbero serviti. Anche ora nel ricordo, mi scopre e mi riporta a letto: la sua mano si sofferma sulla fronte, anche se affaràta di vapori è carezza che rinfresca.»   Chi è Claudia Lanteri: L'isola e il tempo di Claudia Lanteri - Einaudi Unici, 2024   vive a Palermo, dove fa la libraia. Ha pubblicato racconti su varie riviste («Snaporaz», «Malgrado le Mosche», «Micorrize »). L’isola e il tempo (Einaudi 2024) è il suo primo romanzo.  

Pensieri dipinti di Giuditta Manganoni

Si prende il suo spazio di donna, autopubblicandosi, Giuditta Manganoni. Un pertugio dell’anima attraverso il quale fare luce, dentro e fuori di sé. Gli spazi aperti di Madre Natura parlano attraverso i voli di falco, i semi di soffioni al vento, il canto di grilli e cicale nell’afa estiva, nel ricordo di una gatta “più cara del sale” fino all’incontro con un’adulta capriolo, un selvatico incontro epifanico, come a guardare negli occhi della dea Diana. É tutto un battito di vita quello che si percepisce dalla lettura degli scritti di Giudi Manganoni, prima poesie e poi brevi racconti, che cantano il divino del mondo nascosto nelle piccole creature. Sono tutte folgorazioni quelle che invia dall’alto la musa ispiratrice, e l’autrice, come colta da rapimento, ammanta con versi e con immagini vivide e mitologiche la fantasia del lettore. Le parole sono accompagnate da fotografie in un connubio indovinato, che amplifica la visione artistica in un dialogo costante fra sguardo interiore e sguardo esteriore. Nulla è definito, come lo sguardo limitato dalla siepe di Leopardi. Non si guarda solo con gli occhi.
“cerco la felicità/ma non è di questo mondo (…) Cerco un punto solido e fermo/in tempi di fumo nero”
(Lettera aperta) La scrittura si fa scavo profondo: “vivere la notte è sublime”, guado di dolore necessario, perché “ogni respiro è una seconda possibilità”. Il silenzioso varco notturno è il raccoglimento interiore di un’anima che vuole scoprire il suo stare al mondo, immersa in una Natura ora benevola ora maligna, che ora dona e ora toglie gli affetti più cari, sottrae il tempo “ad ogni primavera/che scandisce/inesorabile”. Un’anima che diventa figlia della Natura, una rosa dal peduncolo forte radicato alla terra, nonostante il dolore che sale dal mondo, come la lacrima di rugiada sul viso cotto dal sole del solitario spaventapasseri “creato per allarmare/non per amare”. Un’anima che si nomina “Figlia dell’autunno” che s’acquieta in dolce attesa mentre l’inverno digrada in lontananza. E poi si fa “Donna Primavera”, “una fragrante Primavera che rinasce.” I versi di Manganoni sono il sussurro di un Femminile in ascolto, che si indigna all’arrivo di “orde di maschi che si avventano/su donne indifese/per sollazzare i propri istinti”, al gelo che incombe quando combattono “fratello contro fratello” perché è “Pazzo e senza Dio/ chi provoca sangue di innocenti”, che soffre dinanzi agli stermini, che coglie l’odore della paura ai tempi del Covid. Un Femminile consapevole del suo sguardo caleidoscopico “Tu, Donna,/sei come la crosta terrena/ a volte difficile da penetrare”. Un Femminile che loda la sacralità dello stare al mondo, come una lupa che, sotto i raggi lunari culla nel grembo la nostalgia e allatta la consapevolezza che “è nostra la scelta/di elevarci o cadere”. Un invito a innalzare il nostro Essere divino a un sentire universale per il viandante smarrito che scorge “in lontananza un lumicino”, un posto reale per l’autrice e gli abitanti dell’Oltrepo’, dove “si affronterà ogni sfida/con il sorriso.”, dove tendere la mano alla solidarietà.   Il ricavato della vendita del libro viene donato alla Fondazione “Villa Gaia – Casa delle Donne” di Rea Po (Pv), struttura che accoglie una biblioteca di genere, centro di documentazione e ricerca sul lavoro, da conforto e aiuto pratico a donne e bambini in difficoltà.   Chi è Giuditta Manganoni:Pensieri dipinti di Gouditta Manganoni Vincitrice di concorsi di poesia e di arte, vive a Voghera ed è autrice di racconti raccolti in varie antologie, attrice, lettrice e moderatrice. Collabora nelle scuole con bambini e ragazzi attraverso il teatro, la musica, la parola. Nel 2021 ha ricevuto dalla Presidentessa de Gli stati generali delle Donne, Fondazione Gaia, Sportello Donne, Isa Maggi l’onorificenza “Donne che ce l’hanno fatta”. Nello stesso anno, il Tecnico Paco Oliver Global/Dott. Francisco Morales, Global Creation sin Limites (the World Leader Award) di Città del Messico, la nomina moderatrice italiana e voce che trasmette emozioni per le onorificenze ai Magistrati rappresentanti di Stati Sud Americani. La maggior parte dei suoi lavori sono svolti a scopo benefico.  

Cuore nero di Silvia Avallone

«Ecco dove l’intero discorso viene a toccare la quarta specie di delirio: quello per cui quando uno, alla vista della bellezza terrena, riandando col ricordo alla bellezza vera, metta le ali, e di nuovo pennuto e agognante di volare, ma impotente a farlo, come un uccello fissi l’altezza e trascuri le cose terrene, offre motivo d’essere ritenuto uscito di senno. Quel delirio, dico, che è la più nobile forma di tutti i deliri divini e procede da ciò che è più nobile, tanto per chi ne è preso quanto per chi ne partecipa; e chi conosce questo rapimento divino, ed ami la bellezza, è detto amatore. Perché, secondo quanto s’è detto, ogni anima umana per sua natura ha contemplato il vero essere, altrimenti non sarebbe penetrata in questa creatura che è l’uomo. Ma non per tutte le anime è agevole, partendo dalle cose terrene, far affiorare nella memoria quel vero essere, non per quelle che ebbero lassù una visione rapidissima di quelle realtà, non per quelle che, quando sono crollate a terra, ebbero mala sorte cosicché, stravolte verso l’ingiustizia da certe compagnie, dimenticarono quanto allora videro di santo.» (Fedro-Platone) Cerchiamo tutti un posto nel mondo, nel viaggio-vita che facciamo. Quando intraprendiamo il percorso, non sempre sappiamo dove vogliamo arrivare, ma a guidarci verso quel posto è un’eco lontana. É nostalgia che ci spinge a camminare, pure lungo le vie tortuose che ci si aprono davanti, in direzione di un posto che ci chiama. Per alcuni sarà facile individuare la luce che ci porta dritta al punto, per altri la fiammella oscilla nel buio e fa smarrire la via. Allora si ferma, torna indietro, poi rifà un passo e poi ancora uno indietro. Si guarda le spalle, sempre buio, e allora sprofonda e chiude gli occhi. Prima di aprirsi al sole, il seme dorme, inabissato nel punto più caldo del terreno, quello in cui ristagna la promessa di nuova vita. Solo che il seme ancora non lo sa, che una forza più grande lo solleverà da quel suolo per portarlo alla luce. É nell’inverno che riposa il dolore, che quel richiamo lontano ci scuote a intermittenza. E allora lo sentiamo sotto le unghie lo strazio di quel lungo e impervio ritorno a casa. Quando hai quattordici anni e la vita ti ha già privato dell’amore più grande, quello che ti ha preservato dalle fragilità che ti tengono in bilico, e la rabbia esplode, violenta e impetuosa, affossarti con le tue mani è l’unica strada che conosci. Perché ti senti verme che si insinua in un frutto già marcio e ti ripari, come un feto che non vuole più nascere. Scheda del libro: Cuore nero di Silvia Avallone - La Scala Rizzoli, 2024 Autrice: Silvia Avallone Genere: Narrativa  Casa editrice: La Scala Rizzoli Pagine: 368 Prezzo: Euro 20,00 ISBN: 9788817184601   Emilia si mette sulle spalle il suo duro passato e sale sulla montagna, come Sisifo. Il passato rotolerà sempre sotto di lei, e lei raccoglierà ogni volta quel masso e, sempre più stanca, proverà a risalire, scivolando ogni volta.
«Troverai più nei boschi che nei libri.
Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà.
Il silenzio, aveva pensato. É questo l’insegnamento.
Il silenzio e la luce, e l’inverno che finisce.»
  Bruno abita la montagna, da sempre. É figlio di Sassaia, un borgo sperduto fra i boschi di una frazione chiamata Alma, l’anima di un posto dove la neve luccica sempre fra l’erba. Come una brace pronta a infiammarsi. Come la vita che si spegne e riaccende. Nei ricordi che fanno male e riemergono ai primi accenni di primavera. Emilia e Bruno si incontrano e imparano ad amarsi, con le loro storture e malinconie, tormenti e insicurezze. Fra andate e ritorni, sofferti e riscattati. Silvia Avallone scrive questa storia, la storia di due solitudini che custodiscono un dolore antico dal quale ripararsi. Sono sperduti, come il posto in cui decidono di rifugiarsi. E si fanno compagnia. Con gli occhi, le mani, i corpi. Avvolti da un velo di silenzio destinato a squarciarsi con violenza. Perché per tornare veramente a casa dobbiamo sapere cosa ci aspetta. Da novembre a fine marzo dobbiamo guardarlo con coraggio l’inverno, sentirne il gelo e aspettare che si sciolga. Emilia giunge il 2 novembre a Sassaia, accompagnata da suo padre, uomo distinto e tenace, che la aiuta a riaprire la vecchia casa di famiglia, dando aria alle stanze chiuse da anni. Emilia sbraita perché in quella casa non c’è la televisione e lei non riesce ad affrontare l’inferno delle voci della notte se c’è silenzio intorno a lei. Rimasta sola, chiede a Bruno, suo dirimpettaio, di farle compagnia. Lui le legge poesie di Mandel’štam.  Bruno è maestro elementare di una pluriclasse, Emilia trova impiego come restauratrice nella chiesa di Alma accanto al Basilio, l’anziano imbianchino di paese, un tempo aspirante artista, che conosce il suo passato e che la accoglie in silenzio. In paese tutti osservano con sospetto la nuova coppia, qualcuno sa qualcosa dei loro oscuri passati, qualcuno tace, qualcuno parla. E l’idillio si spezza. Perché è un quadretto di serenità solo abbozzato. La vera felicità è ancora lontana. Emilia dovrà affrontare il suo passato imparando a non sentirsi sempre sbagliata, additata e riconosciuta per il bolo nero che si porta dentro, con il proiettile conficcato nel cuore sempre pronto a esplodere. Così torna sui passi di quell’oscuro passato, mentre Bruno, che non ha saputo capirla, impara a incontrare i suoi fantasmi e a ricentrarsi. “Cuore nero” è un libro che, con parole crude, dirette e taglienti, mette in scena il dramma di quella parte di emarginati, artefici del male, che vivono al buio della società, rinchiusi dove dovrebbero essere dimenticati: il carcere. Silvia Avallone ci fa entrare in queste vite, fra presente e passato. Il dopo è una incognita per chi esce dal carcere. Anche se riesci a inserirti nella società, non sconterai mai la pena più grande: il perdono verso te stesso. Il male ti appartiene, è il marchio dal quale tutti ti riconosceranno e ti sarà impossibile sentirti nuovo. Perché difficilmente il carcere ti riabilita. Anche se trovi chi investe su di te e si batte per te, tu sarai sempre il diverso. Emilia trascorre più della metà della sua vita in un limbo di anni che la rendono senza età, stroncando la sua adolescenza mentre il corpo si fa grande, tra le sbarre del carcere, intrecciando la sua esistenza a quelle di altre detenute “stronze sfigate”. Fino a stringere una duratura amicizia con Marta Vargas, la veemente ribelle che legge i tomi della letteratura e scrive al Presidente della Repubblica un’invettiva sull’importanza dell’istruzione in carcere. Perché è grazie all’istruzione che ci si può cominciare a redimere, a non vivere come bruti in eterno. Sostenute da donne visionarie e coraggiose, che credono fermamente nella riabilitazione, Emilia e Marta prima si diplomano e poi si laureano. Ma non sarà facile, per loro, imparare a vivere il dopo. Emilia può contare su una solida presenza: suo padre Riccardo, uomo che sa convivere dignitosamente con il dolore che ha spezzato la sua vita, l’uomo che vive in nome della famiglia come unità indissolubile. Riccardo è la mano tesa nel buio perenne di Emilia. E quando il dolore si frantuma, scheggia dopo scheggia nel suo cuore, sarà Riccardo a farle capire come ricomporre i pezzi. «Non ti ho mai ringraziato.» “«Non si ringraziano i genitori.» Così come Bruno riceverà in dono la nuova occasione per capire cosa sia veramente una famiglia, per rivivere una infanzia negata troppo presto. Silvia Avallone scandaglia ogni emozione compressa di questi personaggi, tenendo i lettori in perenne bilico di una suspence dolorosa. Prima ci mostra cosa sia il dopo per loro, poi ci immerge nell’apnea del loro passato. Impariamo così a conoscere veramente chi sono, entrando fra le pareti, buie e silenziose, delle loro anime. Anime oscure che noi possiamo illuminare, provando a tendere la nostra mano per ricordare loro che hanno già visto la bellezza vera, che la vera Bellezza è sempre stata viva in loro. E solo ritrovandola si può andare incontro all’Amore-Vita.
«ha trovato in lui l’unico medico dei suoi grandissimi tormenti.» (Fedro – Platone)
  Chi è Silvia Avallone: Cuore nero di Silvia Avallone - La Scala Rizzoli, 2024(Biella, 1984) è tra le voci più importanti della nostra narrativa. I suoi romanzi sono tradotti in tutto il mondo e hanno vinto numerosi premi, tra cui il Campiello Opera Prima e il Benedetto Croce. Per Rizzoli ha pubblicato Acciaio (2010, da cui è stato tratto l’omonimo film), finalista al Premio Strega 2010, Marina Bellezza (2013), Da dove la vita è perfetta (2017) e Un’amicizia (2020).  

Breve riflessione sulla “Scrittura femminile”

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«Quando una donna si mette a scrivere un romanzo, scoprirà di voler costantemente alterare i valori stabiliti – rendere serio quel che appare insignificante a un uomo, e triviale quello che per lui è importante. E per questo, naturalmente, sarà criticata.» A parlare così è Virginia Woolf nel 1929, in un passaggio che fa parte della raccolta dei suoi Saggi scritti fra il 1904 e il 1941, riuniti da Il Saggiatore, 2011 nell’edizione italiana “Voltando pagina. Saggi 1904-1941″. Oggi, a un secolo di distanza, siamo ancora a discutere la questione e a domandarci se ha senso parlare di “scrittura femminile”. Perché è sull’aggettivo che più dobbiamo soffermarci. Perché la scrittura va differenziata per genere? Storicamente le scrittrici donne appaiono sulla scena letteraria tardi, ma esse hanno sempre scritto. La loro produzione ha subito oscillazioni nelle varie epoche sottostando, il più delle volte, a un totale oblio. Ma tracce della loro presenza si riscontrano in quelli che, rifacendoci a Saffo, possiamo definire frammenti di scrittura, ovvero lettere, ricette di cucina, appunti di viaggi, opere spirituali, versi poetici. La loro voce si è insinuata come un sussurro perpetuo nella storia, che a tratti ha innalzato la sua frequenza (nel ‘600 con le Preziose in Francia prevale l’audacia nel voler asseverare la libertà alla vita sociale e nel ‘700 sono più le donne a scrivere rispetto agli uomini, i quali ricorrono a pseudonimi femminili per assicurarsi riconoscimento), per altri ha continuato a subire la negazione della sua autorialità, fino a volersi affermare mettendo in gioco il proprio vissuto in tutte le sue declinazioni. Scrittura femminile - Mi libro in volo
«Le donne (…) sono il mio pianeta e la mia ricerca, il mio unico “partito” e forse, oltre all’amicizia, il mio unico scopo nella vita.» (Goliarda Sapienza)
Giungiamo così al ‘900, il secolo delle Suffragette, dei saggi di Virginia Woolf, verso la quale opera numerose autrici contemporanee hanno contratto un innegabile debito. Si comincia a scandagliare la peculiarità delle relazioni femminili, dell’identità che le contraddistingue. Perché per avere una voce bisognava pur parlare di quel sentire rimasto in silenzio per secoli. Numerose le pubblicazioni di diari e autobiografie che svelavano verità troppo a lungo soffocate all’interno del nido domestico (vedi “Una donna” di Sibilla Aleramo nel 1906 o “Quaderno proibito” di Alba de Céspedes nel 1950) o che scandalizzano per l’ostentazione di un vivere libero e autentico (vedi ”L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza, romanzo riconosciuto in Italia solo nel 2008, a seguito delle traduzioni e successi esteri). Il ‘900, come a confermare la ciclicità del fenomeno dell’oblio delle voci femminili, dopo la seconda metà ha censurato-sotterrato opere italiane che solo negli ultimi anni sono state ripubblicate, spesso in edizioni assai limitate. Autrici come Fabrizia Ramondino, Alba De Céspedes, Fausta Cialente, Anna Maria Ortese, Paola Masino, Milena Milani, Livia De Stefani, Laudomia Bonanni, Goliarda Sapienza sono rinate attraverso il lavoro di inesausta ricerca di scrittrici contemporanee.
Scrittura femminile - Mi libro in volo
Immagine dal web, sito: https://www.festivaletteratura.it/it/racconti/quattro-scrittrici-italiane-del-900
Da queste opere, credo, dobbiamo ripartire oggi per rivalutare l’importanza di una scrittura che nel tempo si tende a voler soffocare. Da opere in cui non si nascondono verità che talvolta appaiono insignificanti, come la vita casalinga, il pensiero che vi si insinua come l’espressione di un vissuto solo interiorizzato perché difficile da esprimere nel sociale. Perché le parole delle donne custodiscono il segreto del tempo, che passa fuori dalle case ma che si intrufola nelle pieghe del pensiero. Un pensiero che fluttua e si rincorre e che ha la sua dignità letteraria, come ci ha insegnato Virginia Woolf. Un pensiero che può amalgamarsi in sperimentazioni e contaminazioni narrative diegetiche.

L’elisir dei sogni di Silvia Cinelli

Tutti i membri di una famiglia sono rami di un albero nati dalla stessa radice, ma ogni ramo può svettare verso direzioni opposte. Se l’albero è solido, alla prima ondata di vento tenderà a riportare il ramo sulla sua traiettoria originaria. Ma il vento tornerà più forte, e allora sarà difficile trattenere ancora quel ramo. La vita è il vento che ci porta lontano dalle nostre radici. Il più delle volte si pensa che chi va via soffra di più, mentre chi resta può contare sulla presenza costante degli affetti più cari. E invece a volte è proprio restare il passo più difficile da compiere. Restare e adempiere al proprio destino. Con “L’elisir dei sogni. La saga dei Campari”, edito da Historiae Rizzoli, Silvia Cinelli esplora i sentimenti, le aspirazioni e le ombre di una famiglia che ha costruito un solido successo imprenditoriale. Scheda del libro: L'elisir dei sogni. La saga dei Campari di Silvia Cnelli - Historiae Rizzoli, 2024 Autrice: Silvia Cinelli Genere: Narrativa  Casa editrice: Historiae Rizzoli Pagine: 336 Prezzo: Euro 17,50 ISBN: 978-8817180542   «Quel liquido rosso sanguigno era per il bambino la prova più tangibile dell’esistenza di suo padre e in esso immaginava racchiusa l’essenza stessa dell’uomo: una bevanda che ne portava il nome e che – ne era convinto – doveva essere spremuta direttamente dal suo enorme corpo, là sotto in cantina.» Davide Campari è il quartogenito di Gaspare, l’ambizioso liquorista che, nella seconda metà dell’Ottocento, dalla provincia pavese, passando per Novara, giunge nella brulicante città milanese per perfezionare il suo inconfondibile elisir, l’iconico Bitter rosso, amara bevanda alcolica caratterizzata da un colore rosso vivace e da un sapore distintivo che combina ingredienti aromatici ed erbe. Sin da bambino, Davide spia suo padre nello scantinato del Caffè aperto nella nuova Galleria del Duomo Vittorio Emanuele II. È il primo nato presso la prestigiosa ed eclettica struttura architettonica in ferro e vetro ideata dall’imprenditore Giuseppe Mengoni per farne un punto nevralgico di cultura e commercio, quando era ancora in fase di costruzione. Mentre al piano di sopra sua madre Letizia è perennemente indaffarata tra i tavoli del Caffè a servire clienti e far loro di conto, suo padre mescola, distilla e imbottiglia le sue magiche combinazioni di aromi. È una presenza misteriosa e intoccabile, dalle cui mani e ingegno nascono le formule perfette per appagare gli esigenti palati della più rinomata e clientela milanese. Il Caffè Campari è infatti luogo di ritrovo di intellettuali, artisti e politici di spicco.
L'elisir dei sogni. La saga dei Campari di Silvia Cnelli - Historiae Rizzoli, 2024
La Galleria Vittorio Emanuele II è stata costruita tra il 1865 e il 1867.
«Quella dei Campari è del resto la clientela più vivace e interessante che si possa immaginare: Giacomo Puccini, Luigi Illica, Arrigo Boito, Giuseppe Boito, Giuseppe Verdi e tutti gli artisti che gravitano attorno alla Scala; gli editori Emilio e Giuseppe Treves coi loro scrittori Gabriele D’Annunzio, Edmondo de Amicis, Giovanni Verga. Sotto la protezione dell’Angiolin, giornalisti e politici di opposte fazioni si ritrovano in una relativamente pacifica convivenza: il moderato Torelli-Viollier prende l’aperitivo con il radicale Felice Cavallotti, i sinistrorsi dell’Associazione Democratica siedono accanto ai destrorsi dell’Associazione Costituzionale, Filippo Turati e Anna Kuliscioff tollerano la vista del deputato conservatore Giuseppe Colombo, che ha definito le rivendicazioni del proletariato “fango che sale”.» Fra sogno e realtà Davide ha un sogno, quello di seguire le orme del padre, continuare a creare nuovi elisir e a far crescere l’attività di famiglia. Sa che suo padre ha già scelto il suo successore, il fratello maggiore Giuseppe, che invece ha altre ambizioni per la sua vita, continuare a studiare lettere. Davide ci prova a dissuadere il padre, ma in cambio ottiene solo rimproveri e indifferenza. Davide si dimostra caparbio quando, alla morte del padre e di fronte alla decisione del fratello del padre di seguire una improvvisa vocazione spirituale, si propone alla madre come il nuovo liquorista Campari. Sua madre, Letizia Galli, che ha preso in mano le redini dell’azienda di famiglia, non senza aver incontrato difficoltà in quanto donna, gli accorda fiducia e manda Davide in Francia, a Bordeaux, per un importante apprendistato. È questo per Davide un momento di passaggio, dalla fanciullezza all’età adulta, in cui scopre il mondo. Grazie all’amicizia con il bohémien Etienne, che lo ospita presso la gioviale e anticonformista nonna, giunge a Parigi, la città fiorente di arte e pensiero, crogiuolo della creatività e dell’innovazione scientifica che avrebbero forgiato le avanguardie artistiche mondiali negli anni successivi. La Parigi della Belle Époque incita la voglia di vivere di Davide, facendogli sfidare i limiti della sua libertà, conoscere le consuetudini dei locali notturni di Montmartre, l’amore carnale. É il momento in cui dovrà misurarsi con se stesso per capire se è ancora degno del sogno che ha sempre inseguito.
L'elisir dei sogni. La saga dei Campari di Silvia Cnelli - Historiae Rizzoli, 2024
Manifesto pubblicitario Campari degli anni Sessanta.
Davide Campari è il personaggio attorno al quale ruota il destino dell’azienda di famiglia. Visionario, innovativo e perseverante, egli farà espandere gli affari e portare il nome dei Campari oltre confine, consolidando il marchio affidandosi alle tecniche pubblicitarie più avanzate dell’epoca, come manifesti pubblicitari realizzati da noti artisti. Ma quanto costa realizzare il sogno, per lui? Conflitti, rimorsi e il peso della solitudine saranno il prezzo da pagare per aver risposto alla chiamata del suo daimon interiore. Gli eventi della sua vita prendono di sovente un corso inaspettato che condizionano inevitabilmente le sue scelte e, a farne i conti, sarà soprattutto la sfera sentimentale. Ma Davide affronta il suo destino eroicamente, superando ogni imprevisto con onorabilità, aspettando che le circostanze possano donargli nuove occasioni. Accetta di percorrere il suo cammino con tutti gli ostacoli che gli si presentano dinanzi, facendo dimenticare al lettore che si tratta di un personaggio realmente esistito. La potenza della storia narrata da Silvia Cinelli sta proprio nell’aver mescolato armoniosamente la fiction alla realtà. L’intreccio funziona perché l’autrice è riuscita a mediare le emozioni con i fatti storici, a ricreare gli eventi forgiandoli con la sua vivida fantasia e abile maestria, senza scadere nell’eccessivo sentimentalismo e senza tediare il lettore con una cronaca asettica. Cosa distingue la saga dei Campari di Silvia Cinelli L’impianto narrativo dei capitoli è di tipo scenico, ciascuno di essi inizia con una data che proietta direttamente il lettore nel momento. Inoltre, l’uso del presente, abbatte la distanza tra le azioni dei personaggi e il lettore, e le numerose sequenze dialogiche vivacizzano il ritmo, mentre il ricorso alle espressioni dialettali calano nella realtà dell’epoca. Pur ritrovandosi catapultato in un’epoca storica lontana, il lettore sente di partecipare alle odissee interiori dei personaggi, perché il pregio della nuova e appassionante saga dei Campari nata dalla penna di Silvia Cinelli sta nel rendere attuale la visione degli eventi. Questo emerge, in particolar modo, nella riflessione sul valore dei sogni. Oggi pensiamo che a guidare un sogno sia prevalentemente il piacere, se una cosa ci piace allora dobbiamo inseguirla, ma pochi si rendono conto che il risultato passa per un lungo percorso interiore, di cadute e di conquiste. Davide all’inizio vuole emulare il padre, lo vede come il gigante da raggiungere e rendere fiero, solo con il tempo, misurandosi con se stesso, comprende quanto sia difficile portare avanti l’eredità di famiglia, quanto bisogna realmente mettersi in gioco, quante rinunce sia necessario fare e, soprattutto, quanto sia vitale sconfiggere l’ingombrante ombra paterna. «Per ora ha solo dubbi, incertezze, e la febbrile eccitazione della ricerca, ma più i giorni passano più gli diventa chiaro che ciò che sta cercando non è solo un liquore da aggiungere al menù del Caffè. Ciò che sta cercando è la propria salvezza.» Il sogno che nasce da una passione è una responsabilità che ci cade addosso per volere di una invisibile e ineluttabile forza più grande di noi, che non riguarda solo noi e i nostri obiettivi, ma travolge anche la vita di chi ci sta accanto. È questa profonda comprensione che trasforma il percorso verso un sogno in un viaggio di crescita personale e collettiva, rendendo la nostra aspirazione non solo un traguardo egotico, ma un contributo al benessere della comunità. Imparare ad assumersi la responsabilità delle proprie aspirazioni sarà per Davide un percorso sofferto, segnato, come già accennato, da dolorose rinunce e aspri contrasti familiari, in particolar modo con il fratello Guido. Perseguendo il suo obiettivo di innovazione, Davide pecca talvolta di prevaricazione e, credendo di scegliere per il meglio di tutti, rischia di impedire la condivisione familiare. «Sono strani questi tempi moderni, sono folli, scriteriati, sono tempi di lotte e di tentazioni rivoluzionarie.» La storia della famiglia Campari si intreccia agli eventi di una Milano segnata da una fervente agitazione sociale e politica. Fra il 1898 e il 1904, la città è teatro di violente sommosse della classe operaia che comincia a prendere coscienza di sé. Si batte per le dure condizioni di lavoro nelle fabbriche, per le lunghe giornate lavorative, per i salari bassi e la scarsa sicurezza sul lavoro. A dar loro voce, promuovendo la lotta per i diritti attraverso proteste e scioperi, è il movimento socialista.  La risposta del governo è dura, ricorre all’intervento dell’esercito e all’arresto di molti esponenti socialisti.
L'elisir dei sogni. La saga dei Campari di Silvia Cnelli - Historiae Rizzoli, 2024
La famiglia Campari a fine Ottocento.
Le donne de “L’elisir dei sogni” Nel corso della narrazione, emergono eroine intelligenti, indipendenti ed emancipate, a testimonianza di quanto il loro ruolo sociale fosse molto più determinante rispetto a quanto è stato tramandato. Queste personagge escono dall’ombra in cui molti racconti dagli echi maschili le hanno relegate, soprattutto se pensiamo che l’autrice si è ispirata a figure reali. In primis Letizia Galli, detta Carotolin per la sua rossa chioma, che alla morte del marito Gaspare anziché decidere di vendere, la soluzione più immediata e remunerativa per poter sostenere i quattro figli, prende sulle sue spalle il peso dell’impresa familiare, scontrandosi con la sfiducia e l’arroganza maschilista. «Da domani, oltre a supervisionare la sala, accogliere i clienti, fare di conto e tappare i buchi in laboratorio, dovrà mettersi ai fornelli, almeno finché non troverà un nuovo cuoco. Ecco cosa comporta essere la sciura padrona.» Quintilia, il grande amore di Davide, si ribella al volere paterno e raggiunge un certo compromesso pur di collaborare con le prime attiviste dell’epoca in opere caritatevoli per la città. Leda, ispirata all’ammaliante cantante Lina Cavalieri, donna avvenente e ambiziosa di estrazione sociale meno abbiente, subisce percosse e maldicenze pur di ottenere il successo desiderato. Ida, temeraria e selvaggia sindacalista. E infine Anna Kuliscioff, figura centrale nel panorama politico e sociale italiano di fine Ottocento e inizio Novecento. Medico di professione, fu tra le prime donne a laurearsi, rivoluzionaria per passione e femminista per convinzione. «A uno dei tavoli, Anna Kuliscioff siede con piglio matronale tra Andrea Costa, marito da cui è separata, e Filippo Turati, compagno di lotta e di vita, con cui da circa tre anni convive in un appartamento proprio lì accanto, sotto ai Portici Settentrionali. L’insolito trio sta festeggiando insieme ai compagni l’esito delle ultime elezioni politiche, che ha permesso al Partito socialista italiano di entrare per la prima volta in parlamento.» La rivoluzionaria di origini russe fu soprattutto pioniera del femminismo in Italia. La sua lotta per l’uguaglianza di genere non si limitava solo al diritto di voto, ma abbracciava un’ampia gamma di questioni sociali ed economiche, dalla parità salariale all’accesso all’istruzione e al lavoro. Il suo legame sentimentale con Filippo Turati si distinse per un’intensa collaborazione intellettuale. Questo tipo di affinità e collaborazione, nel libro di Silvia Cinelli contraddistingue anche la coppia Letizia- Gaspare. «Gaspare chiama Letizia sul retro, le versa un goccio del suo ultimo preparato e aspetta il responso. Lei annusa il contenuto del bicchierino, ne manda giù un sorso e si rigira la lingua tra i denti, un po’ per assaporare meglio, un po’ perché si diverte a tenere il marito sulle spine. (…) A quel punto Gaspare svuota l’intera caraffa dalla tinozza degli scarti e si prepara a ricominciare da capo (…) Si fida ciecamente del giudizio di sua moglie: lei conosce i gusti dei clienti, ha un ottimo palato e un ottimo fiuto, in particolare quando è incinta.» E noi la vediamo l’autrice mentre immagina questa insigne unione come un presagio positivo, non utopico, ma giusto ed egualitario.   Chi è Silvia Cinelli: L'elisir dei sogni. La saga dei Campari di Silvia Cnelli - Historiae Rizzoli, 2024 Scrittrice e sceneggiatrice, ha lavorato a serie e soggetti televisivi, collaborando – tra gli altri – con Endemol e Rizzoli. Nel 2016, per Rai Eri, ha pubblicato il romanzo Noi, i Medici. Ascesa di una famiglia al potere.

Chiassovezzano di Piero Dorfles

Negli ultimi anni, numerosi autori sono tornati a parlare di case. Case che si animano, alla stregua del concetto classico della sacralità dei luoghi. Secondo i Greci, ogni luogo è abitato da un daimon che guida l’uomo verso il suo destino, meglio noto come Genius loci. É stato James Hillman a recuperare il concetto in epoca più recente. Nel libro “L’anima de luoghi”, egli ha affermato che: «I luoghi hanno un’anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.»  Cosa spinge, allora, a parlare di case, in particolare di quelle del passato? Un desiderio di nostalgia o c’è qualcosa di più? Capire forse cosa è rimasto di noi tra le pareti che hanno custodito una parte della nostra vita, o forse l’esigenza di voler dare un senso a periodi difficili da definire, non solo per la storia personale, ma per quella dell’umanità intera. Perché i conti con la storia che appartiene al singolo vanno fatti, prima o poi, in relazione a coloro che ci hanno preceduto e al futuro che costruiamo con le spiegazioni che sappiamo darci nel presente. Scheda del libro: Chiassovezzano. Una casa e una famiglia temeraria in tempo di guerra - Bompiani, 2024 Autore: Piero Dorfles Genere: Narrativa – Memoir Casa editrice: Bompiani Pagine: 204 Prezzo: Euro 18,00 ISBN: 9788830108226   É l’8 settembre del 1943 quando Carlo Dörfles, padre del giornalista e critico letterario Piero Dörfles, decide di lasciare Trieste con la sua famiglia e di trasferirsi a Lajatico, in Toscana, nei pressi di Pontedera, nella casa di Chiassovezzano, scelta e acquistata quattro anni prima dal fratello Gillo. Trieste, città cosmopolita agli inizi del ‘900, che contava migliaia di ebrei assimilati di alto rango, fra intellettuali, medici, professionisti e dirigenti statali, viene scelta da Mussolini per promulgare le Leggi razziali nel 1938. Numerosi ebrei, che fino a quel momento non avevano né sentito, né tanto meno manifestato un senso di appartenenza, furono costretti a rifugiarsi lontano da Trieste. Di questo confinamento, durato fino al maggio del 1945, racconta Piero Dorfles nel suo recente libro “Chiassovezzano. Una casa e una famiglia temeraria in tempo di guerra” edito da Bompiani. Il testo, corredato da numerose istantanee in bianco e nero, si compone di ventritré capitoli, dal tempo circolare, intitolato con i nomi attribuiti alle stanze della dimora di famiglia o con particolari che caratterizzano l’ambiente, come “La stanza del gatto”, in realtà una pantera, racchiusa nel tondo presente in copertina, che come spiega Dorfles: «stringe tra i denti uno scettro, e tiene una zampa sopra una corona. Credo che sia l’emblema della forza vitale della natura, che qui simboleggia il popolo; e che lo scettro e la corona siano i simboli del potere assoluto e arbitrario, del quale si impadronisce il popolo quando si ribella ai regimi monarchici.»
Chiassovezzano. Una casa e una famiglia temeraria in tempo di guerra - Bompiani, 2024
Gillo Dorfles.
Ed è proprio questo passaggio che racchiude il significato di una ribellione interiore ai familiari che vissero da rifugiati a Lajatico per due lunghi anni, in uno stato di continua angoscia e in una condizione di isolamento, non sempre rispettata… Gillo, il più sovversivo (e inquieto) del gruppo. Simbolo della temerarietà che contraddistingue la famiglia, dove al posto dell’eroismo prevalgono “coraggio e sventatezza”. Costruita agli inizi del ‘700, Chiassovezzano passa nel secolo successivo nelle mani dell’illustre illuminato “utopista mazziniano di grande sensibilità sociale”, eminente cittadino dalle cariche più alte, Guelfo Guelfi dopo e, nel frangente, “probabilmente era stato un educandato di suore”. Passata successivamente a Dante Bocelli, che l’ha venduta a Gillo Dorfles. Circondata da un ampio giardino, in quanto a infrastrutture la dimora non può vantare agi e comodità. Resa ospitale grazie al tocco di classe della zia Lalla, Chiassovezzano sarà testimone della convivenza di otto “rappresentanti di quattro generazioni”. Nei due anni vissuti assieme, i familiari sapranno stringere importanti legami con gli abitanti più influenti del posto, caratterizzati da un grande senso di solidarietà. Chiassovezzano. Una casa e una famiglia temeraria in tempo di guerra - Bompiani, 2024   La questione ebraica per la famiglia Dörfles (a seguito della campagna di italianizzazione fascista, Dorfles) «Non credo che nessuno dei Dörfles si sia mai sentito veramente in colpa perché ebreo, ma il rifiuto di riconoscersi tali, a chi lo guarda con gli occhi del presente, può assumere un significato ambiguo: perché a quel tempo rischiava di concedere dignità alle leggi razziali, di aprire uno spazio logico ai razzisti per dire che, se gli ebrei si vergognavano di esserlo, in fondo, loro avevano ragione a perseguitarli.» Chiassovezzano. Una casa e una famiglia temeraria in tempo di guerra - Bompiani, 2024Fra pareti colorate, affreschi, austeri ritratti di dignitosi antenati, tavolini, pianoforte e soffitti a volte, si svolge la vita dei Dörfles, famiglia composta da personalità emancipate e anticonformiste, votate alla libertà di pensiero sulla scia della dottrina steineriana, dell’antroposofia fino all’occultismo. Famiglia che si imbatte nella scoperta della propria identità ebraica. I Dörfles padri non hanno parlato ai loro figli delle origini religiose, degli stermini e delle persecuzioni, hanno preferito preservarli da un passato che sembra non appartenergli più, essendo ormai cittadini inseriti nella società triestina. Il nuovo libro di Piero Dorfles pone l’accento sulla questione ebraica. Nel clima culturale dell’emancipazione moderna tra ‘800 e ‘900, nell’Europa centrale si verificò uno sfaldamento della tradizione ebraica che sfociò nel conflitto delle nuove generazioni con i loro padri. Se questi ultimi volevano tenere in vita le tradizioni religiose di famiglia, pur nella condizione di ebrei assimilati, i primi sentivano la frattura fra l’adesione alla modernità in chiave capitalistica e l’adesione alla modernità come intellettualizzazione. I figli si ribellarono ai padri parlando e scrivendo in tedesco, come fece Kafka. Negando il mondo dei padri, essi finivano per negare l’assimilazione, non senza conseguenze critiche come il senso di colpa e il dolore per un ancestrale richiamo alle radici strappate, di quel mondo dimenticato, quel terreno rimosso, cui secondo alcuni critici fa riferimento Kafka nel suo Processo, dimenticandosi di aver dimenticato. Essere ibrido fra ebreo orientale ed ebreo occidentale emancipato, Kafka visse lacerato in due anime che si contendevano il primato della scelta tra la vita e la scrittura: tra i valori della tradizione paterna, la legge del Talmud, e la via d’uscita dall’incertezza e solitudine che implicava il dramma esistenziale della cultura occidentale. Lo scontro con un terreno che, seppur familiare nel suo richiamo, spaventa e smarrisce, secondo quello che Freud definisce un-heimlich, perturbante. E lo stesso padre della psicoanalisi, definito l’ebreo senza Dio, si discostò dalla religione dei padri, ma non poté rimuovere del tutto gli influssi della religione di origine. L’ebreo, diceva Freud, è abituato a stare all’opposizione da solo, perciò le sue posizioni e scoperte appaiono come il risultato del sentimento perturbante dell’isolamento che conduce a rifondare la propria identità attraverso la psicoanalisi, una sorta di sublimazione, in poche parole, dei conflitti interiori causati dal luogo familiare tenuto nascosto. In sintesi, la generazione dei figli di ebrei assimilati, sentirono il peso dei conti in sospeso con le proprie radici da parte dei padri e andarono alla ricerca di nuovi terreni, per Kafka la scrittura e per Freud la scienza. Gillo Dörfles, ancora una volta, si fa carico del controverso destino familiare.

«Si sentiva in dovere di non essere ebreo, perché non lo aveva scelto lui, visto che era stato allevato nella convinzione che si è quello che si vuole essere, non quello che decidono gli altri.»

Scoprire di essere ebrei, senza quasi saperlo di esserlo, senza mai aver praticato la religione o aver fatto parte di cominutà, essendosi assimilati, sposati con non ebrei, avendo cercato in tutti i modi, con rocamboleschi espedienti, di non apparire sulla carta ebrei, è la condizione di ebrei della famiglia Dörfles durante gli anni raccontati in “Chiassovezzano”, periodo che porta alla luce un rimosso storico che si esplica, per talora eccentriche talora inquiete personalità incontrate, in un avito anticonformismo.            

Fuego di Paolo Repossi

«La vita e i sogni son pagine d’un solo e medesimo libro. La lettura condotta con continuità e coerenza si chiama vita reale. Quando però l’ora consueta della lettura (il gioco) giunge al termine e viene il tempo del riposo, noi spesso continuiamo a sfogliare il libro e ad aprire, senza ordine e continuità, una pagina ora qui ora là» (Arthur Schopenahuer)

“Fuego” di Paolo Repossi, Libreria Ticinum Editore 2023, è un libro che parla di sogni. E nella vita ci possono essere sogni buoni e sogni cattivi. Entrambi possono incrociarsi in un momento imprecisato della vita, in un gioco di intrecci impensati, che alla fine può svelare un certo senso, riportando tutti i fili al loro ordine. É l’inizio di una estate torrida, quella del 1982, in un piccolo centro dell’Oltrepò pavese, dove gli abitanti si riuniscono attorno al televisore per assistere alle partite dei Mondiali di Calcio. Sognano che i loro campioni possano arrivare alla finale e portare a casa una gloriosa vittoria. Mauro, detto il Moro, Lori e Toni formano un trio di ladruncoli sotto l’ala protettrice del capo Adamo, il quale approfitta della distrazione dei tifosi per organizzare i colpi. Il primo ama guardare le macchine “da ogni angolazione” e fa “caso a come sembravano le persone viste da fuori, dallo spazio piccolo del loro lunotto posteriore (…) sempre impegnato a cogliere l’interazione, esatta, tra l’uomo e la macchina.” E sa che ogni macchina “ha un suo colore che le calza a pennello”. I soldi dei colpi gli servono per acquistare la macchina che sogna, la Fuego rossa. Angela fa la barista presso una stazione di servizio sull’autostrada. Del suo lavoro le piacciono le banconote da mille lire che può maneggiare, sulle quali ci scrive, con una grafia minuziosa, le parole del suo romanzo e le sceglie con cura. Poi, le mille lire girano di mano in mano. Come i tre furfanti che cominciano a riempire le pagine di cronaca locale, si porta dentro il dolore che arriva dalla rabbia, ma che lei sa lenire con il sogno delle parole. Li vede danzare perennemente nella sua testa i personaggi del libro che scrive. Aspetta il “momento di grazia” per trascrivere le parole, un momento che però lascia un solco ogni volta nel suo cuore. Sì perché, la storia che insegue, e che con le parole diventa reale, è quella di un’infanzia difficile da cancellare, nonostante il tentativo di far quadrare la realtà presente. Saranno proprio i messaggi che viaggiano sulle banconote arrotolate a far riunire tutti i personaggi, i quali sembrano aver seguito passi invisibili per giungere a quel preciso momento.  E Angela lo sente che quel momento sta per arrivare, che l’universo sta per mettere assieme i pezzi di storie che, da sole, non reggono più la trama. Stanno per congiungersi tra le pagine del libro. I personaggi sembrano allora muoversi davvero come le pedine fra le mani dell’autore, che studia la sua strategia sulla scacchiera della scrittura. Non si muovono a caso i singoli protagonisti, corrono tutti verso una unica direzione, proprio come accade a Angela con i suoi di personaggi, sulle note di una musica che li solleva sul mondo. E quando arriva il loro momento, si giocano tutti il loro sogno. I tifosi durante la finale, i ladruncoli durante il loro colpo finale, e tra questi ultimi c’è Lori, che sogna di incontrare l’autrice delle parole delle mille lire. È il momento di far vivere il sogno di Angela, di rendere concrete le parole nella sua vita: «In fondo lei era sicura che il suo sogno fosse più forte di quello degli altri. Le era già capitato altre volte di fare delle scelte, e lo sapeva che poi ci sarebbero state le conseguenze, ma al mondo non si poteva solo pensare a tirare avanti, e anche Lorenza, del romanzo, avrebbe fatto la stessa cosa.» E cosa resta, allora, dei sogni degli altri? Restano i colori dei sentimenti, perché il sogno galleggia sulla realtà, lasciando la sua scia lucente. Il sogno stesso dell’autore si fa spazio in questo libro, ed è quello con il quale gioca assieme al lettore, e un po’ sembra quasi imbrogliarlo, ovvero la scrittura, sulle orme di una certa metaletteratura. Scheda del libro: Fuego di Paolo Repossi, Libreria Ticinum Editore - 2023 Autore: Paolo Repossi Genere: Narrativa Casa editrice: Libreria Ticinum Editore – Collana Stanza Landini Pagine: 150 Prezzo: Euro 15,00 ISBN: 8899574960   Chi è Paolo Repossi: Fuego di Paolo Repossi, Libreria Ticinum Editore - 2023 classe 1967, è nato e vive nell’Oltrepò Pavese. Di formazione geografo, di professione funzionario regionale, ha lavorato nel vigneto tutte le sue estati da ragazzo. Si è poi occupato di cartografia, di gestione delle acque, della mitigazione del dissesto idrogeologico e attualmente di sviluppo locale. Sposato, due figli, nel tempo libero viaggia in Vespa per le strade di collina, cammina tra i vigneti e coltiva melograni. Ha pubblicato finora tredici libri, tra romanzi e raccolte di racconti.

Nata oggi. Virginia Woolf e la sua vita nel taglio di gioia e di angoscia

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Londra, 25 gennaio 1882, nasce Virginia Stephen conosciuta al mondo come Woolf, fra le protagoniste della letteratura del XX secolo. Abile esploratrice dei meandri della coscienza, in particolare di quella femminile. É stata anche una figura influente nell’attivismo femminile del suo tempo. La sua partecipazione al movimento per i diritti delle donne e i suoi saggi, veri e propri colloqui, leggeri e veloci come voleva, con i lettori, a metà fra racconto critico e racconto biografico, hanno contribuito a gettare le basi per una maggiore consapevolezza e uguaglianza di genere. Sul piano narrativo, l’uso del flusso di coscienza, la struttura temporale non lineare e la focalizzazione multipla hanno saputo ridefinire il modo di raccontare e di comprendere le storie. Nei suoi romanzi, i personaggi si muovono in un tempo individuale e singolare all’interno del tempo della Storia in frammenti che si uniscono ad altri come in un mosaico perché, come ha scritto in Orlando: «La vita – ne convengono tutti coloro la cui opinione è di un certo valore in materia – è l’unico tema adatto per un romanziere o un biografo.» Fiume Ouse, 28 marzo 1941, Virginia Woolf muore suicida lasciandosi annegare dopo essersi riempita le tasche di pietre e aver lasciato una lettera al marito, l’editore e scrittore Leonard Woolf.
«Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E stavolta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questa mia come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere felici più di quanto lo siamo stati noi.»
“Sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare”. Togliersi la vita, questa la scelta finale, un gesto da sempre considerato estremo, reato, peccato, scandalo.  In particolare, Sartre ritiene il suicidio come un atto di libertà, essendo l’individuo responsabile delle sue scelte, ma al contempo rappresenta un atto estremo di fuga dalla responsabilità. Secondo Heidegger, il suicidio sarebbe la risposta disperata all’angoscia esistenziale, un atto perciò che riflette la fuga dalla responsabilità di essere autentici e di abbracciare la totalità della nostra esistenza temporale. Spesso è proprio il suicidio a rendere ancora più immortali figure come Virginia Woolf e altre sue contemporanee poetesse e artiste che vollero troncare con violenza il filo della loro esistenza nel lungo secolo delle catastrofi mondiali, circondandole per sempre di un’aurea perturbante. Virginia Woolf soffriva di crisi di ansia e profonde depressioni, crolli e ricadute in stati di instabilità emotiva, le cui prime avvisaglie risalgono alla morte improvvisa della madre, cui seguirono la perdita prima di una sorella e poi del padre, nonché l’abuso da parte di due fratellastri.   Nel libro “La mia vita con Virginia”, relativamente agli ultimi giorni della vita della scrittrice, nei quali era caduta nel baratro di una “buia depressione”, Leonard Woolf scriveva: «Sapevamo che in qualsiasi momento poteva tentare di uccidersi. L’unica sua possibilità era di arrendersi, di riconoscersi malata, il che non voleva.» Virginia Woolf, dunque, lottò prima di arrendersi e di dirsi certa di stare impazzendo. Non era riuscita a sopportare l’enorme peso che da sempre la faceva vacillare, quello stesso peso che scelse per farsi trascinare dalle acque. Negli ultimi giorni della sua vita era demoralizzata e impaurita per la devastazione bellica, percepiva l’orrore esterno attraverso la confusione interiore, sognava forse una vita più autentica per l’umanità, una vita piena di pace per se stessa. Nella sua visione così ampia e universale delle cose del mondo, James Hillman offre una analisi sul tema del suicidio a dir poco sovversiva, ribaltando completamente l’idea dei concetti vita-morte. Nel suo saggio Il suicidio e l’anima, pubblicato per la prima volta nel 1964, egli afferma che: «Il suicidio è il tentativo di passare violentemente da una sfera all’altra, attraverso la morte. L’angoscia che precede il suicidio rappresenta la lotta dell’anima con il paradosso di vari opposti.» Lo psicoanalista americano non cerca di spiegare la motivazione del gesto, cosa che naturalmente siamo tutti portati a fare, domandandoci, inoltre, perché nessuno ha saputo tendere una mano sull’orlo dell’abisso. E infine, dopo tante indagini, il gesto estremo resta un mistero. Restiamo su quest’ultima parola, mistero, di derivazione greca, Mysterion, che ancora prima di designare qualcosa di inspiegabile, indicava la celebrazione di riti di iniziazione, così come la morte intesa come passaggio, l’uscita da uno stato per entrare in un altro. Ha scritto Edgar Allan Poe: «Ciò che noi chiamiamo morte non è che la dolorosa metamorfosi.» Ed è proprio sull’esperienza della morte che si sofferma James Hillman. Oggi siamo sempre più spaventati dall’idea di morte e di tutto ciò che essa rappresenta, ovvero fine, malattia, deperimento. Cerchiamo di evitarla, allungando, il più possibile, il tempo della vita. E così facciamo con le circostanze che ci arrecano dolore: cerchiamo di allontanarle, di non affrontarle, ma nel frattempo un grido di angoscia risale dal nostro Io più profondo e, per usare le parole di Virginia Woolf ci “taglia in due il cuore.” Non vogliamo incontrare la morte, ma sentiamo i suoi artigli dilaniarci, perché in realtà siamo già spenti dentro. Non vogliamo guardarci dentro, analizzarci, o non troviamo la guida che ci affianca nel buio mentre attraversiamo il dolore, quando cioè siamo morti dentro. E allora, tornando al saggio di Hillman, la morte assume un significato diverso, una spinta a voler vivere: «l’impulso di morte non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita; potrebbe esprimere il bisogno imperioso di incontrare la realtà assoluta, la richiesta impellente di una vita più piena attraverso l’esperienza della morte.» Nei Diari, esempio della più alta fusione tra vita e letteratura, Virginia Woolf dichiara: «Questo insaziabile desiderio di scrivere qualcosa prima di morire, questo senso divorante della febbrile fugacità della vita, che mi fa avvinghiare, come un uomo a una roccia, alla mia sola ancora.» L’appiglio della parola, della traccia di sé in una breve esistenza, la gratitudine a chi ha saputo sempre supportarla, la trascinava paradossalmente verso il fiume. Ogni pietra raccolta e infilata nelle tasche le appesantiva il passo fino a sprofondare, a non sentire più aria nei polmoni. La scrittrice ha scelto. Non ci è dato sapere, né spiegare perché, solo immaginare.

«Finché non abbiamo detto di no alla vita, non le abbiamo detto davvero di sì.»

(James Hillman)