C’è stato un periodo in cui, durante la mia prima adolescenza, al cancello di casa si arrampicava il paziente di un centro riabilitativo assistenziale, situato a poche centinaia di metri dall’abitazione dei miei genitori. Era alto poco più di un metro e cinquanta, aveva capelli radi, una pancia pronunciata, e indossava tute di maglina, mentre in estate sopra i pantaloni portava solo la maglia intima. In punta di piedi sulle traverse inferiori, afferrava i quadrelli con le mani e spingeva con forza il cancello, urlando. Ogni volta che sentivo le sue urla, correvo a nascondermi, assalita da un miscuglio di sentimenti contrastanti. Da una parte il viso sparuto contratto in smorfie di dolore mi provocava terrore, dall’altra il tono stridulo delle urla insistenti instillava il dubbio che forse la sua fosse una richiesta di compagnia, forse chiedeva solamente di entrare a giocare con noi ragazzi. Cercava compagnia, momenti di amicizia, condivisione di sguardi e sorrisi. E noi glieli abbiamo sempre negati. Disorientati, spaventati e inconsapevoli. Venivano a prenderlo gli assistenti dell’ospizio e noi per alcuni giorni non lo vedevamo più.
Molti della mia generazione, nati fra gli anni ’70 e ’80, conservano nei loro ricordi episodi simili, quando ancora persistevano residui manicomiali, quando ancora non era ben chiaro come fosse cambiata, nel nostro Paese, la vita dei pazienti un tempo rinchiusi.
A testimoniarlo ci hanno provato pellicole cinematografiche e romanzi, attraverso storie di denunce per sensibilizzare la società su una situazione di degrado e soprusi taciuta fino alla soglia degli anni ’80. Ma cosa resta, oggi, dei vecchi pazienti riabilitati, cosa ne è dei nuovi pazienti affetti da disturbi mentali, e come si destreggiano centinaia di famiglie italiane nella loro gestione? Perché quella della psichiatria resta una questione socio-politica ancora aperta.
“Tutto mi chiede salvezza.
Per i vivi e i morti, salvezza.
Per i pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia.”
Negli ultimi anni e, in particolare nelle ultime settimane, nelle più recenti pubblicazioni di narrativa italiana si nota un crescente interesse nei confronti delle tematiche psichiatriche.
“Tutto chiede salvezza”, Edizioni Mondadori – 2020, è la storia di Daniele, sottoposto a un TSO in seguito a una esplosione di rabbia, durante il suo soggiorno nella stanza del reparto di psichiatria assieme ad altri pittoreschi e alienati pazienti. L’autore romano Daniele Mencarelli descrive con lucida e spietata analisi la condizione degli “internati”, che ha ispirato l’omonima serie Netflix in uscita il prossimo 14 ottobre. I personaggi (Daniele, un saggio maestro, un giovane catatonico imboccato amorevolmente dal padre, un omosessuale bipolare e un ragazzo che si porta addosso le ferite per la scomparsa improvvisa della madre) convivono in una sorta di bolla all’interno della quale, una linea di confine dal corridoio del reparto e da altri mondi, peggiori del loro, più indifferenti del loro.
“Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi”.
Fra le novità del mese appena trascorso, possiamo citare due libri sull’argomento: il romanzo edito da Mondadori dello storico e giornalista Giorgio Boatti “Abbassa i cielo e scendi”, il racconto, tenero e autentico, di oltre cinquant’anni dell’Italia in una fase di trasformazioni sociali con l’attenzione al rapporto della voce narrante con il fratello maggiore affetto da schizofrenia, e il romanzo edito da Neri Pozza “Shock” del medico e romanziere Carlo Patriarca, la biografia romanzata dello psichiatra che inventò l’elettroshock, Ugo Cerletti.
Due storie che narrano il dramma di una condizione umana da salvare, per rifarci al titolo di Mencarelli. Nel caso del libro di Giorgio Boatti la riflessione è incentrata sull’importanza di accogliere e includere pazienti come il protagonista, vittima di anni di trattamenti che lo hanno dimenticato nella sua misura umana.
“ … la prima volta che a psichiatria mi fanno rivedere Bruno, lui in realtà non c’è. O meglio, c’è a modo suo. C’è – ma questo non l’ho capito subito – come segno del suo sparire. Perché è esattamente questo che mi portano a vedere i due psichiatri dai quali, tanto per cambiare, sono andato a bussare chiedendo notizie: in fondo a un corridoio che mi è sembrato non finire mai, non c’è Bruno, c’è la sua fuga. È scappato dalla stanzetta dietro l’ambulatorio degli elettroshock dove stavano per ripetergli – reiterare, no? – lo stesso trattamento che gli avevano già fatto il giorno prima, appena arrivato, fresco fresco, dal pronto soccorso. Pare che lì in quella stanzetta i messi in elenco per il trattamento della mattinata siano radunati per le iniezioni di preparazione – le pre-morfine e soprattutto i miorilassanti, che dovrebbero servire a impedire che nelle convulsioni, al momento delle scosse elettriche, il paziente si fratturi qualche arto o si provochi qualche trauma, divincolandosi per liberarsi dalle fasce di cuoio che lo stringono. Questo resistere in ogni forma possibile a quello che ti immobilizza e ti imbavaglia è il campo di battaglia dove mio fratello ha preso a lottare.”
Con Shock si intende invece segnalare l’ambiguità delle strade percorse dalla psichiatria nella ricerca della cura per i disturbi mentali. Alla fine degli anni ’30, Ugo Cerletti ideò la terapia elettroconvulsivante con l’utilizzo di un apposito macchinario, di cui non volle ottenere il brevetto, deciso ad astenersi dal ricavarne benefici economici. Il suo scopo consisteva infatti nell’estrazione di molecole benefiche attivate durante l’elletroconvulsione, da iniettare nei pazienti proprio per evitare l’elettroschock. Il libro intende affrancare la figura di Cerletti dall’immagine del carnefice caduto nel vortice della brutalità delle cure psichiatriche adottate nel secolo scorso.
“Fluiva però lungo i corridoi dell’istituto l’idea e il nome di un’energia nuova, una corrente che illuminava le scrivanie e forse la cura dei nostri malati.”
Una questione, dunque, quella psichiatrica, scottante e sempre aperta come ho scritto poco prima, e allora mi sento di concludere questa mia riflessione domenicale con un brevissimo estratto dal romanzo sopracitato di Daniele Mencarelli, “Tutto chiede salvezza”:
“Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani.
Questo abbrutimento è la scienza?
Non aprirsi mai alla pietà, svuotare l’uomo sino a farlo diventare un ingranaggio di carne. Sentirsi padroni di tutte le risposte.”