L’amante di Marguerite Duras

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Brutalmente invischiata nell’inesorabile scorrere del tempo, la storia di una vita sedotta dall’incomunicabilità e dall’abbandono

“La storia della mia vita non esiste. Proprio non esiste. Non c’è mai un centro, non c’è un percorso, una linea”

È il 1984 quando viene pubblicato L’amante, romanzo breve con il quale Marguerite Duras si aggiudicherà finalmente il Premio Goncourt, a cui seguirà, nel 1992 anche la celebre versione cinematografica firmata Jean-Jacques Annaud.  Sono passati cinquant’anni da quando si svolgono i fatti narrati e la scrittrice francese è ormai lontana dall’attivismo politico della Resistenza e del Comunismo. Non è mai sfuggita, però, al dramma interiore di una infanzia segnata da mancanze economiche e affettive.

Negli anni ’80 la Duras ha settant’anni ed è sempre più invischiata nel baratro dell’alcol.

“L’acool ha assunto le funzioni a cui Dio è mancato, inclusa quella di uccidermi, di uccidere”

Ha accanto Yann, un amante più giovane di lei di quarant’anni che non l’abbandona mai, che scrive per lei sotto dettatura il racconto autobiografico della giovane francese quindicenne a Saigon. Nel 1929  Marguerite, chiamata anche Nenè o Margot o Meg più avanti, viveva nell’Indocina francese, l’attuale Vietnam, dove era nata da padre dirigente scolastico e madre insegnante. Alla morte del padre affronta momenti difficili accanto alla madre, dura e fragile di mente allo stesso tempo, e ai suoi due fratelli, Pierre, il maggiore, manesco e dispotico, sempre amato e protetto dalla madre, e Paulo, più sensibile e cagionevole di salute, che perirà di broncopolmonite, una perdita che, assieme a quella del primo figlio nato morto, addolorerà profondamente Marguerite.

“Bisognerebbe avvertire tutti di tali eventi. Comunicare loro che l’immortalità è mortale, che può morire, che è successo, che continua a succedere (…) Che la vita è immortale mentre è vissuta, mentre è in vita. Che l’immortalità non è una questione di tempo, non è una questione di immortalità, è qualcosa di ignoto.”

Ha quindici anni e mezzo quando attraversa un braccio del fiume Mekong con indosso “un vestito di seta naturale, lisa, quasi trasparente” e “una cintura di cuoio in vita”. Ai piedi porta “quel famoso paio di di scarpe di lamè dorato, con i tacchi alti” e sul capo “un cappello da uomo con la tesa piatta, un feltro morbido color rosa, con un largo nastro nero”. Le labbra sono dipinte di un rosso ciliegia all’epoca in voga. È l’immagine di una ragazzina che si sorprende nella sua femminilità, che prende coscienza della propria sensualità come l’arma per apparire quello che gli altri vogliono che ella sia.

“Questo mancare delle donne a se stesse sempre l’ho sentito come un errore. Non c’è da attirare il desiderio. Il desiderio era in colei che lo provocava o non esisteva. C’era sin dal primo sguardo o non era mai esistito.”

Attraversando il fiume, quel giorno, Marguerite non sarà più la stessa. Quel corso d’acqua sarà linea di confine da una infanzia miserevole e piena di contraddizioni nel rapporto di odio-amore verso la madre, a una esistenza segnata dallo scandalo. Diventa la giovane amante di un indolente rampollo di una ricca famiglia cinese di Saigon, che ostacolerà la relazione, fino a pagare una ingente cifra per allontanare la giovane bianca corruttrice che farà ritorno in Francia con la sua famiglia.

“Il difficile non è raggiungere qualcosa, è liberarsi dalla condizione in cui si è.”

Nel 1992, il regista Jean-Jacques Annaud ha diretto L’amante, tratto dall’omonimo romanzo della Duras

Complice silenziosa di questa torbida storia è la madre di Marguerite, che osserva il cambiamento nella figlia e tacitamente approva, per poi accusarla di immoralità e riempirla di percosse assieme al figlio maggiore.

Oscillando fra l’ostinazione e l’apatia, l’immagine materna che ne deriva è quella di una donna che non smette di aggrapparsi a solide certezze, quali la famiglia e la speranza di costruire una nuova Francia in Indocina, a differenza della figlia che nella sua vita sentirà sempre la mancanza di un centro stabile.

La giovane Marguerite conduce il gioco dell’ambiguo legame, avviluppata in uno stato d’animo cupo, quello della disperazione di chi ha vissuto nella consapevolezza di essere stato abbandonato da Dio. Sommersa dalla tristezza che scava nella sua anima una ferita profonda quanto una diga, con il suo indecente comportamento innalza, tuttavia, gli argini di quella libertà fiera e indomita dignità che appartiene alle indoli emancipate e alle menti più acutamente sensibili, che si salvano attraverso il loro stesso scandalo.

“Gli dice: vorrei che non mi amassi, e se mi ami, vorrei che facessi come con le altre donne. Lui la guarda, spaventato, domanda: è questo che vuoi? Lei risponde di sì”.

Chi è, allora, il primo amante, nel libro soprannominato “l’amante di Cholen”, quartiere angusto della città, di una scrittrice così acclamata in Francia, dal talento riconosciuto anche in Italia da autori come Vittorini e Calvino? È un giovane dalla pelle liscia e morbida, dal fisico poco possente, che non trova il suo posto nel mondo e che investe in un’attrazione impudica e tormentata sullo sfondo della Cina segnata dalla povertà e dal problema razziale. È il simbolo di un amore che incarna le più complesse fragilità umane voluttuose e che travalica distanze fisiche e temporali.

“Ma poi glielo aveva detto. Le aveva detto che era come prima, che l’amava ancora, che non avrebbe potuto mai smettere d’amarla, che l’avrebbe amata fino alla morte.”

Agli eventi degli anni ’30 in Indocina si alternano lunghe digressioni sulla vita futura parigina della scrittrice, a contatto con intellettuali come Drieu La Rochelle, Brasillach, Ramon Fernandez, e della sorte infelice che toccherà al fratello maggiore e alla madre, con la quale Marguerite non riuscirà più a ricucire i rapporti. E in questo ritornare indietro nel tempo si coglie la dolorosa analisi degli eventi più intimi di una intera vita che hanno creato grandi vuoti dentro cui l’io narrante si sofferma e scava, traendone fuori un magma di confusione e un lacerante e perpetuo appello d’amore.

Con la brevità delle frasi e la narrazione asciutta, brutalmente diretta, questo piccolo capolavoro emerge nella sua feroce intensità emotiva, nell’autenticità dei sentimenti difficili che marchiano una giovane esistenza e la conducono verso un rabbioso mal de vivre che trova conforto in un inarrestabile e urgente bisogno di scrivere.

“Scrivere era la sola cosa che popolava la mia vita e la rendeva magica. L’ho fatto. La scrittura non mi ha mai abbandonato”.

 

Fonti

Cristina De Stefano “Scandalose. Vite di donne libere” Rizzoli, 2017 pagg. 201-209

Sandra Petrignani “Marguerite” Neri Pozza, 2014