Laureata in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, l’autrice Clara Zennaro è da sempre affascinata dalla vita di artisti famosi, in particolare alle donne che hanno lasciato una decisiva impronta culturale, e non solo, nella storia dell’arte. Nel 2021 ha pubblicato per Gm – LIBRI Milano il suo primo romanzo dal titolo “La governante di madame de Lempicka”, biografia romanzata dedicata alla innovativa e trasgressiva pittrice, esponente della corrente artistica Art Déco, di origini polacche.
Il suo nuovo romanzo “Juana Romani” – Storie di artiste straordinarie selfpublishing esce, non a caso, nella Giornata internazionale dei diritti della donna. La protagonista è infatti una artista molto nota in Francia durante la Belle Époque, dalla vita avventurosa, ma anche segnata dal dolore.
Mi libro in volo intervista Clara Zennaro per approfondire la storia dedicata a Juana Romani, nata Carolina Carlesimo a Velletri nel 1867.
Ciao Clara, felice di ospitarti nel salotto virtuale di Mi libro in volo per parlare di un personaggio femminile poco noto in Italia, nonostante le sue origini. Nel tuo precedente romanzo, “La governante di madame de Lempicka”, la voce narrante è affidata, appunto, alla governante della grande artista naturalizzata francese. Per raccontarci Juana Romani ricorri invece all’espediente della coralità. Da dove deriva questa scelta stilistica?
«Sicuramente dalla mia predilezione per la narrazione in prima persona. Si tratta di una modalità espositiva che reputo accattivante e coinvolgente, sia come scrittrice che come lettrice! Inoltre, in “Juana Romani” ho voluto offrire una visione ampia del contesto originario, formativo e lavorativo in cui l’artista è stata in grado di costruirsi una solida carriera nel mondo dell’arte. Per fare ciò ho avuto bisogno di analizzare il punto di vista di vari personaggi, dall’estrazione sociale e dalla provenienza più diversa, che hanno condiviso con la protagonista parti più o meno lunghe delle loro vite.»
Passiamo, quindi, al personaggio di Juana, in origine Carolina Carlesimo. Nacque in una famiglia povera, a Velletri, nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Siamo in epoca postrisorgimentale, agli albori della nazione italiana, segnata da ondate di insurrezioni popolari contro il nuovo governo, e che sfociarono nel fenomeno criminale del brigantaggio. Come racconti, il padre di Carolina era difatti un brigante, ragion per cui in tenera età, la stessa non era vista di buon occhio. Come è maturata nella tua fantasia, la Juana bambina?
«L’infanzia di Juana Romani viene raccontata da Teresa Cellucci, un’amica d’infanzia. I capitoli in cui è lei a parlare sono stati scritti per primi, quando la ricerca storica e artistica sulla pittrice non era ancora stata stesa. Ho fatto questa scelta intenzionalmente, per evitare di subire influenze e per riuscire a immedesimarmi nella vita di una bambina come tante, che viveva in una condizione di incertezza e miseria, alla fine di un secolo travagliato. Carolina ha in comune con Teresa le origini e, forse, avrebbe avuto il suo stesso destino, se non avesse lasciato Velletri insieme alla madre e al patrigno per raggiungere la Francia.»
Appena dopo l’infanzia di Carolina, la storia si sposta nella città di Parigi, cuore pulsante dell’arte di avanguardia, che a fine Ottocento aveva subìto un rapido processo di modernizzazione. In questo contesto di frenesia vive la sua giovinezza Carolina, che sarà prima modella e poi pittrice, in un’epoca in cui le donne non erano ancora accettate come artiste. Come cambia in questo nuovo contesto la figura della tua protagonista, che ormai è a tutti gli effetti Juana Romani?
«L’arrivo a Parigi segnò una svolta nella vita di Juana Romani. Nella capitale francese i modelli provenienti dalla zona di Velletri e dalla Ciociaria erano molto richiesti, quindi è stato naturale per lei scegliere questa professione. Con la prima esperienza come modella presso la famosa Académie Colarossi, si innescò il circolo virtuoso che portò la giovane ad avvicinarsi sempre di più al mondo degli artisti affermati e a realizzare l’idea di possedere un grande talento per la pittura. Ad un certo punto della sua carriera di modella, Juana Romani scelse quindi di posare solo per gli artisti che acconsentirono a seguire la sua formazione e a favorire il suo ingresso nel mondo della pittura.»
I soggetti prediletti da Juana Romani erano tutte figure femminili della storia o della mitologia rimaste in ombra, come dice lei stessa nel romanzo, dove emerge la piena consapevolezza del suo essere donna, fiera della sua indipendenza. Parlando di Juana, in realtà fai un omaggio a tante figure femminili, in particolare a quelle che hanno avuto la fortuna di emanciparsi, hanno avuto la possibilità di capire, come fai dire alla tua protagonista, che la cultura “chiarifica la mente”. Come era vista dall’ambiente artistico a lei contemporaneo, ancora appannaggio esclusivo degli uomini?
«Il periodo di attività di Juana Romani coincide con l’istituzione a Parigi di alcune accademie e scuole private in cui finalmente le artiste poterono formarsi. Prima di allora, erano poche le donne a praticare la pittura in modo professionale. La maggior parte delle pittrici e delle scultrici erano considerate hobbiste e si occupavano di tematiche legate all’ambiente domestico, bucolico e paesaggistico. Solo poche di loro avevano avuto la grande occasione di essere accolte nell’atelier di qualche artista che aveva accettato di occuparsi della loro formazione. Con l’istituzione in città prima dell’Académie Julian e poi dell’Académie Colarossi, l’Académie Vitti e l’Atelier des Dames di Jacques Henner e Carolus-Duran, le cose cambiarono e le artiste poterono ricevere una formazione artistica pari a quella che veniva impartita ai loro colleghi uomini, accedendo pure alla scuola del nudo (anche maschile), pratica per nulla ben vista fino ad allora. L’Académie de Beaux Art, la scuola ufficiale di arte della città, ammise la prima studentessa ai suoi corsi soltanto nel 1897! Le prime donne che ebbero il coraggio di ribellarsi alle convenzioni del loro tempo, sia in campo artistico che sociale, non erano ben considerate e di sicuro incutevano una forte preoccupazione, dato che avevano osato sovvertire un ruolo da sempre subalterno.»
Juana Romani amava la sua pittura, e amò anche più uomini. Ci parli dei suoi amori e di come amava Juana?
«Credo che il rapporto in assoluto maggiormente degno di nota sia quello che la pittrice ha intrattenuto con Ferdinand Roybet, suo maestro, mentore e compagno. Quando si conobbero, Juana Romani era una giovane che si stava affacciando al mondo dell’arte. Roybet, invece, era un uomo sposato, più grande di lei di ventisei anni, la cui carriera stava attraversando un momento di crisi. Ferdinand Roybet ingaggiò Juana Romani come modella e, poco dopo, le permise di frequentare il suo atelier come allieva. Grazie a lei ritrovò una grande ispirazione. L’arte dei due pittori si influenzò a vicenda e il loro rapporto si basò su di un grande rispetto e di un’alta considerazione reciproca. Viaggiarono molto e condussero un’intensa vita sociale. Formarono una coppia moderna, ben lontana dal binomio maestro tiranno/allieva amante sottomessa che ritroviamo in quel periodo in molti casi. Il loro rapporto ha subìto un’evoluzione con il passare degli anni. Roybet si prese cura di Juana Romani durante la sua lunga malattia, rimanendole accanto fino alla morte.»
“Predominanza di idee ambiziose” fu una delle espressioni usate nella diagnosi fattale durante il ricovero alla alla Maison de Santé Esquirol, a Ivry-sur-Seine. L’ultimo periodo della sua vita, Juana visse giorni davvero difficili. Cosa hai provato raccontando del suo internamento?
«Non nascondo che è stata un’esperienza davvero intensa. Mi sono documentata sui libri e guardando numerosi film che hanno trattato l’argomento. Ho provato a immaginare quali potessero essere le reazioni di una persona che viene catapultata all’improvviso nel mondo degli asili e dei manicomi dell’epoca, e che vive per la prima volta esperienze drammatiche, come la privazione della propria libertà e della propria dignità, la convivenza con le altre pazienti, l’isolamento e la somministrazione di terapie dolorose. Fa male pensare che questa sorte sia toccata a molte persone, soprattutto donne sottomesse ai voleri della propria famiglia, che sono finite nei manicomi soltanto per avuto la colpa di non essere abbastanza omologate alla società di allora.
Da esperta di arte, ti andrebbe di parlarci della singolarità della pittura di Juana Romani che l’ha resa, già tra i suoi contemporanei, una artista di fama?
«Juana Romani fu una delle poche donne della sua epoca che riuscì a imporsi come professionista in un ambiente prettamente maschile. Riuscì, fin dai suoi primi anni di attività, a definire uno stile unico. Pur dipingendo secondo gli stilemi della tradizione accademica, le sue opere sono quanto mai moderne. Ogni suo ritratto femminile parla di emancipazione, riscatto e consapevolezza. Ha offerto ai suoi contemporanei la definizione pittorica di una donna nuova, forte e sicura di sé, padrona della propria vita e consapevole dei propri valori, ma soprattutto lontana dall’idealizzazione in cui per secoli i pittori e gli scultori hanno ingabbiato le loro muse.»