“C’è ancora domani” fra voci e volti di donne. Impressioni a caldo sul nuovo film di Paola Cortellesi

“C’è ancora domani” dà voce alle eroine silenziose che hanno fatto la nostra Storia (stra)ordinaria

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C'è ancora domani di Paola Cortellesi
Sguardi di donne. Di madri, figlie, vicine di casa. Occhi lucidi ma pieni di dignità. Perché in quello sguardo c’è sempre speranza, quella che guida le donne durante le tempeste affrontate nella Storia. E l’eco dei loro sogni, desideri e ambizioni si sente nell’incantevole film “C’è ancora domani” che vede per la prima volta Paola Cortellesi alla regia.
In-canta la storia narrata, sussurra le voci delle nostre antenate più recenti, delle protagoniste che popolano i romanzi del Novecento delle autrici per molti decenni dimenticate e che oggi tornano prepotentemente a ripopolare gli scaffali delle librerie. Donne dalle voci discrete ma potenti, perché arrivano fino a noi, oggi. Oggi che la coscienza risvegliata in quelle pagine bussa con urgenza alla porta di creature considerate solamente corpi da fare a pezzi.
E allora ci si chiede, davanti alle scene che passano in un bianco e nero che riflette luci e ombre di un passato che non ci ha mai lasciati, cosa è cambiato da allora? Nell’immediato secondo dopoguerra, quando nella capitale stazionano camionette americane e la popolazione stenta a risollevarsi, ci sono donne che, oltre ad adempiere al ruolo di massaie, si ingegnano in piccoli lavoretti per incrementare il bilancio familiare. Delia è una di loro, una donna di casa additata da marito e suocero come una dal “difetto che risponde troppo”, che subisce ma non crolla perché sta lavorando per un domani nuovo, un domani che può sorgere solo grazie al coraggio di scelte difficili. E quelle decisioni germogliano silenziose, nella r-esistenza interiore.
In Delia si fanno corpo le parole “segrete” scritte con timore nei diari di donne come Valeria Cossati, che nasconde il suo quaderno proibito ai familiari «Michele l’altra sera mi ha sorpreso alzata a tarda ora e ha sospettato forse che scrivessi ad un uomo. Non immaginerebbe mai che ho un diario: gli è più facile credere che io ubbidisca a un sentimento colpevole, piuttosto che riconoscermi capace di pensare»; Jeanne Bornand che nelle sue pagine confessa: “Ma se la nostra lingua è paralizzata, si crea tuttavia tutto un movimento in noi che si esprime in modo alternativo alle parole. È il nostro passo che si fa strascicato, la nostra voce di colpo più tagliente, i nostri sguardi più severi. Sono le porte che sbattiamo. E questa volontà che si solidifica e che ci spinge a contraddirlo sempre, o ci immerge in un mutismo pieno di sottintesi, di rimproveri latenti, non formulati, che di conseguenza proliferano come vegetazione sottomarina, come il muschio nei boschi”, Rina Faccio che dichiara “Accettando l’unione con un essere che m’aveva oppressa e gettata a terra, piccola e senza difesa, avevo creduto di ubbidire alla natura, al mio destino di donna che m’imponesse di riconoscere la mia impotenza a camminar sola.”  O Monique, donna spezzata che, rosa dal tormento per l’infedeltà di suo marito, si trova “disarmata, poiché non avevo mai pensato di avere dei diritti.”, che viene descritta così apertamente dalla figlia minore: “Manchi di difesa, è il tuo solo difetto”. O, ancora, come la figlia (Annie Ernaux), che racconta, nel libro a lei dedicato, di sua madre che non c’è più: “Mi vergognavo della sua maniera brusca di parlare e di comportarsi, tanto più quanto mi accorgevo di somigliarle. Le rimproveravo di essere ciò che io, in procinto di emigrare in un ambiente diverso, cercavo di non sembrare più.”
Ed è proprio dalla frattura generazionale che si apre la possibilità di ascoltare le voci che parlano di un futuro nuovo.
C’è ancora domani per sperare di cambiare una Storia che si reitera, ma è nell’oggi che dobbiamo scegliere come cambiare.
Delia lo fa ascoltando le voci fuori e dentro di sé, calcando la scena della sua vita come in una sequenza di quadri viventi nei quali incarna una massaia che nasce e muore, ma che sa, soprattutto, rinascere dalle ceneri di un passato che non torna più.