Vita brevis di Jostein Gaarder

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Floria Emilia, figura femminile lasciata in ombra dalle fonti storiche, si riprende il suo posto al fianco di un uomo che ha fatto la storia della Chiesa, Sant’Agostino, grazie all’astuzia narrativa di Jostein Gaarder che nel suo “Vita brevis”, pubblicato da Longanesi nel 1998, dibatte ora con pathos, ora con arguta ironia, il tema dell’amore ai tempi del manicheismo.

La copertina del romanzo Vita brevis di Jostein Gaarder, Longanesi – 1998.

VITA BREVIS

Jostein Gaarder

Romanzo

Longanesi

Collana La Gaja Scienza

Traduzione Roberto Bacci

169 pagine

Euro 9,66

ISBN 9788830414990 – Anno 1998

“La vita è così breve che non possiamo permetterci di pronunciare una condanna a morte dell’amore. Prima dobbiamo vivere, Aurelio, poi possiamo filosofare.”

Ci sono libri che, seppur brevi, non smettono di avere un seguito nella testa del lettore. Sono i libri che, pungolando continuamente l’emotività del lettore, a fine lettura richiedono attimi di raccoglimento per mettere ordine tra i pensieri. È il caso di Vita brevis di Jostein Gaarder, il noto autore norvegese che nel 1995 si è aggiudicato in Italia il Premio Bancarellino con Il mondo di Sofia edito da Longanesi in cui si annuncia l’abile narratore di metaromanzi fantasiosi e avvincenti dalle geniali sovrapposizioni di trame moderne a miti antichi, fiabe e leggende, un metodo ingegnoso per diffondere la cultura classica fra il pubblico, specie fra quello più giovane, e indurlo così a riflettere su universali tematiche esistenziali.

Il mondo di Sofia dell’autore norvegese Jostein Gaarder, pubblicato in italia nel 1995 da Longanesi, si è aggiudicato nello stesso anno il Premio Bancarellino.

Accenni alla trama

Le Confessioni di Agostino d’Ippona, opera autobiografica sulla conversione del santo, fu scritta nel 398 d.C.

In Vita brevis, l’espediente letterario utilizzato è il ritrovamento nella primavera del 1995 a Buenos Aires, da parte dello stesso autore, di un manoscritto latino custodito all’interno di una cassetta rossa presso una piccola libreria antiquaria. L’etichetta riporta la scritta il Codex Floriae e si rivela essere una lunga missiva risalente alla fine del IV secolo d.C., la cui autrice è proprio Floria Emilia, la concubina che il vescovo di Ippona, meglio noto come Sant’Agostino, abbandonò dopo aver scelto di vivere in totale astinenza dall’amore sensuale, così come scrive nelle sue Confessioni. Il manoscritto scomparirà misteriosamente quando l’autore deciderà di consegnarlo alla Biblioteca Vaticana.

Una storia sconosciuta…

“Sentii la tua mano sulla mia spalla, quindi mi attirasti dolcemente a te, sussurrando: «La vita è così breve, Floria!» ”

Forse non tutti sanno che, prima di diventare il filosofo, teologo e santo, Aurelio Agostino visse per oltre dieci anni con una prostituta a Cartagine, dove si era recato, all’età di diciassette anni, per prepararsi alla carriera forense. Da questa unione nacque Adeodato, che sua madre fu spinta a lasciare ad Aurelio quando i due amanti, trasferitisi in Italia, si separarono per sempre.

Nel suo breve e sferzante romanzo, Jostein Gaarder ritrae la figura di una donna, quasi del tutto sconosciuta alla storia, forte, intelligente e anticonformista per il suo tempo. La lunga lettera è pervasa da una intensa passionalità, che sottende un amore viscerale per la vita, quello di cui solo le donne che hanno saputo prendere in mano la loro vita, dopo essere state tradite e abbandonate, sono capaci.

Ma la sfida di Floria è immane, perché deve competere con una forza più grande, che è la Fede.

Titanicamente si eleva a giudice di una femminilità evoluta e, soprattutto, indomita. Dopo aver trascorso anni a studiare, ad approfondire la filosofia a cui era votato il suo vecchio amore, sviluppa una abile dialettica che le consente di tenere una vera e propria arringa contro il comportamento ambiguo e a tratti deprecabile di Aurelio.

“Confesso soltanto di credere che forse verrà giudicato anche il voltare le spalle a ogni gioia, a tutto il calore e la tenerezza che il vescovo d’Ippona ora rinnega. Tale è la confessione di Floria!”

… e di denuncia

La lettera di Floria Emilia è dunque la risposta alle Confessioni del suo vecchio amante, la contro-confessione, potremmo affermare, di una donna innamorata, abbandonata per la Fede (o per la codardia di un uomo incapace di scegliere) che confessa, da donna istruita, che il vescovo di Ippona tradisce se stesso negando il suo amore passato, che descrive come il periodo in cui era lontano da Dio. Con la sua scelta, Aurelio avrebbe così soffocato il suo io più autentico, diventando un’ombra di se stesso. Al contrario, Floria rivendica la sua superiorità femminile nel pensare senza filtri religiosi, in nome di una conoscenza più razionale e naturalistica. La sua istruzione non le benda gli occhi, la sua ragione ha la meglio sulla Fede, le permette di dubitare l’esistenza di un Dio, di quel Dio di cui parla il santo nelle sue Confessioni, un giudice restrittivo che uccide i sentimenti umani.

“La vita è così breve, Aurelio. Possiamo sperare in una vita dopo questa, ma non ci è permesso di trattare male gli altri e noi stessi, quasi fosse un mezzo per raggiungere un’esistenza di cui non sappiamo nulla. (…) Io mi godo il pensiero che il Dio che ha creato il cielo e la terra sia lo stesso Dio che ha creato anche Venere.”

Non frasi taglienti di cui un cuore ferito che medita vendetta è capace, ma crude e sincere parole di una mente intellettualmente sincera sono quelle con cui verga il suo dolore l’autrice della lunga missiva. Attraverso la sua arringa decide di mettere spudoratamente a nudo l’amante passato, denunciando atteggiamenti incoerenti e svelando tratti della sua personalità considerati immorali. Rimproverandolo, la donna vorrebbe salvare Aurelio, liberarlo da quell’accecante bagliore mistico che ha offuscato i suoi sensi e lo accusa di manicheismo.

 “Sono angosciata, Aurelio. Temo per quello che gli uomini di Chiesa un giorno potranno arrivare a fare con le donne come me. Non solo perché siamo donne: così Dio ci ha creato. Ma perché tentiamo voi che siete uomini: così vi ha creato Dio, per essere uomini. (…) Rabbrividisco, perché temo che arriveranno giorni in cui le donne come me verranno uccise dagli uomini della Chiesa cattolica. E perché mai verranno fatte fuori, misericordioso vescovo? Perché vi rammentano che avete rinnegato la vostra anima e i vostri talenti. E per chi? Oh sì, per un Dio, dite, per colui che ha creato un cielo sopra di voi, e una terra dov’è risaputo che le donne vi mettono al mondo.”

Dualismo e simbologia in Vita brevis

Nel corso della narrazione emergono una serie di binomi antitetici: Fede e Ragione; Ippona e Cartagine, la città della Chiesa cristiana contro l’antica città in cui Enea incontrò Didone e qui vi morì per la disperazione di un amore tradito, la stessa città in cui Aurelio conobbe Flora e visse con lei il suo peccaminoso concubinato; Floria Emilia contro Monica, la madre possessiva e ambiziosa di Aurelio, e ancora l’terno contrasto Vita-Morte, fino allo scontro tra Aurelio e la Chiesa contro Eva, la donna tentatrice della Bibbia.

perché in fondo non fu contro di me che ti scagliasti quella volta. Fu contro Eva, misericordioso vescovo, la donna.

L’incontro di Enea e Didone nell’opera del pittore francese Jean Raoux.

Il dibattito dell’eterna lotta tra Fede e Ragione si estende alla dicotomia tra la vita eterna, quale premio di una esistenza vissuta nel controllo delle proprie passioni, e la filosofia del qui e ora di derivazione epicurea. La Fede divina si contrappone dunque al famoso motto “carpe diem” che è qui travisato dalla tradizione cristiana come il trionfo del piacere dei sensi e che l’autrice della lettera intende invece come mortificazione di una vita terrena, che ha ben altro da farsi perdonare che la goduria di un bel canto, o il profumo di un fiore.

“Esci, Aurelio! Esci e distenditi sotto un albero di fico. Apri i tuoi sensi, magari per un’ultimissima volta soltanto. Per me, Aurelio, per tutto ciò che un tempo ci siamo dati l’un ‘altra. Inspira profondamente, ascolta il canto degli uccelli, guarda in alto la volta celeste e assapora tutti i profumi. È questo il mondo, Aurelio, ed è qui e ora.”

Nella ricorrente simbologia dell’albero di fico è possibile ravvisare invece la dicotomia tra Vita e Morte. È proprio sotto un fico che a Cartagine Aurelio vide per la prima volta Flora e, sempre sotto lo stesso albero,  si rincontrarono dopo essersi persi. Il fico è la pianta all’ombra della quale sbocciò e si consumò l’ardente legame tra Enea e Didone, ed è allo stesso tempo l’albero al quale, per la disperazione, si impiccò il discepolo Giuda dopo aver venduto Gesù per quaranta denari.

Il legame di Sant’Agostino con sua madre Monica

Degna di nota, ma non di certo positiva, è la citazione alla madre di Aurelio, la devota Monica, poi nominata santa. La donna è descritta come un essere possessivo, interessato a far unire in matrimonio suo figlio a una esponente, giovanissima, di un ceto più abbiente. Sarebbe Monica, dunque, dipinta come una donna avida di prestigio e calcolatrice, spingendo il figlio a salire i gradini della carriera ecclesiastica, l’artefice dell’allontanamento fra i due amanti.

Sant’Agostino e sua madre Monica. Nelle Confessioni la donna viene descritta come devota e caritatevole cristiana.

Tra le righe, l’autore analizza questo legame malsano tra madre e figlio che nelle sue Confessioni rinnega il periodo trascorso con Floria, definendo Adeodato il figlio della colpa, morto prematuramente. Rivolgendosi a Dio, Floria ricorda che Agostino liquiderà così la sua scomparsa nelle Confessioni: “Presto lo hai tolto dalla terra, e sereno è il ricordo che ne ho, tanto più che non ho nulla d temere per la sua infanzia e la sua adolescenza, e nulla affatto per la sua età matura…”. Nessuna complicità si instaura, dunque, fra le due donne e Floria finisce per subire, impotente, per la sua condizione di inferiorità sociale.

La rivincita di Floria Emilia

Che la lettera protagonista del romanzo sia realmente stata scritta o sia stata mai recapitata al suo mittente, poco importa. Ciò che conta è che la concubina, sconosciuta e indegna di essere citata nelle Confessioni di Sant’Agostino, sia riuscita a riscattarsi, negli anni di lontananza da Aurelio, con lo studio delle scritture classiche, delle teorie di quei testi che il suo amante le citava e che, nella sua agguerrita analisi contro le interpretazioni cristiane, sia in grado, con abile dialettica, di riconsegnarle alla storia nella loro autenticità.

L’autore del romanzo redime così la figura di una donna che con la sua cultura, ammirevole dignità e forza d’animo, denuncia le contraddizioni interne a un sistema che fonda(va) il suo potere sull’Amore, ma che di tale da insegnare e da dimostrare ha davvero ben poco.

“Sentii la tua mano sulla mia spalla, quindi mi attirasti dolcemente a te, sussurrando: «La vita è così breve, Floria!»”

Piccolo appunto al traduttore

L’uso di alcuni aggettivi, come “fragorosa” e “indelebile”, stride con lo stile convincente e accattivante che contraddistingue l’autore norvegese.