Una donna spezzata di Simone de Beauvoir

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Donne non si nasce, si diventa.

È questo lo slogan col quale Simone De Beauvoir riesce a incitare tutt’oggi un pubblico femminile desideroso di riscattarsi da una condizione di stallo interiore e sociale. Ed è proprio con spirito anticonformista e aspettative di rivincita che molto spesso ci si accosta alla lettura del suo libro “Una donna spezzata”, scritto e pubblicato nel 1967. In realtà il romanzo tutto è, tranne che un testo dal piglio ribelle. Le tre protagoniste dei racconti “Una donna spezzata”, che dà il titolo all’intera raccolta, “L’età della discrezione” e “Monologo”, alle quali l’autrice dà voce, sono donne che a un certo punto della loro vita ricevono un duro colpo e devono abituarsi a fare i conti con una frattura interna, insaldabile.

Monique, moglie devota, mamma premurosa e massaia appagata, scopre il tradimento da parte di suo marito con una avvocatessa spregiudicata alla quale l’uomo non vorrà rinunciare, nel momento in cui le figlie, che ormai si sono create una propria vita, si ritrovano lontane da lei.

“Quando si è talmente vissuti per gli altri, è un po’ difficile riconvertirsi, mettersi a vivere per se stessi.”

Nella più completa solitudine, dovrà affrontare un tormento interiore fatto di angosce e di ossessioni, amplificate al punto da domandarsi se in fondo è mai stata davvero padrona della sua esistenza.

“In realtà mi trovo disarmata, poiché non avevo mai pensato di avere dei diritti.”

Nei confronti del marito si sforza di mantenere contegno, si impone di essere allegra e comprensiva, amichevole e paziente, ma nel diario che scrive, quello a cui affida, come ella stessa ammette, parole che nascondono altre verità, emergono collera repressa, sgomento, paralisi, assoluta svalutazione. “Adesso dovrei mettermi decisamente contro di lui. Ma non ho la forza d’impegnare una lotta simile.”

Suo marito ha rotto il patto, ha tradito il loro codice di coppia, lui che in sua moglie vedeva che tutto era armonioso, mentre “Le altre donne gli sembravano sempre o troppo passive o troppo agitate.”

In Monique è in corso una guerra. “Passiamo sotto silenzio certe sensazioni di malessere, disagio, perché non sappiamo trovargli un nome, che però esistono (…) Ho lasciato atrofizzare la mia intelligenza; non mi coltivavo più; mi dicevo: «più tardi, quando le bambine mi avranno lasciata». Monique sprofonda in un baratro di sentimenti incostanti e feroci, inveisce contro il marito e la sua amante e allo stesso tempo ferisce se stessa, lasciandosi andare a incubi e al buio della sua anima ferita.

Quando si recherà a New York a trovare sua figlia minore, ormai donna indipendente, affermatasi sul piano professionale, le chiederà di descriverla, la ragazza, prontamente, le risponderà: “Manchi di difesa, è il tuo solo difetto”.

Tra i pensieri ancora annebbiati, Monique dirà in fine a se stessa: “Io non avevo altro ideale che quello di creare della felicità intorno a me. Non ho reso felice Maurice. E nemmeno le mie figlie, sono felici. E allora? Non so più niente. Non soltanto chi sono io, ma come bisognerebbe essere.” Qualcosa inizia a smuoversi dentro di lei e, con grande timore, si avvia verso il suo ignoto futuro.

Della seconda protagonista non si conosce il nome, ma viene subito presentata come un’insegnante di letteratura francese, dalle idee politiche di sinistra, che ha alle spalle rinomate pubblicazioni come scrittrice, tranne l’ultima che si è rivelata un insuccesso. È una donna emancipata dai solidi principi etici e politici che, giunta a un’età matura, fatica ad accettare la nuova piega che sta prendendo la vita professionale del figlio Philippe, il quale ha deciso di lasciare l’Università. Persino nell’aspetto fisico le sembra cambiato. “Sono io che ho foggiato la sua vita. E adesso la guardo dal di fuori, da lontana spettatrice. È la sorte comune di tutte le madri: ma chi si è consolato col dirsi che la sua sorte è la sorte comune?”

Le sue reazioni appaiono eccessive nei confronti del giovane che la pensa diversamente da lei, non approva i suoi nuovi ideali e a nulla valgono i tentativi del marito che sembra valutare i nuovi eventi con più naturalezza e rispetto, al punto che deciderà di allontanare il figlio dalla sua vita. Appare così una madre egoista e presuntuosa che, a differenza di Monique, affronta il suo ruolo materno con grande inflessibilità. Le due rappresentano il rovescio della stessa medaglia: laddove la prima si sente invincibile, fra le mura domestiche, l’altra percepisce l’instabilità del suo essere donna, impeccabile, che vuole ottenere tutto, successo e consenso da tutti. La sua smania di controllo viene meno nel momento in cui suo figlio le si oppone, mostrandosi come individuo altro da sé, che non rispecchia il risultato dei suoi insegnamenti. Tutta la sua intransigenza di donna solida comincia a sfaldarsi quando, passeggiando accanto al marito, ammetterà: “Ad ogni modo, è vero che la vecchiaia esiste (…) E non è affatto divertente sentirsi finiti.” Una strana consapevolezza si affaccia ai suoi nuovi orizzonti dove le paure fanno capolino tra incertezze e nuove speranze. “Potrò ancora lavorare, sì o no? Il mio rancore verso Philippe s’affievolirà o no?”

Il personaggio femminile dell’ultimo e terzo racconto, il più breve, è Murielle, donna che non ha ancora trovato il suo posto nel mondo e viene sorpresa nel momento più doloroso della sua vita: sola e abbandonata dagli affetti più cari, madre e amanti, soffre atrocemente per la perdita della figlia adolescente che si è suicidata e per aver perso la custodia del suo secondo figlio. Se Monique e la madre di Philippe reagiscono secondo i dettami borghesi di discrezione e compostezza, Murielle, di estrazione sociale più bassa, si esprime in maniera concitata e scurrile. In concomitanza al delirio interiore che invade la protagonista, lo stile del racconto si fa infatti più vivace, a tratti privo di punteggiatura e il ritmo della narrazione sempre più veloce. Al buio della sua stanza, mentre fuori dalla finestra infuriano i botti del nuovo anno, Murielle accusa il suo destino e gli altri intorno a lei di crudeltà e indifferenza. “Delinquenti mi hanno fatta a pezzi se ne fottono del terzo e del quarto ognuno può crepare nel suo angolo i mariti cornificare le loro mogli le madri strapazzare i loro figli e nessuno parla bocca cucita mi fa schifo tutto questo riguardo che nessuno abbia il coraggio delle proprie opinioni.”

Questa volta non sono le convenzioni sociali ad irretire la figura femminile, ma un giudizio ancora più duro e spietato, quello del tribunale interiore che punisce, senza alcuna possibilità di assoluzione, le donne vittime della mancanza d’amore verso se stesse.

L’autrice quindi, facendosi da parte silenziosamente, mostra al proprio pubblico il quadro desolante di una paralisi interiore tipica della condizione femminile in chiave universale. Ostacolate dai propri mostri interiori (la dipendenza emotiva da legame convenzionali, la mania di perfezione e di dimostrare il proprio valore a tutti i costi, la pessima valutazione del proprio ruolo di madre agli occhi della società), le donne non si rendono conto che spesso si incatenano da sé. Simone de Beauvoir intende proprio creare una frattura nel cuore delle lettrici, affinché reagiscano a quei dettami sociali che le vogliono sottomesse e, soprattutto, che affrontino con se stesse una vera e propria battaglia che le conduca alla vittoria più importante: la stima di se stesse.

“La porta dell’avvenire sta per aprirsi. Lentamente. Implacabilmente. Io sono sulla soglia. C’è soltanto questa porta e ciò che v’è nascosto dietro. Ho paura. E non posso chiamar nessuno in aiuto. Ho paura.”