Seguo Veronica Tomassini sui social e, come mi accade quasi sempre, quando voglio scoprire un autore, comincio dalle origini, voglio andare al cuore, là dove comincia il cammino del sangue. E in questo caso, il cuore degli inizi di Tomassini non è di quelli che palpita e si inebria, ma è un cuore nero, squarciato, che lacrima. Lacrima pena e speranza.
Sto parlando di “Sangue di cane”, Laurana Editore, anno 2010, che parte così:
“Marcin era morto. Io avevo i pidocchi. Cioè successe nello stesso momento, Marcin cagava sangue, stava morendo, beveva e cagava sangue. Io invece avevo prurito ovunque, dietro la nuca soprattutto. “C’hai la rogna”, mi diceva Tano, il pescatore, l’amico di Ivona. Ma Ivona stava con Marcin e Marcin stava morendo perché cagava sangue.Io stavo con Sławek, Sławek Raczinski di Radom, Polonia. Mi ci portò Sławek in quel posto di merda, una casa a due piani, zona residenziale, bordello con mignotte dell’est, cuscini a forma di cuore, camere personalizzate, condom personalizzati, fellatio personalizzate. I pidocchi li presi prima comunque.”
Un incipit crudo, diretto, impattante, di quelli che non immagini possano essere stati scritti da una penna femminile. Non che le donne non producano opere destabilizzanti e urtanti, solo che le prime righe di “Sangue di cane” ti proiettano subito ai margini di una scrittura sporca, fatta di parole guaste che crea atmosfere perturbanti. Ma Tomassini non scrive per stupire, scrive per salvarsi. Lo si scopre andando a fondo in questa torbida, disperata, ma al contempo rutilante storia. Sì, perché la vita pulsa sotto le macerie, e solo poche anime escono vive, sebbene martoriate, dal lungo viaggio al termine della notte. E non si è più gli stessi, è vero, ma si ha ancora l’ostinata voglia di ricominciare. Ricominciare, nonostante tutto.
“La vita degli altri mi appariva una pallida imitazione della mia medesima. Senza acrobazie, extrasistole, senza fiato corto e gambe veloci, cosa restava di niente? Niente. Per cui il mondo per me fino ad allora era niente? Sì, esatto. Era niente. Fino ad allora, fino a Sławek. A uno sputo da Sławek.”
L’autrice racconta delle braccia che si svuotano per sollevare le sorti degli emarginati, perduti e incompresi, nonostante le barriere sociali, nonostante le ferite che segnano il corpo per l’immane fatica di poter realizzare un sogno che, da personale, assume un significato sociale, facendosi universale.
Scheda del libro:
Autore: Veronica Tomassini
Genere: Narrativa
Casa editrice: Laurana Editore
Pagine: 230
Prezzo: Euro 15,20
ISBN: 978-8896999028
La scrittura di “Sangue di cane”:
La scrittura procede a ritmo veloce, per frammenti. Rapisce e fa sobbalzare le viscere, come se si viaggiasse su una utilitaria dagli ammortizzatori dilaniati, ad alta velocità, in un susseguirsi di pericolose cunette.
“Entrambi vivevamo con la falsa percezione di un rifiuto a priori, roba da sfigati. Tu perché vivesti da figlio di zoccola certificata nell’orfanotrofio di Konskie fino a dieci anni, poteva andarti peggio tuttavia, poi una madre ti è venuta in soccorso, l’alter ego di colei che abdicò. Io piuttosto incline al melodramma, con una precisa opinione rispetto all’elemento fato, fato senza pathos. Ma soltanto fino a un po’. Fino a quando non incrociai la via dei dannati, cioè la tua. Sì, misek, mi hai guarito. E insieme abbiamo attraversato un ponte. Bisognava dimostrare coraggio, e io, a mio modo, lo dimostrai, non retrocedendo.”
La voce narrante è una anima alla deriva, che oscilla fra realtà, grigia, e estasi, rossa e nera, nei confronti di un uomo che non ha freni, un disadattato alla vita, che vive di pulsioni e istinti primordiali, come le bestie, un selvaggio in una gabbia, vittima di ancestrali percosse e ingiusti abbandoni. I due protagonisti sono anime smarrite, senza centro, che si incontrano e si scontrano, abbattendosi a vicenda. C’è il rosso di una passione sfrenata, meccanica e perversa, e il nero dell’ignoto e della morte. Perché i due personaggi muoiono in continuazione, cedendo ogni volta a un male di vivere sfiancante.
“Puzzavi di vomito, ti eri fatto addosso, dormivi che sembravi piccino e impaurito. Ti amai di più così piccino e impaurito. Il piccolo orfano, figlio di puttana con pedigree.”
Nella scrittura prima di Veronica Tomassini si ravvisano echi sia della letteratura russa, nell’introspezione e l’indagine morale, con le sue contraddizioni, dei personaggi, sia americana, nello specifico quella della beat generation, una scrittura che, per dirla alla Jack Kerouack, grida irrequieto come l’hipster, ma ancor prima dell’antesignano Henry Miller.
Tomassini utilizza una scrittura corporale, che trattiene alla pagina la narrazione degli eventi con descrizioni rudi e incisive, e soprattutto in questo richiama Miller, che scrive in maniera diretta, senza sconti e pruriti moralisti quando racconta l’inferno della società contemporanea occidentale, il vuoto dell’individualismo in cui è precipitata. È, dunque, una scrittura che nasce dallo sporco, dalla depravazione sociale e, proprio come intendeva Baudelaire, estrae la bellezza dal male. Lo sguardo di Tomassini si posa sul male e scorge bellezza, rendendo sacra ogni stortura. Perché colei che racconta, attraverso il suo sacrificio (dal latino “azione sacra”) fa (ri)nascere la vita dalle crepe, e questa è poesia, vera e viscerale, l’unico modo con cui avrebbe potuto narrare le vicende, l’unico modo che ha l’autrice di guardare il mondo.
“Siracusa procedeva oltre, noi eravamo ratti nel tombino, il nostro squittio avrebbe detonato vanamente. Fuori le mura del nostro recinto di sciagurati, redivivi sullo Stige, avremmo trovato un’uggia criminale, il modico affannarsi di una città amena, che avrebbe sbadigliato tutto sommato dinanzi al vituperio.”
Il messaggio di “Sangue di cane”:
Della protagonista non si conoscerà il nome per tutta la storia, per lui, invece, il polacco Slawek al quale la voce narrante si rivolge con il tu, è presentato come un uomo bello, di “una bellezza antica, compromessa da un dolo secolare”, che la prende per mano e la conduce nel posto più degradato, là dove finisce la Siracusa per bene: “la casa della morte”, un rifugio di alcolisti, drogati e barboni, maleodorante, dove la speranza sembra finita per sempre. O forse è lì che la protagonista sente nascere qualcosa, quel qualcosa di sconosciuto che la attira: l’abisso, dove si sporge, precipita e si schianta inesorabilmente, con tutta stessa, perdendo il controllo del corpo e la stessa anima, forse quella che cercava da sempre, che cerchiamo tutti da sempre, in un presente che non regala più carezze disinteressate. Finisce in un girone dantesco senza scampo. Ma nella cronaca di questo amore malato, la voce resta lucida: l’oblazione verso il polacco si carica di una aurea sacrale, indiscutibile e assoluta, un episteme inscalfibile, da trattenere nella memoria come un salmo da recitare con devozione.
“Il nostro amore faceva paura al mondo, gli dei dell’Olimpo storcevano il naso. No, Sławek, noi avevamo il fervore dei condannati a morte a tenerci su, l’ultimo anelito sul palmo, pronto a convertire la perniciosa riluttanza che il destino ci consegnò brevi manu, scambio equo e paritetico su cui misurare la veemenza di un dono. Perché l’amore è un dono, niente è mio se non per dono. Se non perdono, tutto unito. Perdono e per dono, non è un gioco di parole, è una verità terrificante.”
“Sangue di cane” è, quindi, la cronaca di un amore, vissuto al limite, nel parossismo di un’ossessione di salvezza morale.
L’amore per Slawek strappa la protagonista dalla parvenza di normalità borghese e la trascina in una passione tormentata, una passione che nasce dalla pietà, dalla misericordia. La protagonista ama così come una suora può amare il mendicante che bussa alla sua porta. Lo accoglie sul suo grembo, lo nutre, lo lava, lo rivà a prendere quando, ogni volta, smarrisce la via. È certa di poterlo purificare, di liberarlo dal male. Salvare si può, a che prezzo, però. Al prezzo di una dura lotta contro il mondo che non vede redenzione. E invece la protagonista ci crede, nonostante i rari vacillamenti, l’autolesionismo e i tradimenti subiti, che dal buio si esce. Si esce grazie a un amore assoluto, quello di cui parla l’Altissimo, che tutto sa di noi. È l’amore che la protagonista, nonostante la sua presenza silenziosa nel mondo – il gracile corpo e l’innata timidezza – scorge negli occhi del suo prossimo, caduto nella miseria della propria anima. Si aggira tra i morti come una Persefone misericordiosa che allunga le mani per concedere una nuova possibilità.
“(…) incontrando te ho giustificato la mia presenza. Ti fornisco una bella metafora: io, ronzino con le ambizioni di un purosangue, un vero e proprio outsider in potenza. Ma ronzino nella sostanza. Poi, Grzegorz mi ha salvato. Devi saper leggere l’autentica sul nostro destino e ricapitolare. Vai fino al principio delle cose e mi dirai. Non siamo stati soli, Sławek, non eravamo, io e te, se non strumenti nella volontà di un pensiero superiore. Strumenti e servi l’uno dell’altro per arrivare al buon Dio, il Padre che non costringe troppo nelle tenebre, che promette nuove albe e ferma il braccio dell’empio, proteggendo i giusti, raccogliendo in grembo i sopraffatti e i frutti marci, noi. E perdonerà ognuno, abbi fede.”
“Sangue di cane” è, allora, una storia di Amore puro, nascosto fra le pieghe del male, il fiore che cresce nel fango. Un amore che alla fine non concede sconti, ma permette alla protagonista di acquistare nuovo amore, quello dei lettori, che seppure non in linea con le scelte e prospettive di vita narrate, riconoscono la forza di cui è stata capace, del coraggio di essersi donata al mondo.
Chi è Veronica Tomassini:
Veronica Tomassini ha origini siciliane, umbre e abruzzesi. Nel 2010 esordisce con Sangue di cane, al quale seguono nel 2012 Il polacco Maciej, nel 2014, Christiane deve morire, nel 2017 L’altro addio, nel 2019 Mazzarrona, candidato al Premio Strega, nel 2020 Vodka siberiana. Il suo ultimo romanzo è L’inganno. Scrive per “Il Fatto Quotidiano” e “Pangea News”.