Latte nero. Storia di una madre che non si sente abbastanza di Elif Shafak è un viaggio nell’universo femminile con le sue laceranti contraddizioni interiori dinanzi alla scelta della maternità. Creare o procreare, l’aut aut che affligge da secoli la donna, viene analizzato su un duplice piano letterario, fra saggio e romanzo.
“I romanzieri sono individui innamorati di se stessi che preferiscono non attirare l’attenzione su questo fatto. Le madri, invece, devono essere creature altruistiche – almeno per un po’ – che danno più di quanto prendano.”
Donne, prima di tutto donne, e spesso madri, le scrittrici ancora oggi, quando ormai i diritti femminili sono stati rivendicati (ma non del tutto rispettati) sono assillate da questo grande dilemma: è meglio creare o procreare? Pare proprio che queste due polarità non possano convergere in un punto comune. Se sei madre non potrai aspirare se non al ruolo di brava nutrice e se sei scrittrice non potrai pensare di metter su famiglia perché l’immane dovere materno potrebbe impedirti di cogliere occasioni importanti per la tua affermazione. Perennemente sottoposte a questo lacerante conflitto con se stesse, le donne scrittrici, nei confronti della maternità, hanno dunque mostrato nel tempo un atteggiamento ambivalente: chi provandoci, finendo poi col sentirsi schiacciate da un inevitabile senso di colpa e chi, in maniera completamente radicale, vi ha rinunciato del tutto. La storia della letteratura è tuttavia anche piena di esempi di autrici che hanno voluto sfidare la sorte, perseverando nel proprio percorso artistico. Si apre così uno spiraglio che ridimensiona, in qualche maniera, una visione, diciamo così, troppo femminista della questione, come viene sottolineato nel libro Latte nero dell’autrice turca Elif Shafak, oggetto del presente approfondimento.
A metà strada fra saggio letterario e romanzo, il libro è caratterizzato da numerosi approfondimenti e riferimenti ad autrici, per lo più del passato, che si sono ritrovate a dover affrontare la grande scelta di cui si sta parlando. Il conflitto interiore che impone questa grande decisione è stato affrontato il più delle volte in maniera drastica, come per la De Beauvoir in riferimento alla quale Elif Shafak afferma: “Simone credeva che la maternità fosse incompatibile con la vita da scrittrice e intellettuale che aveva deciso di abbracciare. Aveva bisogno di tempo, concentrazione e libertà per perseguire i propri ideali”, pur riconoscendo che se solo il suo amato e stimato Sartre avesse voluto dei figli, lei lo avrebbe accontentato. Ma c’è un esempio, invece, quello della femminista Audre Lorde, che si definiva “nera, lesbica, madre, guerriera, poeta” che sembra risolvere la questione con la sua metafora della Madre Nera, simbolo della creatività, che accomuna tutti gli essere umani, donne o uomini che siano, madri/padri o meno. Essa alberga in ognuno di noi e sussurra:
“Sento, dunque posso essere libera.”
Fra narrazione e riflessione
Latte nero, pubblicato nel 2012 da Rizzoli, è un libro variegato, così come lo ha definito la stessa autrice, “è stato scritto con latte nero e inchiostro bianco, un cocktail di narrazione, maternità, spirito vagabondo e depressione, distillato per diversi mesi a temperatura ambiente.”
Non si tratta solo di un romanzo, Latte nero è a tratti, come è stato già accennato, un saggio letterario, che prende in considerazione l’esperienza di numerose scrittrici, contemporanee e del passato, che hanno affrontato il momento della maternità con piglio ora ribelle, ora più pacato e silenzioso, doloroso e contrastante, imparando a scoprire parti di sé assopite o incorruttibili alla luce del sacrificio verso altri esseri, altro da sé. Sapevate ad esempio che dietro il genio letterario di Tolstoj ci fosse una moglie devota, Sofija Andreevna Bers, donna colta e generosa che rinunciò ai suoi sogni per occuparsi della famiglia e, soprattutto, per l’affermazione del marito come scrittore, o che l’autrice di Piccole donne, Louisa May Alcott, fu spinta dall’editore durante la stesura del seguito del popolare romanzo a far sposare Jo, mentre lei l’avrebbe voluta indipendente e votata alla scrittura, per sempre?
Il libro di Elif Shafak trasporta dunque nel mondo delle donne, nella loro più profonda interiorità, scandagliando tutte quelle forze e debolezze che fanno del l’essere femminile un soggetto multiforme e multicolore, capace di trasformarsi e reinventarsi giorno dopo giorno, specie dopo momenti unici come la maternità, che può sorprendere ora come un’alba tanto attesa, ora come un pozzo buio in cui si precipita, un’esperienza assoluta che conduce a uno stravolgimento di priorità e ideali e che, quasi sempre, rappresenta una vera e propria rinascita per ciascuna.
Il richiamo della maternità bussa per tutte
Tic tac tic tac … Prima o poi l’orologio biologico comincia a ticchettare all’impazzata nel cuore di una donna che, per quanto convinta della sua libertà possa essere, non può sfuggire all’antico richiamo della procreazione, almeno così si dice e pare sembra essere così per molte.
Può dunque anche una donna fiera della sua indipendenza, scrittrice affermata, femminista convinta e attivista politica, sentire l’esigenza di metter su famiglia, a un certo punto della sua vita? E cosa succede se invece di dare ascolto al flebile sussurro nascosto, quello che relega nelle stanze più buie del suo Io interiore, si ostina a voler andare avanti per la sua strada, a testa alta, decisa a non lasciarsi turbare da questa insospettata esigenza?
Elif Shafak, scrittrice turca nota soprattutto per il romanzo “La bastarda di Istanbul” pubblicato nel 2006, grazie al quale si è aggiudicata la nomina nella lista dell’Orange Prize, libro che le è oltretutto costato una denuncia per attacco all’identità turca, terminata con un’inchiesta conclusasi nello stesso anno, condivide con il suo affezionato pubblico la propria personale esperienza della maternità e lo fa non redigendo una cronaca edulcorata del magico momento che, prima o poi, tutte le donne sognano. Il lettore non deve infatti aspettarsi particolari intimi sul suo rapporto esclusivo con i figli, ma equipaggiarsi di stupore e coraggio, in vista di un lungo viaggio interiore, non privo di ostacoli come tutti i percorsi avventurosi affrontati dalle più temerarie eroine.
Comincia l’avventura
Tutto inizia con un incontro quasi predestinato su un battello durante la traversata del Bosforo che conduce la protagonista, sempre la stessa autrice, dal suo ennesimo rientro dagli Stati Uniti dove vive momentaneamente dopo essersi aggiudicata una borsa di studio. Intenta a trascrivere di suo pugno le leggi del Manifesto delle single, si accorge che accanto le siede una donna dal fisico appesantito e dai tratti stanchi, madre di due bambini e in attesa di un terzo, la perfetta antitesi di se stessa. Quel breve tragitto in mare sarà l’inizio di un susseguirsi di segnali voluti dal destino che preannunciano la svolta che di lì a poco prenderà la sua vita. Proprio come in una fiaba, sarà l’incontro con un personaggio da lei ammirato, la rinomata scrittrice Agaoglu, a metterla di fronte a una scelta difficile: sfornare figli o libri? Inizia così per la protagonista un cammino tortuoso, scandito da una estenuante lotta contro se stessa, contro le piccole donne del Coro di voci discordanti che albergano dentro di lei, fonte di perenne confusione e turbamento.
L’harem within
L’autrice confessa: “C’è un miniharem dentro la mia anima. Un gruppo di donne che litigano e bisticciano di continuo, aspettando solo di cogliersi reciprocamente in fallo. Sono creature minuscole, non più alte di Pollicina. Dieci o dodici centimetri di statura, due o tre etti dipeso, sono queste le loro dimensioni. Rendono la mia vita un inferno, eppure non so vivere senza di loro. Emergono o restano nascoste senza che io possa controllarle”.
Chi sono queste Pollicine contraddittorie che si muovono in continuo dissenso fra loro negli angoli oscuri dell’anima della scrittrice? Sono la Signorina Efficienza, dallo spirito pratico e dallo stile casual, che ha sempre la soluzione a tutto, la Signora Derviscio, spirituale, che sprizza serenità interiore da tutti i pori e si accontenta di poco, pungolando con le sue domande esistenziali, l’Ambiziosa Cechoviana, instancabile stakanovista, dal fisico esile, perennemente indaffarata, e l’Intellettualoide Cinica e filosofa anticonformista dallo stile hippy, che ha sempre una citazione famosa da pronunciare e una teoria filosofica da ricordare. A queste si aggiungeranno, inaspettatamente, ma non troppo, la Mamma Budino di riso, dalle guance paffute, sempre impegnata a occuparsi del focolare domestico, e l’avvenente e sensuale Blue Belle Bovary. Perseguitata da queste voci in contrasto fra loro, l’autrice si ritroverà a fare i conti con l’antica dicotomia che ha afflitto, e continua a farlo, numerose donne intellettuali nel corso della storia.
Scrittura e maternità, una questione sempre aperta
A questo punto della storia si alternano momenti prettamente narrativi a capitoli più argomentativi, in cui l’autrice passa in rassegna una serie di casi artistici e letterari di donne che si sono ritrovate a fronteggiare profondi divari interiori che le hanno spinte verso scelte non sempre facili da comprendere. Si parte dal riferimento a Virginia Wolf che nel suo saggio Una stanza tutta per sé ha evidenziato come, a differenza degli uomini, le scrittrici, non avendo le pari opportunità, sono prima di tutto considerate solo ed esclusivamente donne, per poi passare ad altri esempi come Sylvia Plath, che “per tutta la vita (…) fu tormentata da ansie relative alla femminilità e alla maternità e nei suoi diari scrisse: ‘prima devo conquistare scrittura ed esperienza, poi avrò tutto il diritto di conquistare la procreazione’ e ancora ‘Scriverò finché esprimerò il mio io profondo, poi avrò dei figli ed esprimerò qualcosa di ancora più profondo’”. Diventata madre, la poetessa e scrittrice inglese si sentì trascinare da una duplice corrente: euforia e frustrazione. Si svegliava all’alba per potersi dedicare alla scrittura, con la quale dovette mantenere se stessa e la famiglia, specie dopo la separazione dal marito, Ted Huges, anch’egli famoso poeta. Come la Plath, fa notare l’autrice, anche altri scrittrici paragonarono la loro creazione artistica a un parto, durante il quale si affollavano bambini, ora affamati, ora in cerca di attenzione, ovvero poesie e opere d’arte. In un capitolo successivo intitolato Libri e bebè, l’autrice affermerà: “tra i bebè e i libri esiste una differenza cruciale (…) I neonati richiedono una smisurata quantità di cure premurose dal momento in cui vengono al mondo (…) I libri, invece, non sono così. Camminano da soli appena nascono, cioè a partire dalla data di pubblicazione) e imparano immediatamente a nuotare – con l’entusiasmo, la caparbietà e la goffaggine delle tartarughine di mare – dalle tiepide sabbie delle case editrici verso le sconfinate acque azzurre dei lettori”.
Di fronte alla scelta del matrimonio e della maternità, molte donne dallo spirito indomito e ribelle si tirarono indietro o, come nel caso di Zelda Fitzgerald, la vita accanto al noto partner fu scandita da momenti di rabbia, competizione, violenza e sofferenze.
Maternità, non solo gioie
Con la memoria assalita da lontani ricordi, sia personali che artistici, la protagonista di Latte nero si ritroverà spiazzata e subirà in piena notte un repentino Colpo di Stato da parte delle vocine interiori, capeggiato da Milady Ambiziosa Cechoviana, presto soppiantato da una ben più severa oligarchia da parte di Mamma Budino di burro. Nel frangente, in seguito a un patto con il proprio cervello, deciderà di anteporre la mente al cuore e le conseguenze sul proprio fisico saranno devastanti. Prima di capire che in fondo le voci del coro non possono né essere rinchiuse definitivamente, né tanto meno ritrovarsi in lotta continua fra loro, l’autrice dovrà affrontare i propri demoni interiori, guardandoli in faccia in tutta la loro crudeltà. Innamorata, capitolerà nella decisione dell’unione coniugale, non senza aver scelto in maniera singolare luogo e modalità di rito e convivenza; incinta e poi finalmente madre, dovrà attraversare un lungo momento di solitudine con se stessa, durante il quale nella Terra di se stessa dominerà la più assoluta anarchia, scandito da paure, amarezze e infine rinnovato da nuove consapevolezze.
L’autrice dichiara infatti di essere stata vittima di una lunga depressione post partum, fenomeno da lei affrontato con la solita razionalità, in seguito esorcizzata nel suo libro attraverso la sua innata fantasia e propensione alla narrazione. Questo oscuro male, che affligge le donne dopo aver partorito, viene paragonato a un Jinn, una creatura minacciosa della tradizione orientale, che le fa visita proprio nel momento in cui la pressione di paure e interrogativi che la soffocano, raggiunge l’acme. Nei momenti di sconforto i suoi dubbi riguardano le sue capacità materne, non l’amore verso la bambina partorita. Racconta così che durante la prima fase della maternità, guardandosi allo specchio non si era riconosciuta: “La mia fiducia in me stessa è diventata una pallina di gelato che si scioglie rapidamente sotto la violenza della maternità (…) So di aver bisogno di aiuto ma non mi viene in mente di chiederlo (…)”. Ancora una volta le grandi donne del passato tornano a bussare alla sua mente e lei questa volta le accoglie con uno spirito nuovo, nella consapevolezza che non esiste una formula universale per la maternità e per la scrittura. Scrittrici come Dorothy Parker, Audre Lorde e Sandra Cineros, ad esempio, non identificarono la creatività femminile con la riproduzione, scelsero di seguire la loro passione senza rinchiudersi in rigidi stereotipi, facendo un balzo in avanti, senza dare per scontato ruoli e barriere sessuali, ma mettendo in discussione certezze sociali radicate, esse perciò “cambiarono il mondo cambiando prima se stesse”.
L’armonia interiore
Nel corso del suo lungo viaggio interiore, la protagonista affronta dunque le proprie paure, sconfiggendole con coraggio: dapprima le accoglie nel suo grembo come i figli tormentati di tutte le donne, che osserva inizialmente con eccessiva razionalità, in seguito con maggiore tolleranza, fino ad accarezzarli con serena accettazione. Prendendo per mano i lettori, Elif Shafak conduce a una pacifica conclusione in cui si pone l’accento sulla questione moderna della condizione femminile in rapporto alla maternità, che vede le donne come lavoratrici instancabili che vogliono tutto, in contrapposizione all’idea più tradizionale che identifica la maternità in un assoluto sacrificio, due visioni che non tengono conto della complessità dell’esperienza materna, che trasforma la donna in un essere unico e completo, in cui le voci dentro se stessa non sono più in lotta fra di loro, ma rappresentano, tutte insieme, il vero essere che fa della donna l’essere unico che è.
Ritrovate le Pollicine del suo harem, la scrittrice dirà: “Io sono tutte loro; con i loro pregi e difetti, i loro pro e contro, le loro storie compongono il Libro di Me”.