Giunta al portone di casa, Aminah si asciugò nervosamente la fronte umida con il polso e le piccole perle di agata bianca del braccialetto le lasciarono un profondo solco. La “Signora” quella mattina aveva davvero esagerato nel chiederle di lavare tutte le persiane fino all’ora di pranzo. Già alle prime luci dell’alba il cielo minacciava una giornata afosa. All’orizzonte, dalla finestra, mentre si portava la prima sigaretta della giornata alle labbra che ancora profumavano di caffè appena sorseggiato, Aminah aveva intravisto le scie di foschia alzarsi sulle colline come funamboli disciplinati, in fila per l’allenamento quotidiano. La visione non l’aveva rassicurata ma, aspirando profondamente la sigaretta, si era detta che anche quella giornata le avrebbe insegnato qualcosa, nonostante l’ansia e la fatica che la assillavano negli ultimi tempi. Mentre spegneva la sigaretta nel posacenere ormai colmo, aveva lanciato lo sguardo alle sue unghie rovinate. Proprio non riusciva a indossare i guanti durante le incessanti pulizie del mattino, e la pelle delle mani era ruvida e indurita. Nella borsa portava sempre una crema idratante, ma poi dimenticava di cospargersela sulla pelle, lo stesso accadeva per il gel rigenerante per le caviglie gonfie. Troppe ore in piedi, troppa umidità le appesantivano le gambe e a sera faceva fatica a completare le faccende domestiche. Il disordine regnava ovunque nel piccolo appartamento in cui viveva, se avesse avuto il terzo occhio delle divinità indù, in quel periodo avrebbe chiuso anche quello. Sorridendo a quel pensiero e respirando profondamente, si era fatta coraggio per affrontare la mattina.
“Siccome hai attraversato il deserto, a tutti sembra naturale che tu sia in grado di sopportare le alte temperature”, ripeteva furiosa fra sé quando si fermava sul pianerottolo di ogni piano. L’ascensore era guasto da settimane ormai, i condomini non si decidevano a chiamare il tecnico per non affrontare le spese dopo il conto salato della revisione annuale. Lei era affittuaria e pure in ritardo quel mese nel pagamento, di certo non poteva avere voce in capitolo sulla questione. Le buste della spesa che serrava a fatica tra le mani sembravano diventare sempre più pesanti, piano dopo piano. A un certo punto, mentre allentava la presa di uno dei sacchetti che pendeva sempre più verso il basso per le numerose bottiglie di acqua, questo si squarciò e le bottiglie rotolarono giù per le scale. Aminah tentò di agguantarne una al volo, ma subito la bottiglia scivolò alla sua presa umida e allora la donna si lanciò giù per le scale precipitosamente e il tacco del sandalo destro, dallo smalto scrostato, si impigliò nell’orlo della lunga gonna di cotone a stampe etniche facendola precipitare in discesa lungo tutta la rampa. Durante la caduta batté il ginocchio e si morse il labbro inferiore. Un modo davvero divertente per dare una svolta alla lunga giornata che aveva ancora davanti a sé, pensò ironica. Lentamente si fece forza sulle braccia e si tirò su. Si stirò la gonna spiegazzata massaggiandosi il ginocchio dolorante, poi si tamponò il labbro con le dita. Un leggero sapore metallico si diffuse all’interno della bocca, Aminah deglutì e subito un lontano ricordo le rabbuiò il viso. Era un’estate di molti anni prima, abitava ancora nella periferia rurale di Kano, dove la sua famiglia viveva di stenti in una bassa e maleodorante casa di fango, tra le anguste vie del perimetro murario dell’antica città. Suo padre era un muratore e sua madre cresceva lei e i suoi tre fratelli più piccoli. Aveva quattordici anni Aminah quell’estate e tutte le notti nel suo letto sognava di diventare una giornalista che raccontava al mondo quello che accadeva nella profonda Africa. Così, quando quel pomeriggio un capannello di vicini si era formato fuori dal cortile della sua abitazione, spinta dalla vivace curiosità che le apparteneva, si era precipitata ad ascoltare. La figlia di Mansur piangeva sommessamente mentre suo padre la trascinava davanti a un uomo alto, dall’abbigliamento occidentale: polo bianca e pantaloni di lino color cammello. Mansur gli porgeva una busta e con espressione dura si rivolgeva alla ragazza intimandola a seguire lo straniero. Aminah capì tutto: Kamil, il suo amico e compagno di giochi sin dall’infanzia che adesso lavorava come meccanico in città, le aveva raccontato degli agenti di viaggio che procuravano passaporto, visto e biglietto aereo per l’Europa, dove le ragazze vendute dalle famiglie avrebbero lavorato e mandato i soldi in Nigeria. Il ragazzo le aveva anche spiegato che la sorte di quelle ragazze era segnata per sempre: sarebbero finite a svolgere “brutti” lavori e non sarebbero più tornate. Aminah provò un forte brivido dinanzi alla scena e un impeto di sdegno e rabbia le salì in viso. Alle sue spalle sua madre la trattenne, conoscendo bene il senso di giustizia che animava la figlia. La ragazza allora si acchetò, ma provò una grande vergogna per essere rimasta inerte e in silenzio. Dopo cinque anni anche lei e Kamil avrebbero lasciato Kano, ma con la promessa di un lavoro onesto e la speranza di non separarsi mai. Dopo un’estenuante attraversata del deserto, in cui avevano creduto di non farcela più volte, tra minacce e indicibili pericoli, erano giunti sulla spiaggia dove li attendeva un gommone. A loro due era destinato il posto ai lati, era stato Kamil a chiederlo, perché quello centrale era il più rischioso: in caso di perdita di carburante si sarebbero ustionati. Prima di salire sull’instabile imbarcazione, davanti al mare, stretti in un forte abbraccio, Aminah e Kamil avevano pregato a lungo. E adesso Kamil aveva infranto la promessa, lasciandola sola con il loro figlio, alla ricerca di un nuovo lavoro e lei non sapeva dove fosse e quando sarebbe tornato da lei.
Con le bottiglie strette al petto, circondate dal braccio sinistro, Aminah infilò la chiave nella toppa con la mano libera, poi con un piede si aiutò ad aprire il più possibile la porta e subito la calura l’assalì. La luce proveniente dalle finestre chiuse inondava il piccolo salotto, creando un asfissiante effetto serra. “Hassan! Hassaaan!” urlò mentre posava le bottiglie sul divanetto dalla fodera sdrucita. All’improvviso una testa riccioluta sbucò dalla porta del cucinotto. “Mamma, perché urli?” “E tu perché hai chiuso tutte le finestre? C’è un caldo infernale in questa casa!” “Va bene, va bene, adesso le riapro, non innervosirti! Lo sai che ci sono le api intorno alla magnolia del giardino e io ho paura delle api.” E così dicendo si precipitò a riaprire la finestra. Allora Aminah si liberò del turbante zuppo di sudore e si avvicinò al ragazzino. Lo aiutò nel compito, poi lo attirò a sé furtivamente. “Vieni qui, cucciolino!” “Non sono più il tuo cucciolo, dai non fare così!” rispose Hassan cercando invano di svincolarsi dall’abbraccio della madre che minacciava di solleticarlo e lui il solletico proprio non lo sopportava. Le allegre risate si diffusero per la stanza mentre un leggero refolo di vento sollevava i lunghi riccioli ribelli di Aminah. Qualcuno suonò al campanello. Hassan approfittò della distrazione di sua made per sgattaiolare nella sua cameretta e riprendere in mano il game boy. “Chi è?” chiese Aminah avviandosi alla porta mentre si ravvivava la folta chioma. “Sono io, Teresa” si sentì rispondere fiocamente. Allora Aminah, girando la chiave, aprì e fece accomodare con premura l’anziana vicina. “Ti preparo un caffè?” chiese col suo accento italiano incerto. “Non darti pena, mia cara, sei già tanto stanc… ohhhh ma che t’è successo al labbro? Hai del ghiaccio da metterci su? Penso si stia gonfiando…” Aminah sorrise dolcemente alla donnina premurosa che le sedeva accanto. Teresa era una vicina disponibile e affettuosa. Sin dal loro trasferimento nel condominio aveva accolto lei e la sua famiglia con estrema gentilezza, mettendosi a disposizione in ogni momento. Aminah era ricorsa spesso al suo aiuto quando Hassan era ancora un bambino e si ammalava sovente. Così, mentre lei lavorava, Teresa lo accudiva generosamente. “Un piccolo incidente, come dite voi?” rispose sfoderando un largo sorriso. La sua bocca ampia, dai denti candidi e perfetti conquistavano ogni volta Teresa, che in lei vedeva una nuova nipote, visto che le sue erano tutte al Sud e non era riuscita a seguire la loro crescita da vicino. Aminah sentì la fresca mano di Teresa sulle sue guance e inarcò il viso nelle scapole chiudendo gli occhi. Era lieve il suo tocco, ma intensamente dolce. Si lasciò coccolare per alcuni secondi, poi riaprì gli occhi e confessò: “Sono stanca Teresa, stanca di girare come una trottola giorno e notte, non riesco a fermarmi per un attimo a pensare a me, anche solo per una doccia rilassante che duri più di due minuti! I soldi non bastano mai da quando Kamil è andato via e io vivo nella paura che il padrone di casa un giorno ci cacci via!” Il tono della voce cominciava a incrinarsi in pianto. Allora Teresa le prese le mani fra le sue e lanciandole un’occhiata decisa, dichiarò: “Anche a noi qui non ci volevano. Non ci affittavano le case perché dicevano che eravamo sporchi, che le case le rovinavamo. Vietato affittare ai terroni, ci dicevano sbattendoci le porte in faccia. Ma poi, pian piano, hanno imparato a conoscerci e a chiamarci grandi lavoratori. Noi non abbiamo mai avuto paura della fatica, noi lavoravamo in campagna sin da bambini, in casa badavamo ai fratelli più piccoli e quando siamo arrivati qui, andavamo a servizio dalle signore e stavamo con i loro bambini. Hanno capito che non tutti sono sporchi, disonesti e fannulloni. Ci vuole tempo, mia cara, vedrai, presto capiranno che siete brave persone anche voi.”
Le parole rassicuranti della vicina sollevarono per un attimo Aminah. Teresa era un Loa buono, uno spirito della sua tradizione che lei paragonava agli Angeli, presenze mandate dal cielo per soccorrere i bisognosi, un raggio di luce nella notte buia a indicare la via. “A che ora cominci il turno, stasera, al ristorante?” Teresa la distolse dai suoi pensieri. “Alle 18.30, purtroppo, e neanche stasera riuscirò a cenare assieme a mio figlio”, rispose desolata Aminah. “Posso restare io a fare un po’ di compagnia ad Hassan” si propose l’anziana donna. Gli occhi di Aminah si inumidirono e per risposta ebbe un forte abbraccio per il suo tenero Loa italiano. Divincolatasi, si confidò: “Mi sento tremendamente in colpa verso Hassan, passo così poco tempo con lui ormai e lui resta solo in casa, non ha neanche più voglia di giocare a pallone con i suoi amici ai giardini. Ho paura che mi sfugga qualcosa di lui…”
“Devi stringerlo forte a te, il tuo bambino, è lui la tua forza. Lui sa che tu ci sei, anche se lavori tanto in questo periodo. Lui cresce bene con gli esempi che sai dargli, il tempo te ne darà conferma”. Teresa con le sue parole piene di saggezza, pronunciate con tono deciso, riusciva sempre a sollevarle il morale, e a lei bastava poco per rialzarsi. Il sorriso era la sua arma contro le avversità. Spesso l’avevano accusata di leggerezza, ma in realtà il suo era una sorta di rito magico, proprio come diceva a suo figlio: “Se tu sorridi, tutto il creato ti sorriderà!”
L’orologio sul muro sverniciato dell’angusto cucinotto segnava ormai le 18:00. Fra pochi minuti Aminah si sarebbe incamminata, attraversando il paese sotto il sole ancora cocente, verso il ristorante in cui avrebbe trascorso sei lunghe ore a lavare piatti e sistemare la cucina. Decise di sgranocchiare qualcosa prima di uscire. Dalla credenza tirò fuori un enorme pacco di patatine, lo aprì con foga e cominciò a divorare il cibo, imbrattandosi le labbra di unto e di sale. Buttava giù avidamente i bocconi e nel frattempo si rammaricava per non riuscire a limitarsi. In quel periodo mangiava voracemente tutto ciò che le capitava sotto tiro. Più mandava giù e più le sembrava di placare l’enorme voragine di paura e solitudine che provava nelle ultime settimane. Era difficile contenersi, non voleva proprio farlo.
I fari della sgangherata Rénault grigia di Syltana si spensero davanti al cancello del condominio. Una mano ingioiellata di anelli e bracciali tintinnanti accese la luce interna e l’abitacolo si illuminò. La giovane dominicana porse ad Aminah il pacchetto delle sigarette, questa ne estrasse una, se la portò alle labbra mentre l’amica prontamente gliela accendeva. Così le due donne si gustarono l’ultima sigaretta della giornata. “Ci pensi mai a tornare al tuo Paese, Aminah?” “No, mai. Il futuro per mio figlio è qui.” “Almeno tu hai un affetto a cui aggrapparti…Io penso agli occhi di mia madre mentre mi saluta pensando che forse non mi avrebbe più rivista. Ma io ci tornerò al mio Paese, per rivedere i suoi occhi illuminarsi ancora. Ogni notte, prima di addormentarmi, la vedo mia madre e ha uno sguardo spento.” Aminah posò la sua mano su quella della collega gentile che ogni sera la riaccompagnava a casa. Era un rito l’ultima sigaretta, il momento delle loro confidenze. “Fai bene Syltana a sperare, le cose cambiano, non sempre in peggio.” E così dicendo strappò un sorriso alla ragazza, che le aprì la portiera e le augurò la buonanotte.
Aminah entrò in casa silenziosamente. Lasciò per un attimo la porta dell’ingresso aperta, approfittando della luce accesa delle scale, in modo da riuscire a togliersi le scarpe e infilare finalmente i piedi nelle comode ciabatte. Poi richiuse la porta cautamente e corse verso la camera di suo figlio.
I riccioli bruni e increspati di Hassan erano riversi sul cuscino a incorniciargli il viso angelico. Le palpebre chiuse, dalle lunghe ciglia di velluto, proteggevano lo sguardo vispo che suo figlio lanciava al mondo sin dalla nascita. Le sue incessanti domande, i perché a cui spesso non aveva saputo dare risposte, ma che con la sua innata fantasia aveva cercato in qualche modo di risolvere, i suoi piccoli gesti di generosità quotidiana, il suo incessante impegno nello studio, la caparbietà con cui portava a termine i suoi impegni erano per lei la ricompensa delle fatiche che affrontava da sempre. Indugiò in furtive carezze sulla fronte imperlata di sudore di Hassan e sulle mani dalle unghie mangiucchiate, poi decise di tirare sù, sulle esili gambe da gazzella, il lenzuolo di lino. Un leggero fruscio attirò la sua attenzione e lo sguardo le cadde sul pavimento dove era scivolato un foglietto piegato in quattro parti. Aminah si chinò per raccoglierlo e, dopo aver esitato alcuni secondi, decise di spiegarlo.
“Quando la bacio, la mia mamma profuma di mare perché la mia mamma viene dal mare. A volte penso che lei sia una sirena, perché vive sempre con la testa e le braccia sulla terra, ma la sua vera casa è il mare e nel suo mare ci sono tanti pensieri che formano un regno tutto da esplorare.”