“La terra la lavori, ma il cielo non lo domini mai.”
Ci sono estati che segnano un confine nella vita, sono le estati in cui cambiamo pelle, quando ci accingiamo a compiere il rito di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Sono i momenti in cui non ci riconosciamo più, sappiamo chi eravamo fino a pochi istanti prima, ma non capiamo chi stiamo diventando. Possiamo sapere chi non vogliamo diventare, pur nella consapevolezza che in fondo esistono catene difficili da spezzare. Restiamo in bilico, sulla soglia, passivi spettatori di un conflitto dilaniante, ma necessario per attraversare il confine.
“La siccità” di Guido Conti è in primis un romanzo di formazione. Andrea è un adolescente dei giorni nostri che trascorre l’estate lontano dalla città e dai suoi compagni di scuola, aiutando il padre Pietro e lo zio Secondo nelle incombenze contadine. L’estate che si appresta ad affrontare è una delle più torride del nuovo millennio, durante la quale non piove: la terra ha sete e gli animali, deperiti e affamati, si avvicinano sempre più ai centri abitati; i tassi rivoltano le tombe nel cimitero alla ricerca del fresco; i cinghiali, debilitati, si accasciano nei greti dei fiumi, diventando carcasse per altre bestie; di notte, i lupi urlano impazziti. Succedono strane cose a Montù Beccaria, piccolo centro dell’Oltrepo’ Pavese, dove qualcuno, di notte, infilza teste di volpi mettendole ben in vista, di fronte alla casa del sindaco che, in un momento difficile per il raccolto e le condizioni del territorio, diventa bersaglio di scherno e rabbia da parte dei cittadini, aizzati in particolar modo da Pietro. Nel frattempo, nei pressi dell’abitazione di Andrea, al di là del bosco, nella frazione di Case Ferri, qualcuno è tornato da molto lontano. Si tratta di Bruno, un vecchio scontroso e a tratti sinistro, che compare dinanzi ad Andrea in maniera inaspettata.
Attraverso i personaggi di Andrea, Pietro e Bruno, l’autore descrive le tre fasi della vita: fanciullezza, maturità e senilità. Andrea ama la sua terra, si rifugia nei boschi dove può osservare gli animali innocenti, ma allo stesso tempo sente l’urgenza di scappare lontano, fuori dalla provincia dura e brulla, per aprirsi a nuove prospettive di vita. Pietro è radicato alla terra, è parte del conflitto fra terra e destino, lotta per mantenere in vita i raccolti e assicurare un futuro ai luoghi natii. Bruno ha fatto ritorno alla sua terra, dopo essersene allontanato, in un passaggio ciclico che lo ricongiunge al suo Io autentico. Ama la solitudine, la vita agreste e bucolica in compagnia delle api. Dice: “Le api sono intelligenti, capiscono il tuo umore e hanno un’anima. Ti assaggiano.”
Quando Andrea incontra Bruno per la prima volta, l’uomo stringe in mano un coltello. É un incontro ambiguo: pur avendone timore, Andrea si sente attratto dalla figura perturbante di Bruno, che con l’arma sembra proprio squarciare il velo che lo divide dalla sua fanciullezza, aprendogli il sentiero verso l’età adulta. Entrambi schivi e solitari, Andrea e Bruno stringono un legame, in cui è ravvisabile la nostalgia per l’età infantile, la comunione con la natura, dove ci si rifugia per sentirsi protetti e dove, infine, ci si stabilisce perché si comprende che quello è l’unico luogo che ci appartiene veramente. Con la sua durezza, l’impetuosità e la freddezza, Pietro irrompe in questo idillio e smuove la coscienza di Andrea, il quale in un primo momento smania di entrare a far parte del mondo adulto, vorrebbe accompagnare il padre e lo zio nelle scorribande notturne nei boschi, dall’altra scopre che forse quel mondo brutale non gli appartiene.
“Suo padre non gli aveva mai fatto una carezza, non gli aveva mai detto una parola di lode, era un uomo venuto su dalla terra, e della terra aveva il cuore asciutto e scabro, con tutte le sue crepe.”
Quando finalmente li accompagnerà nella battuta di caccia, affronterà il suo il rito di iniziazione. Ma la vista del sangue e la ferocia verso gli animali lo destabilizzeranno, al punto che comincerà a ribellarsi all’autorità paterna. Pietro rappresenta, dunque, la forza conservatrice alla quale si oppone quella propulsiva di Andrea nella dialettica passato-presente, vecchio-nuovo.
“La morte è come quando un cane sparisce”, pensò, “si perde. Gira e rigira ma non trova più la strada di casa.”
L’estate della grande siccità significherà per Andrea proprio congedarsi dal passato e dalle figure a lui care, attraverso l’incontro con la morte e con le asprezze della vita dei campi. Ad accoglierlo ci saranno le braccia ruvide, ma ben salde, di Madre Natura, la quale dona, toglie, abbandona e insegna, in un divenire ciclico costante e immutabile.
“Piove poco e quando piove, piove male”, commentò Pietro.
“Piove poco perché non avete fede” (…) “ … non c’è scienza che tenga. Non si domina il cielo.”
La figura materna resta in ombra nella storia che racconta Conti, ma al contempo i suoi interventi sono ogni volta decisivi. Elvira racchiude in sé le prerogative femminili più arcaiche: protezione, empatia, sensitività. Si fa custode delle tradizioni, di quelle credenze popolari che si rivelano propiziatorie, come i rami di ulivo da bruciare e le due croci segnate con la scopa prima dell’arrivo del temporale, rito che risparmia dalla grandine i loro campi, dove “il tempo ha girato in maniera strana”.
“Questa è diventata terra di nessuno. Sono tutti morti quelli che abitavano queste tre case.”
“La siccità” di Guido Conti è un omaggio all’Oltrepò e alla sua gente che resiste alla trasformazione e all’annientamento che porta con sé la modernità. É un inno al legame autentico che si stabilisce con la terra natìa, nei confronti della natura di verghiana memoria con le sue contraddizioni, tanto malvagia quanto accogliente e protettiva. Come nelle novelle “Vita nei campi,” i sentimenti che guidano i personaggi sono: alacrità, dolore, solitudine, perdita di affetti, rabbia e vendetta verso le ingiustizie sociali. Gli agricoltori lavorano e lottano duramente e, impotenti di fronte alla siccità, soffrono in silenzio. Ma restano e combattono, perché amano la loro terra, dove la natura ha un’anima.
“Se la terra soffre, soffriamo anche noi. Se il bosco ha sete anche la nostra anima ha sete. L’aridità è nell’anima delle persone.”
Nella nota conclusiva, Guido Conti dichiara di essersi ispirato ai lunghi racconti che compongono la trilogia di Romano Bilenchi, “La siccità” “La miseria”, “Il gelo”, riuniti nel volume “Gli anni impossibili”. Dei racconti riprende molti temi, come l’esplorazione del mondo dell’adolescenza e il conseguente passaggio all’età adulta e la spietatezza della natura che richiama la sterilità sociale, ma a un secolo di distanza Conti si fa portavoce dell’impatto socio-economico che i cambiamenti climatici hanno sulle comunità rurali, quali i disordini sociali e il rischio delle ondate di malcontenti, inducendo a una urgente riflessione etico-morale, prima su tutte la responsabilità delle scelte individuali nei confronti delle generazioni future.
Scheda del libro:
Autore: Guido Conti
Genere: Narrativa
Casa editrice: Bompiani
Pagine: 192
Prezzo: Euro 17,00
ISBN: 978-8830119307
Chi è Guido Conti:
parmigiano, è scrittore, illustratore, editore, saggista e insegnante. Ha vinto il Premio Chiara 1998 per i racconti de Il coccodrillo sull’altare, il Premio Selezione Campiello 1999 per I cieli di vetro, il Premio Hemingway per la critica 2008 con Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore e il Premio Carlo Levi 2013 con Il grande fiume Po. Tra i suoi romanzi, Il tramonto sulla pianura, Le mille bocche della nostra sete e Quando il cielo era il mare e le nuvole balene. Ha scritto e illustrato la saga della cicogna Nilou, tradotta in molti paesi. Come saggista ha pubblicato per Libreria Ticinum Editore Cesare Zavattini a Milano (1929-1939). Letteratura, rotocalchi, radio, fotografia, editoria, fumetti, cinema, pittura e La città d’oro. Parma, la letteratura 1200-2020. Come insegnante ha pubblicato Imparare a scrivere con i grandi. Da oltre vent’anni tiene laboratori di didattica della lettura e della scrittura dalle scuole elementari ai master universitari di comunicazione.