Qual è il confine fra sogno e realtà? Cosa si nasconde oltre quella linea sottile che separa lo stato di veglia dalla condizione di torpore che ci allontana dal mondo reale? Han Kang non dice, ma narra, nella sua trama divisa in tre atti, di una scelta apparentemente drastica che sconvolge una intera famiglia. Scheda del libro: Autore: Han Kang Genere: Narrativa Casa editrice: Adelphi Pagine: 177 Prezzo: Euro 18,00 ISBN: 9788845931215 Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra Yeong-hye, moglie mediocre, prevedibile e sottomessa, così come la descrive la voce narrante del marito nella prima parte, conduce una vita ordinaria, muovendosi silenziosamente e discretamente nella relazione coniugale. Quando decide di smettere di mangiare carne, in seguito a sogni terrificanti, il legame con le persone che le stanno accanto comincia a incrinarsi, fino a segnare crepe irreparabili. Se i genitori della donna, dapprima assaliti da rabbia e contestazione, subiranno impotenti la sua decisione, la sorella maggiore Hin-hye suo marito ne resteranno invischiati. La prima si riscoprirà vittima di una vita non vissuta per un eccessivo senso di responsabilità e sopportazione, il secondo, artista taciturno che inserisce in ogni suo video un volo di uccelli, attratto da una macchia mongolica sul corpo di Yeong-hye, ritroverà la sua vena creativa e una spinta vitale che non ricordava più di avere, fino a compiere un passo che gli costerà la sicurezza familiare. «La cinse per la vita e le accarezzò la macchia: avrebbe desiderato condividerla con lei, che gli venisse impressa sulla pelle come un marchio a fuoco. Voglio inghiottirti, voglio che tu ti sciolga dentro di me e scorra nelle mie vene.» È questa la parte centrale dell’intera storia, scandita dal secondo racconto, in cui dagli incubi si passa a una dimensione sempre più eterea. Il corpo della protagonista diventa veicolo di trasfigurazione interiore per l’artista che lo dipinge. La carne si volatilizza, il corpo scopre il suo involucro, fino a scendere in profondità del nucleo personale e familiare. Il corpo diventa, dunque, un vero e proprio campo di battaglia per le convinzioni della protagonista e per le proiezioni di coloro che la circondano. Il rifiuto del cibo e del modo di vivere convenzionale di Yeong-hye si trasforma in una lotta per l’autonomia e l’autodeterminazione, sfidando le norme sociali e le aspettative familiari. Con una prosa lirica e visionaria, ricca di metafore visive che creano atmosfere sognanti, e una struttura narrativa teatrale, l’autrice coreana indaga, destabilizzando, la tematica esistenzialista dell’allontanamento degli esseri umani, che pur vivono uno accanto all’altra. Si è soli pur condividendo la stessa casa, a separare sono i vuoti interiori inespressi, che si dilatano al punto da creare distanze insondabili e, soprattutto, inconciliabili. Nella scelta della protagonista si cela il disgusto per la dimensione carnale, animale e umana, canale di violenza, una brutalità che scalfisce anche i nuclei più intimi, dissolvendoli in particelle che si allontanano fra loro. Il dualismo corpo-anima è al centro della narrazione. Il corpo di Yeong-hye diventa man mano invisibile e lei finisce per assomigliare a un vegetale, alle creature di cui si nutre, fino a quando, rinunciando completamente al cibo, non diventa anch’essa un vegetale. «guarda, sorella, sto facendo la verticale; sul mio corpo crescono le foglie, e dalle mani mi spuntano le radici… affondo nella terra. Di più, sempre di più, all’infinito…» Visionario e dissolvente, l’ultimo atto del romanzo può diventare la metafora dell’anima che si libera dell’involucro materiale in cui si ritrova nella sua esperienza umana, un processo di svuotamento dal carnale allo spirituale, dalla violenza alla riappacificazione con l’universo intero, vegetale e aereo, un volo al di sopra della condizione materiale in cui noi esseri umani siamo ingabbiati nell’epoca contemporanea. “La vegetariana” di Han Kang è dunque una meditazione profonda su ciò che significa essere veramente liberi, un viaggio all’interno dell’anima che muta quando quello che trova fuori di sè non regala pace, un’esplorazione dolorosa e epica di ciò che resta quando tutto il resto è stato tolto. Chi è Han Kang: Nata a Gwangju il 27 novembre 1970, è figlia dello scrittore Han Seung-won. Nel 2016 esce il suo romanzo “La vegetariana”, grazie al quale si aggiudica il Man Booker International Prize. Il romanzo è pubblicato in Italia da Adelphi, come anche “Atti umani” e “L’ora di greco”. Il 10 ottobre 2024 le viene conferito il Premio Nobel per la Letteratura per: «la prosa intensamente poetica che si confronta con i traumi storici e che rivela la fragilità della vita umana» e per la sua «consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, tra i vivi e i morti, e perché con il suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice della prosa contemporanea».«Se solo i nostri occhi non fossero visibili agli altri (…) Se solo si potessero nascondere i propri occhi al mondo.»
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La vegetariana di Han Kang
Pampaluna di Sara Durantini
Riscriver-si come donna, rivivendosi bambina e scoprendosi ancora. É questa l’operazione che in “Pampaluna”, Dalia Edizioni – 2024, fa Sara Durantini, autrice di origini mantovane, ternana di adozione, impegnata da anni nell’indagine della scrittura femminile. Ricordiamo il suo libro dedicato al Premio Nobel per la Letteratura 2022 “Annie Ernaux. Ritratto di una vita.” Dei Merangoli Editrice – 2022.
Esistono luoghi che si insinuano prepotentemente nelle crepe della memoria. Restano a farsi ricordare con i loro colori, suoni e odori. Sono luoghi che, a distanza di anni, ci fanno domandare se sono realmente esistiti, perché si sono mescolati a tal punto con il nostro vissuto personale che ci appaiono oramai estranei, di una estraneità che destabilizza perché in realtà, sappiamo bene, cela profonde radici a noi familiari. Succede con i luoghi della nostra prima infanzia, di cui ci arrivano immagini sbiadite che cominciamo a rincorrere come ipnotizzati, attratti dal desiderio di conoscere quanto indietro possano riportarci. Succede a chi vuole ritrovarsi, quando scopre di appartenere a quel luogo e di essere fatto di un tempo che vuole trovare posto nel punto esatto in cui, come diceva Sartre, passato e futuro si incontrano, quando è nel presente che diamo un senso a chi siamo e vogliamo essere. Cominciano così tutte le storie, raccontando di luoghi lontani che forse sono stati, forse chissà, dove la vita accade… « ‘Pampaluna’ sussurrò Caterina a fior di labbra. E poi, guardandomi dritta negli occhi, aggiunse: ‘così si chiama la tua cascina, lo sapevi?’ Fu quella la seconda volta che sentii il nome di quel luogo di fuoco e acqua.» Scheda del libro: Autore: Sara Durantini Genere: Narrativa Casa editrice: Dalia Edizioni Pagine: 144 Prezzo: Euro 14,00 ISBN: 9788899207694 La storia di Pampaluna vede i suoi esordi editoriali vent’anni fa, per poi rinascere a nuova vita, scavando nei ricordi più recenti alla ricerca di quei fili invisibili che si intrecciano inevitabilmente a quel che siamo stati ieri. Una storia raccontata per sfuggire all’oblio, la prigione a cui troppe volte, nel corso dei secoli, sono state relegate le donne. Protagoniste, il più delle volte, di storie silenziose, di una monotona quotidianità che nasconde una sacralità di primo acchito imperscrutabile. «… una casa azzurra immersa nell’oro del granoturco vicino alle sponde del fiume Oglio.» Una immagine quasi fiabesca, immersa in una dimensione atemporale apre la narrazione, che per tutto il tempo si avvale di una rievocazione sinestetica. Dall’odore del fieno e del «pane tostato inzuppato nel latte appena munto» alla luce cerulea delle imposte, fino al «cielo stellato e l’aria tiepida». Una mamma che rammenda e una nonna che tiene sulle ginocchia un cesto di vimini mentre pigolano pulcini … e i tempi passano. E la protagonista bambina, di quattro anni, con le trecce che scendono sulle spalle, viaggia a bordo di un trattore fra i campi e festeggia la spremitura dell’uva … e il tempo passa anche per lei, in un moto ondoso che oscilla costantemente tra passato e presente, mentre la Storia le scorre accanto, facendo il suo corso. «Sono le piccole cose che restano dentro. Si appiccicano alla pelle, come i luoghi vissuti, i profumi respirati, i libri letti, la musica ascoltata.» “Pampaluna” è, fra le tante cose, un amarcord denso di eventi del passato italiano e di quelli che hanno segnato il decennio ’80-’90, dalla musica pop nostrana e d’oltreoceano al cinema, dall’alluvione del Polesine alla caduta del Muro di Berlino. Perché noi siamo fatti di storie che si intrecciano alla grande Storia, siamo il riflesso delle piccole storie che ci attraversano e gli avvenimenti che ci segnano in quanto comunità. Ma c’è una parte di comunità sociale che prende vita in “Pampaluna” e si rivela con una voce potente, quella femminile, della sua condizione nella società patriarcale.«Per molto tempo, sono stata un corpo senza storia.»
«Ero nata in un corpo a cui era stata preclusa la parola.»
La piccola protagonista scopre di non articolare bene le parole e il suo diventa un mondo ovattato fatto di suoni nascosti nella sua anima di piccola donna in crescita. Deve imparare ad articolare le parole durante le sessioni di logopedia nel centro abitato in cui si trasferisce a seguito della separazione dei suoi genitori, coinvolta in una vera odissea interiore. E allora viene voglia di correre ad abbracciare la bambina smarrita, confusa dalle incoerenze del mondo adulto, delusa dalle aspettative tradite, mentre fuori il Pci viene sconfitto e il Muro di Berlino crolla. Come nelle fiabe, sarà una fata madrina a porgerle in dono lo strumento per affrontare le sue paure più grandi: una maestra con un quaderno e una penna. E le storie sopite prendono vita e plasmano la realtà della giovane protagonista che, attraverso l’istruzione, accede a una nuova realtà, oltrepassando le barriere e le aspettative di classe. E chi è la nuova donna che oggi racconta? Un insieme di frammenti di ieri e di oggi: l’immagine delle lunghe trecce dorate come il fieno nel granaio dove correva con gli zoccoli ai piedi e si tuffava sulle balle scorticandosi le ginocchia, cadendo dalla scala, l’adolescente riflessiva dal petto stretto nella maglia di Fiorucci che ascolta la musica nella sua stanza, e intanto sogna di diventare scrittrice, ma non può dirlo e deve confessare di voler fare la maestra, mestiere dignitoso e remunerativo. Con il suo lungo racconto “Pampaluna”, Sara Durantini offre, alla stregua della sua prediletta Annie Ernaux, una singolare prospettiva che connette l’esperienza personale a questioni di più ampio respiro sociale, dal persistere del pensiero patriarcale alle soglie del Duemila alla liberazione della donna, appartenente alla classe media, attraverso l’istruzione. E come si libera la giovane protagonista di questo racconto? Attraverso la parola scritta, che per affermarsi deve conoscere la vergona della sua immaginazione. Come accade per la voce narrante di “Quaderno proibito”, romanzo scritto da Alba de Céspedes e pubblicato nel 1952, per una donna le proprie confessioni su carta devono restare nascoste, perché, come scrive Durantini: «Solo la carta, il nudo foglio bianco le permetteva di esprimersi. Il foglio bianco era sinonimo di una vastità di possibilità.» Ma cosa può esprimere di davvero importante una donna? Agli occhi della società patriarcale i suoi pensieri possono apparire vacui e inutili, e questo una donna lo sa, lo ha sempre saputo. Sara Durantini, passando in rassegna i suoi ricordi, si avvale di citazioni di scrittrici per esprimere le consapevolezze acquisite, facendo ricorso a parole pronunciate con coraggio, embrioni di creature che hanno imparato a muovere i primi passi nel mondo con crescente coscienza. Risiede in questo la potenza della scrittura femminile.Chi è Sara Durantini: Sara Durantini, nata a San Martino dall’Argine (MN) nel 1984, è laureata in Lettere moderne e da giovanissima inizia a dedicarsi alla scrittura. Infatti vince l’edizione 2005-2006 per la sezione inediti del Premio Tondelli con il racconto L’odore del fieno e nel 2007 pubblica Nel nome del padre (Fernandel Editore). Partecipa alle antologie collettive di varie case editrici. Nel 2021 pubblica L’evento della scrittura. Sull’autobiografia femminile in Colette, Marguerite Duras, Annie Ernaux (13lab editore). Nel 2023 esce per Dalia Edizioni l’antologia da lei curata dal titolo “La terra inesplorata delle donne”. Da oltre dieci anni scrive articoli per riviste letterarie online e cartacee. L’intervista di Mi libro in volo a Sara Durantini.«Li vedi i solchi lasciati dal sangue? È su quelli che è stata costruita la tua casa. È lì che ora vive il tuo tormento.»
Pensieri dipinti di Giuditta Manganoni
Si prende il suo spazio di donna, autopubblicandosi, Giuditta Manganoni. Un pertugio dell’anima attraverso il quale fare luce, dentro e fuori di sé.
Gli spazi aperti di Madre Natura parlano attraverso i voli di falco, i semi di soffioni al vento, il canto di grilli e cicale nell’afa estiva, nel ricordo di una gatta “più cara del sale” fino all’incontro con un’adulta capriolo, un selvatico incontro epifanico, come a guardare negli occhi della dea Diana.
É tutto un battito di vita quello che si percepisce dalla lettura degli scritti di Giudi Manganoni, prima poesie e poi brevi racconti, che cantano il divino del mondo nascosto nelle piccole creature. Sono tutte folgorazioni quelle che invia dall’alto la musa ispiratrice, e l’autrice, come colta da rapimento, ammanta con versi e con immagini vivide e mitologiche la fantasia del lettore.
Le parole sono accompagnate da fotografie in un connubio indovinato, che amplifica la visione artistica in un dialogo costante fra sguardo interiore e sguardo esteriore. Nulla è definito, come lo sguardo limitato dalla siepe di Leopardi. Non si guarda solo con gli occhi.
(Lettera aperta) La scrittura si fa scavo profondo: “vivere la notte è sublime”, guado di dolore necessario, perché “ogni respiro è una seconda possibilità”. Il silenzioso varco notturno è il raccoglimento interiore di un’anima che vuole scoprire il suo stare al mondo, immersa in una Natura ora benevola ora maligna, che ora dona e ora toglie gli affetti più cari, sottrae il tempo “ad ogni primavera/che scandisce/inesorabile”. Un’anima che diventa figlia della Natura, una rosa dal peduncolo forte radicato alla terra, nonostante il dolore che sale dal mondo, come la lacrima di rugiada sul viso cotto dal sole del solitario spaventapasseri “creato per allarmare/non per amare”. Un’anima che si nomina “Figlia dell’autunno” che s’acquieta in dolce attesa mentre l’inverno digrada in lontananza. E poi si fa “Donna Primavera”, “una fragrante Primavera che rinasce.” I versi di Manganoni sono il sussurro di un Femminile in ascolto, che si indigna all’arrivo di “orde di maschi che si avventano/su donne indifese/per sollazzare i propri istinti”, al gelo che incombe quando combattono “fratello contro fratello” perché è “Pazzo e senza Dio/ chi provoca sangue di innocenti”, che soffre dinanzi agli stermini, che coglie l’odore della paura ai tempi del Covid. Un Femminile consapevole del suo sguardo caleidoscopico “Tu, Donna,/sei come la crosta terrena/ a volte difficile da penetrare”. Un Femminile che loda la sacralità dello stare al mondo, come una lupa che, sotto i raggi lunari culla nel grembo la nostalgia e allatta la consapevolezza che “è nostra la scelta/di elevarci o cadere”. Un invito a innalzare il nostro Essere divino a un sentire universale per il viandante smarrito che scorge “in lontananza un lumicino”, un posto reale per l’autrice e gli abitanti dell’Oltrepo’, dove “si affronterà ogni sfida/con il sorriso.”, dove tendere la mano alla solidarietà. Il ricavato della vendita del libro viene donato alla Fondazione “Villa Gaia – Casa delle Donne” di Rea Po (Pv), struttura che accoglie una biblioteca di genere, centro di documentazione e ricerca sul lavoro, da conforto e aiuto pratico a donne e bambini in difficoltà. Chi è Giuditta Manganoni: Vincitrice di concorsi di poesia e di arte, vive a Voghera ed è autrice di racconti raccolti in varie antologie, attrice, lettrice e moderatrice. Collabora nelle scuole con bambini e ragazzi attraverso il teatro, la musica, la parola. Nel 2021 ha ricevuto dalla Presidentessa de Gli stati generali delle Donne, Fondazione Gaia, Sportello Donne, Isa Maggi l’onorificenza “Donne che ce l’hanno fatta”. Nello stesso anno, il Tecnico Paco Oliver Global/Dott. Francisco Morales, Global Creation sin Limites (the World Leader Award) di Città del Messico, la nomina moderatrice italiana e voce che trasmette emozioni per le onorificenze ai Magistrati rappresentanti di Stati Sud Americani. La maggior parte dei suoi lavori sono svolti a scopo benefico.“cerco la felicità/ma non è di questo mondo (…) Cerco un punto solido e fermo/in tempi di fumo nero”
Cuore nero di Silvia Avallone
«Ecco dove l’intero discorso viene a toccare la quarta specie di delirio: quello per cui quando uno, alla vista della bellezza terrena, riandando col ricordo alla bellezza vera, metta le ali, e di nuovo pennuto e agognante di volare, ma impotente a farlo, come un uccello fissi l’altezza e trascuri le cose terrene, offre motivo d’essere ritenuto uscito di senno. Quel delirio, dico, che è la più nobile forma di tutti i deliri divini e procede da ciò che è più nobile, tanto per chi ne è preso quanto per chi ne partecipa; e chi conosce questo rapimento divino, ed ami la bellezza, è detto amatore. Perché, secondo quanto s’è detto, ogni anima umana per sua natura ha contemplato il vero essere, altrimenti non sarebbe penetrata in questa creatura che è l’uomo. Ma non per tutte le anime è agevole, partendo dalle cose terrene, far affiorare nella memoria quel vero essere, non per quelle che ebbero lassù una visione rapidissima di quelle realtà, non per quelle che, quando sono crollate a terra, ebbero mala sorte cosicché, stravolte verso l’ingiustizia da certe compagnie, dimenticarono quanto allora videro di santo.» (Fedro-Platone)
Cerchiamo tutti un posto nel mondo, nel viaggio-vita che facciamo. Quando intraprendiamo il percorso, non sempre sappiamo dove vogliamo arrivare, ma a guidarci verso quel posto è un’eco lontana. É nostalgia che ci spinge a camminare, pure lungo le vie tortuose che ci si aprono davanti, in direzione di un posto che ci chiama. Per alcuni sarà facile individuare la luce che ci porta dritta al punto, per altri la fiammella oscilla nel buio e fa smarrire la via. Allora si ferma, torna indietro, poi rifà un passo e poi ancora uno indietro. Si guarda le spalle, sempre buio, e allora sprofonda e chiude gli occhi.
Prima di aprirsi al sole, il seme dorme, inabissato nel punto più caldo del terreno, quello in cui ristagna la promessa di nuova vita. Solo che il seme ancora non lo sa, che una forza più grande lo solleverà da quel suolo per portarlo alla luce.
É nell’inverno che riposa il dolore, che quel richiamo lontano ci scuote a intermittenza. E allora lo sentiamo sotto le unghie lo strazio di quel lungo e impervio ritorno a casa.
Quando hai quattordici anni e la vita ti ha già privato dell’amore più grande, quello che ti ha preservato dalle fragilità che ti tengono in bilico, e la rabbia esplode, violenta e impetuosa, affossarti con le tue mani è l’unica strada che conosci. Perché ti senti verme che si insinua in un frutto già marcio e ti ripari, come un feto che non vuole più nascere.
Scheda del libro:
Autrice: Silvia Avallone
Genere: Narrativa
Casa editrice: La Scala – Rizzoli
Pagine: 368
Prezzo: Euro 20,00
ISBN: 9788817184601
Emilia si mette sulle spalle il suo duro passato e sale sulla montagna, come Sisifo. Il passato rotolerà sempre sotto di lei, e lei raccoglierà ogni volta quel masso e, sempre più stanca, proverà a risalire, scivolando ogni volta.
«Troverai più nei boschi che nei libri.
Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà.
Il silenzio, aveva pensato. É questo l’insegnamento.
Il silenzio e la luce, e l’inverno che finisce.»
Bruno abita la montagna, da sempre. É figlio di Sassaia, un borgo sperduto fra i boschi di una frazione chiamata Alma, l’anima di un posto dove la neve luccica sempre fra l’erba. Come una brace pronta a infiammarsi. Come la vita che si spegne e riaccende. Nei ricordi che fanno male e riemergono ai primi accenni di primavera. Emilia e Bruno si incontrano e imparano ad amarsi, con le loro storture e malinconie, tormenti e insicurezze. Fra andate e ritorni, sofferti e riscattati. Silvia Avallone scrive questa storia, la storia di due solitudini che custodiscono un dolore antico dal quale ripararsi. Sono sperduti, come il posto in cui decidono di rifugiarsi. E si fanno compagnia. Con gli occhi, le mani, i corpi. Avvolti da un velo di silenzio destinato a squarciarsi con violenza. Perché per tornare veramente a casa dobbiamo sapere cosa ci aspetta. Da novembre a fine marzo dobbiamo guardarlo con coraggio l’inverno, sentirne il gelo e aspettare che si sciolga. Emilia giunge il 2 novembre a Sassaia, accompagnata da suo padre, uomo distinto e tenace, che la aiuta a riaprire la vecchia casa di famiglia, dando aria alle stanze chiuse da anni. Emilia sbraita perché in quella casa non c’è la televisione e lei non riesce ad affrontare l’inferno delle voci della notte se c’è silenzio intorno a lei. Rimasta sola, chiede a Bruno, suo dirimpettaio, di farle compagnia. Lui le legge poesie di Mandel’štam. Bruno è maestro elementare di una pluriclasse, Emilia trova impiego come restauratrice nella chiesa di Alma accanto al Basilio, l’anziano imbianchino di paese, un tempo aspirante artista, che conosce il suo passato e che la accoglie in silenzio. In paese tutti osservano con sospetto la nuova coppia, qualcuno sa qualcosa dei loro oscuri passati, qualcuno tace, qualcuno parla. E l’idillio si spezza. Perché è un quadretto di serenità solo abbozzato. La vera felicità è ancora lontana. Emilia dovrà affrontare il suo passato imparando a non sentirsi sempre sbagliata, additata e riconosciuta per il bolo nero che si porta dentro, con il proiettile conficcato nel cuore sempre pronto a esplodere. Così torna sui passi di quell’oscuro passato, mentre Bruno, che non ha saputo capirla, impara a incontrare i suoi fantasmi e a ricentrarsi. “Cuore nero” è un libro che, con parole crude, dirette e taglienti, mette in scena il dramma di quella parte di emarginati, artefici del male, che vivono al buio della società, rinchiusi dove dovrebbero essere dimenticati: il carcere. Silvia Avallone ci fa entrare in queste vite, fra presente e passato. Il dopo è una incognita per chi esce dal carcere. Anche se riesci a inserirti nella società, non sconterai mai la pena più grande: il perdono verso te stesso. Il male ti appartiene, è il marchio dal quale tutti ti riconosceranno e ti sarà impossibile sentirti nuovo. Perché difficilmente il carcere ti riabilita. Anche se trovi chi investe su di te e si batte per te, tu sarai sempre il diverso. Emilia trascorre più della metà della sua vita in un limbo di anni che la rendono senza età, stroncando la sua adolescenza mentre il corpo si fa grande, tra le sbarre del carcere, intrecciando la sua esistenza a quelle di altre detenute “stronze sfigate”. Fino a stringere una duratura amicizia con Marta Vargas, la veemente ribelle che legge i tomi della letteratura e scrive al Presidente della Repubblica un’invettiva sull’importanza dell’istruzione in carcere. Perché è grazie all’istruzione che ci si può cominciare a redimere, a non vivere come bruti in eterno. Sostenute da donne visionarie e coraggiose, che credono fermamente nella riabilitazione, Emilia e Marta prima si diplomano e poi si laureano. Ma non sarà facile, per loro, imparare a vivere il dopo. Emilia può contare su una solida presenza: suo padre Riccardo, uomo che sa convivere dignitosamente con il dolore che ha spezzato la sua vita, l’uomo che vive in nome della famiglia come unità indissolubile. Riccardo è la mano tesa nel buio perenne di Emilia. E quando il dolore si frantuma, scheggia dopo scheggia nel suo cuore, sarà Riccardo a farle capire come ricomporre i pezzi. «Non ti ho mai ringraziato.» “«Non si ringraziano i genitori.» Così come Bruno riceverà in dono la nuova occasione per capire cosa sia veramente una famiglia, per rivivere una infanzia negata troppo presto. Silvia Avallone scandaglia ogni emozione compressa di questi personaggi, tenendo i lettori in perenne bilico di una suspence dolorosa. Prima ci mostra cosa sia il dopo per loro, poi ci immerge nell’apnea del loro passato. Impariamo così a conoscere veramente chi sono, entrando fra le pareti, buie e silenziose, delle loro anime. Anime oscure che noi possiamo illuminare, provando a tendere la nostra mano per ricordare loro che hanno già visto la bellezza vera, che la vera Bellezza è sempre stata viva in loro. E solo ritrovandola si può andare incontro all’Amore-Vita.Chi è Silvia Avallone: (Biella, 1984) è tra le voci più importanti della nostra narrativa. I suoi romanzi sono tradotti in tutto il mondo e hanno vinto numerosi premi, tra cui il Campiello Opera Prima e il Benedetto Croce. Per Rizzoli ha pubblicato Acciaio (2010, da cui è stato tratto l’omonimo film), finalista al Premio Strega 2010, Marina Bellezza (2013), Da dove la vita è perfetta (2017) e Un’amicizia (2020).«ha trovato in lui l’unico medico dei suoi grandissimi tormenti.» (Fedro – Platone)
Breve riflessione sulla “Scrittura femminile”
«Quando una donna si mette a scrivere un romanzo, scoprirà di voler costantemente alterare i valori stabiliti – rendere serio quel che appare insignificante a un uomo, e triviale quello che per lui è importante. E per questo, naturalmente, sarà criticata.»
A parlare così è Virginia Woolf nel 1929, in un passaggio che fa parte della raccolta dei suoi Saggi scritti fra il 1904 e il 1941, riuniti da Il Saggiatore, 2011 nell’edizione italiana “Voltando pagina. Saggi 1904-1941″.
Oggi, a un secolo di distanza, siamo ancora a discutere la questione e a domandarci se ha senso parlare di “scrittura femminile”. Perché è sull’aggettivo che più dobbiamo soffermarci. Perché la scrittura va differenziata per genere?
Storicamente le scrittrici donne appaiono sulla scena letteraria tardi, ma esse hanno sempre scritto. La loro produzione ha subito oscillazioni nelle varie epoche sottostando, il più delle volte, a un totale oblio. Ma tracce della loro presenza si riscontrano in quelli che, rifacendoci a Saffo, possiamo definire frammenti di scrittura, ovvero lettere, ricette di cucina, appunti di viaggi, opere spirituali, versi poetici. La loro voce si è insinuata come un sussurro perpetuo nella storia, che a tratti ha innalzato la sua frequenza (nel ‘600 con le Preziose in Francia prevale l’audacia nel voler asseverare la libertà alla vita sociale e nel ‘700 sono più le donne a scrivere rispetto agli uomini, i quali ricorrono a pseudonimi femminili per assicurarsi riconoscimento), per altri ha continuato a subire la negazione della sua autorialità, fino a volersi affermare mettendo in gioco il proprio vissuto in tutte le sue declinazioni.
Giungiamo così al ‘900, il secolo delle Suffragette, dei saggi di Virginia Woolf, verso la quale opera numerose autrici contemporanee hanno contratto un innegabile debito. Si comincia a scandagliare la peculiarità delle relazioni femminili, dell’identità che le contraddistingue. Perché per avere una voce bisognava pur parlare di quel sentire rimasto in silenzio per secoli. Numerose le pubblicazioni di diari e autobiografie che svelavano verità troppo a lungo soffocate all’interno del nido domestico (vedi “Una donna” di Sibilla Aleramo nel 1906 o “Quaderno proibito” di Alba de Céspedes nel 1950) o che scandalizzano per l’ostentazione di un vivere libero e autentico (vedi ”L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza, romanzo riconosciuto in Italia solo nel 2008, a seguito delle traduzioni e successi esteri). Il ‘900, come a confermare la ciclicità del fenomeno dell’oblio delle voci femminili, dopo la seconda metà ha censurato-sotterrato opere italiane che solo negli ultimi anni sono state ripubblicate, spesso in edizioni assai limitate. Autrici come Fabrizia Ramondino, Alba De Céspedes, Fausta Cialente, Anna Maria Ortese, Paola Masino, Milena Milani, Livia De Stefani, Laudomia Bonanni, Goliarda Sapienza sono rinate attraverso il lavoro di inesausta ricerca di scrittrici contemporanee. Da queste opere, credo, dobbiamo ripartire oggi per rivalutare l’importanza di una scrittura che nel tempo si tende a voler soffocare. Da opere in cui non si nascondono verità che talvolta appaiono insignificanti, come la vita casalinga, il pensiero che vi si insinua come l’espressione di un vissuto solo interiorizzato perché difficile da esprimere nel sociale. Perché le parole delle donne custodiscono il segreto del tempo, che passa fuori dalle case ma che si intrufola nelle pieghe del pensiero. Un pensiero che fluttua e si rincorre e che ha la sua dignità letteraria, come ci ha insegnato Virginia Woolf. Un pensiero che può amalgamarsi in sperimentazioni e contaminazioni narrative diegetiche.«Le donne (…) sono il mio pianeta e la mia ricerca, il mio unico “partito” e forse, oltre all’amicizia, il mio unico scopo nella vita.» (Goliarda Sapienza)
Chiassovezzano di Piero Dorfles
Negli ultimi anni, numerosi autori sono tornati a parlare di case. Case che si animano, alla stregua del concetto classico della sacralità dei luoghi. Secondo i Greci, ogni luogo è abitato da un daimon che guida l’uomo verso il suo destino, meglio noto come Genius loci. É stato James Hillman a recuperare il concetto in epoca più recente. Nel libro “L’anima de luoghi”, egli ha affermato che: «I luoghi hanno un’anima. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana.»
Cosa spinge, allora, a parlare di case, in particolare di quelle del passato? Un desiderio di nostalgia o c’è qualcosa di più? Capire forse cosa è rimasto di noi tra le pareti che hanno custodito una parte della nostra vita, o forse l’esigenza di voler dare un senso a periodi difficili da definire, non solo per la storia personale, ma per quella dell’umanità intera. Perché i conti con la storia che appartiene al singolo vanno fatti, prima o poi, in relazione a coloro che ci hanno preceduto e al futuro che costruiamo con le spiegazioni che sappiamo darci nel presente.
Scheda del libro:
Autore: Piero Dorfles
Genere: Narrativa – Memoir
Casa editrice: Bompiani
Pagine: 204
Prezzo: Euro 18,00
ISBN: 9788830108226
É l’8 settembre del 1943 quando Carlo Dörfles, padre del giornalista e critico letterario Piero Dörfles, decide di lasciare Trieste con la sua famiglia e di trasferirsi a Lajatico, in Toscana, nei pressi di Pontedera, nella casa di Chiassovezzano, scelta e acquistata quattro anni prima dal fratello Gillo. Trieste, città cosmopolita agli inizi del ‘900, che contava migliaia di ebrei assimilati di alto rango, fra intellettuali, medici, professionisti e dirigenti statali, viene scelta da Mussolini per promulgare le Leggi razziali nel 1938. Numerosi ebrei, che fino a quel momento non avevano né sentito, né tanto meno manifestato un senso di appartenenza, furono costretti a rifugiarsi lontano da Trieste.
Di questo confinamento, durato fino al maggio del 1945, racconta Piero Dorfles nel suo recente libro “Chiassovezzano. Una casa e una famiglia temeraria in tempo di guerra” edito da Bompiani. Il testo, corredato da numerose istantanee in bianco e nero, si compone di ventritré capitoli, dal tempo circolare, intitolato con i nomi attribuiti alle stanze della dimora di famiglia o con particolari che caratterizzano l’ambiente, come “La stanza del gatto”, in realtà una pantera, racchiusa nel tondo presente in copertina, che come spiega Dorfles: «stringe tra i denti uno scettro, e tiene una zampa sopra una corona. Credo che sia l’emblema della forza vitale della natura, che qui simboleggia il popolo; e che lo scettro e la corona siano i simboli del potere assoluto e arbitrario, del quale si impadronisce il popolo quando si ribella ai regimi monarchici.»
Ed è proprio questo passaggio che racchiude il significato di una ribellione interiore ai familiari che vissero da rifugiati a Lajatico per due lunghi anni, in uno stato di continua angoscia e in una condizione di isolamento, non sempre rispettata… Gillo, il più sovversivo (e inquieto) del gruppo. Simbolo della temerarietà che contraddistingue la famiglia, dove al posto dell’eroismo prevalgono “coraggio e sventatezza”.
Costruita agli inizi del ‘700, Chiassovezzano passa nel secolo successivo nelle mani dell’illustre illuminato “utopista mazziniano di grande sensibilità sociale”, eminente cittadino dalle cariche più alte, Guelfo Guelfi dopo e, nel frangente, “probabilmente era stato un educandato di suore”. Passata successivamente a Dante Bocelli, che l’ha venduta a Gillo Dorfles. Circondata da un ampio giardino, in quanto a infrastrutture la dimora non può vantare agi e comodità. Resa ospitale grazie al tocco di classe della zia Lalla, Chiassovezzano sarà testimone della convivenza di otto “rappresentanti di quattro generazioni”. Nei due anni vissuti assieme, i familiari sapranno stringere importanti legami con gli abitanti più influenti del posto, caratterizzati da un grande senso di solidarietà.
La questione ebraica per la famiglia Dörfles (a seguito della campagna di italianizzazione fascista, Dorfles)
«Non credo che nessuno dei Dörfles si sia mai sentito veramente in colpa perché ebreo, ma il rifiuto di riconoscersi tali, a chi lo guarda con gli occhi del presente, può assumere un significato ambiguo: perché a quel tempo rischiava di concedere dignità alle leggi razziali, di aprire uno spazio logico ai razzisti per dire che, se gli ebrei si vergognavano di esserlo, in fondo, loro avevano ragione a perseguitarli.»
Fra pareti colorate, affreschi, austeri ritratti di dignitosi antenati, tavolini, pianoforte e soffitti a volte, si svolge la vita dei Dörfles, famiglia composta da personalità emancipate e anticonformiste, votate alla libertà di pensiero sulla scia della dottrina steineriana, dell’antroposofia fino all’occultismo. Famiglia che si imbatte nella scoperta della propria identità ebraica. I Dörfles padri non hanno parlato ai loro figli delle origini religiose, degli stermini e delle persecuzioni, hanno preferito preservarli da un passato che sembra non appartenergli più, essendo ormai cittadini inseriti nella società triestina.
Il nuovo libro di Piero Dorfles pone l’accento sulla questione ebraica.
Nel clima culturale dell’emancipazione moderna tra ‘800 e ‘900, nell’Europa centrale si verificò uno sfaldamento della tradizione ebraica che sfociò nel conflitto delle nuove generazioni con i loro padri. Se questi ultimi volevano tenere in vita le tradizioni religiose di famiglia, pur nella condizione di ebrei assimilati, i primi sentivano la frattura fra l’adesione alla modernità in chiave capitalistica e l’adesione alla modernità come intellettualizzazione. I figli si ribellarono ai padri parlando e scrivendo in tedesco, come fece Kafka. Negando il mondo dei padri, essi finivano per negare l’assimilazione, non senza conseguenze critiche come il senso di colpa e il dolore per un ancestrale richiamo alle radici strappate, di quel mondo dimenticato, quel terreno rimosso, cui secondo alcuni critici fa riferimento Kafka nel suo Processo, dimenticandosi di aver dimenticato. Essere ibrido fra ebreo orientale ed ebreo occidentale emancipato, Kafka visse lacerato in due anime che si contendevano il primato della scelta tra la vita e la scrittura: tra i valori della tradizione paterna, la legge del Talmud, e la via d’uscita dall’incertezza e solitudine che implicava il dramma esistenziale della cultura occidentale. Lo scontro con un terreno che, seppur familiare nel suo richiamo, spaventa e smarrisce, secondo quello che Freud definisce un-heimlich, perturbante. E lo stesso padre della psicoanalisi, definito l’ebreo senza Dio, si discostò dalla religione dei padri, ma non poté rimuovere del tutto gli influssi della religione di origine. L’ebreo, diceva Freud, è abituato a stare all’opposizione da solo, perciò le sue posizioni e scoperte appaiono come il risultato del sentimento perturbante dell’isolamento che conduce a rifondare la propria identità attraverso la psicoanalisi, una sorta di sublimazione, in poche parole, dei conflitti interiori causati dal luogo familiare tenuto nascosto. In sintesi, la generazione dei figli di ebrei assimilati, sentirono il peso dei conti in sospeso con le proprie radici da parte dei padri e andarono alla ricerca di nuovi terreni, per Kafka la scrittura e per Freud la scienza.
Gillo Dörfles, ancora una volta, si fa carico del controverso destino familiare.
Scoprire di essere ebrei, senza quasi saperlo di esserlo, senza mai aver praticato la religione o aver fatto parte di cominutà, essendosi assimilati, sposati con non ebrei, avendo cercato in tutti i modi, con rocamboleschi espedienti, di non apparire sulla carta ebrei, è la condizione di ebrei della famiglia Dörfles durante gli anni raccontati in “Chiassovezzano”, periodo che porta alla luce un rimosso storico che si esplica, per talora eccentriche talora inquiete personalità incontrate, in un avito anticonformismo.«Si sentiva in dovere di non essere ebreo, perché non lo aveva scelto lui, visto che era stato allevato nella convinzione che si è quello che si vuole essere, non quello che decidono gli altri.»
Nata oggi. Virginia Woolf e la sua vita nel taglio di gioia e di angoscia
Londra, 25 gennaio 1882, nasce Virginia Stephen conosciuta al mondo come Woolf, fra le protagoniste della letteratura del XX secolo. Abile esploratrice dei meandri della coscienza, in particolare di quella femminile. É stata anche una figura influente nell’attivismo femminile del suo tempo. La sua partecipazione al movimento per i diritti delle donne e i suoi saggi, veri e propri colloqui, leggeri e veloci come voleva, con i lettori, a metà fra racconto critico e racconto biografico, hanno contribuito a gettare le basi per una maggiore consapevolezza e uguaglianza di genere. Sul piano narrativo, l’uso del flusso di coscienza, la struttura temporale non lineare e la focalizzazione multipla hanno saputo ridefinire il modo di raccontare e di comprendere le storie. Nei suoi romanzi, i personaggi si muovono in un tempo individuale e singolare all’interno del tempo della Storia in frammenti che si uniscono ad altri come in un mosaico perché, come ha scritto in Orlando:
«La vita – ne convengono tutti coloro la cui opinione è di un certo valore in materia – è l’unico tema adatto per un romanziere o un biografo.»
Fiume Ouse, 28 marzo 1941, Virginia Woolf muore suicida lasciandosi annegare dopo essersi riempita le tasche di pietre e aver lasciato una lettera al marito, l’editore e scrittore Leonard Woolf.
“Sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare”. Togliersi la vita, questa la scelta finale, un gesto da sempre considerato estremo, reato, peccato, scandalo. In particolare, Sartre ritiene il suicidio come un atto di libertà, essendo l’individuo responsabile delle sue scelte, ma al contempo rappresenta un atto estremo di fuga dalla responsabilità. Secondo Heidegger, il suicidio sarebbe la risposta disperata all’angoscia esistenziale, un atto perciò che riflette la fuga dalla responsabilità di essere autentici e di abbracciare la totalità della nostra esistenza temporale. Spesso è proprio il suicidio a rendere ancora più immortali figure come Virginia Woolf e altre sue contemporanee poetesse e artiste che vollero troncare con violenza il filo della loro esistenza nel lungo secolo delle catastrofi mondiali, circondandole per sempre di un’aurea perturbante. Virginia Woolf soffriva di crisi di ansia e profonde depressioni, crolli e ricadute in stati di instabilità emotiva, le cui prime avvisaglie risalgono alla morte improvvisa della madre, cui seguirono la perdita prima di una sorella e poi del padre, nonché l’abuso da parte di due fratellastri. Nel libro “La mia vita con Virginia”, relativamente agli ultimi giorni della vita della scrittrice, nei quali era caduta nel baratro di una “buia depressione”, Leonard Woolf scriveva: «Sapevamo che in qualsiasi momento poteva tentare di uccidersi. L’unica sua possibilità era di arrendersi, di riconoscersi malata, il che non voleva.» Virginia Woolf, dunque, lottò prima di arrendersi e di dirsi certa di stare impazzendo. Non era riuscita a sopportare l’enorme peso che da sempre la faceva vacillare, quello stesso peso che scelse per farsi trascinare dalle acque. Negli ultimi giorni della sua vita era demoralizzata e impaurita per la devastazione bellica, percepiva l’orrore esterno attraverso la confusione interiore, sognava forse una vita più autentica per l’umanità, una vita piena di pace per se stessa. Nella sua visione così ampia e universale delle cose del mondo, James Hillman offre una analisi sul tema del suicidio a dir poco sovversiva, ribaltando completamente l’idea dei concetti vita-morte. Nel suo saggio Il suicidio e l’anima, pubblicato per la prima volta nel 1964, egli afferma che: «Il suicidio è il tentativo di passare violentemente da una sfera all’altra, attraverso la morte. L’angoscia che precede il suicidio rappresenta la lotta dell’anima con il paradosso di vari opposti.» Lo psicoanalista americano non cerca di spiegare la motivazione del gesto, cosa che naturalmente siamo tutti portati a fare, domandandoci, inoltre, perché nessuno ha saputo tendere una mano sull’orlo dell’abisso. E infine, dopo tante indagini, il gesto estremo resta un mistero. Restiamo su quest’ultima parola, mistero, di derivazione greca, Mysterion, che ancora prima di designare qualcosa di inspiegabile, indicava la celebrazione di riti di iniziazione, così come la morte intesa come passaggio, l’uscita da uno stato per entrare in un altro. Ha scritto Edgar Allan Poe: «Ciò che noi chiamiamo morte non è che la dolorosa metamorfosi.» Ed è proprio sull’esperienza della morte che si sofferma James Hillman. Oggi siamo sempre più spaventati dall’idea di morte e di tutto ciò che essa rappresenta, ovvero fine, malattia, deperimento. Cerchiamo di evitarla, allungando, il più possibile, il tempo della vita. E così facciamo con le circostanze che ci arrecano dolore: cerchiamo di allontanarle, di non affrontarle, ma nel frattempo un grido di angoscia risale dal nostro Io più profondo e, per usare le parole di Virginia Woolf ci “taglia in due il cuore.” Non vogliamo incontrare la morte, ma sentiamo i suoi artigli dilaniarci, perché in realtà siamo già spenti dentro. Non vogliamo guardarci dentro, analizzarci, o non troviamo la guida che ci affianca nel buio mentre attraversiamo il dolore, quando cioè siamo morti dentro. E allora, tornando al saggio di Hillman, la morte assume un significato diverso, una spinta a voler vivere: «l’impulso di morte non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita; potrebbe esprimere il bisogno imperioso di incontrare la realtà assoluta, la richiesta impellente di una vita più piena attraverso l’esperienza della morte.» Nei Diari, esempio della più alta fusione tra vita e letteratura, Virginia Woolf dichiara: «Questo insaziabile desiderio di scrivere qualcosa prima di morire, questo senso divorante della febbrile fugacità della vita, che mi fa avvinghiare, come un uomo a una roccia, alla mia sola ancora.» L’appiglio della parola, della traccia di sé in una breve esistenza, la gratitudine a chi ha saputo sempre supportarla, la trascinava paradossalmente verso il fiume. Ogni pietra raccolta e infilata nelle tasche le appesantiva il passo fino a sprofondare, a non sentire più aria nei polmoni. La scrittrice ha scelto. Non ci è dato sapere, né spiegare perché, solo immaginare.«Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E stavolta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questa mia come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere felici più di quanto lo siamo stati noi.»
«Finché non abbiamo detto di no alla vita, non le abbiamo detto davvero di sì.»
(James Hillman)