Il buongiorno si vede dal mattino se non sei miope del giovane autore e illustratore Gabriele Sanzo edito da Letteratura Alternativa Edizioni – 2020 è un contorto viaggio nella sperimentazione linguistica a metà strada fra il non sensical e una prosa metapoetica.Gabriele SanzoRaccontiLetteratura Alternativa Edizionipagg. 66Euro 14,90ISBN 9788831468060
Al suo esordio Gabriele Sanzo si rivela un visionario del verbo, un comico e astuto giocoliere delle parole che si crea un suo angolo di prosa dove la narrazione diventa possibile nelle espressioni non sense che nascondono ben altro.
«Che tragedia sapere da te che nel mondo abbiamo sette sosia, ma tu li hai cercati tutti, uno ad uno, e hai pagato loro di tasca tua un chirurgo plastico per assomigliare ad un altro.»Abile nel manipolare le parole, con colorite espressioni ironiche, freddure al limite dell’assurdo, il giovane autore dimostra una spiccata inventiva umoristica, condita da note agro-amare. Leggendo le sue elucubrazioni narrative, il lettore si diverte a scovare il senso nel nonsenso che, seppur ironico e a tratti apparentemente banale, si legge fra le righe.
«Ho sentito parlare di una cartina per trovare quel che stavo cercando disperatamente da giorni, ma sono andato in edicola, e non c’era più la rivista con l’inserto; ho così optato per la rivista con l’insetto, che mi ha suggerito dove cercare la mia ossessione.»
Fra significati capovolti, sonore suggestioni, situazioni al limite dell’onirico, le parole fanno voli pindarici e, come in un circo dell’assurdo, le lacrime dei clown sciolgono la maschera di trucco. Come cortine stropicciate, atmosfere comico-surreali si levano in sulfurei incensi che stordiscono il pubblico.
Gabriele Sanzo, artista poliedrico, si destreggia fra prosa e tecniche illustrative, trasformandosi in un Toti Scialoja piemontese e anche un po’ Fosco Maraini quando, verso la fin(t)e del libello, presenta la sua poesia metasemantica dal titolo ASTORE ALZAVA A STENTO IL NAPPO:
«Astore alzava a stento il nappo,
gorgheggiando tutto il dì, bellava lo fronco
navasse a bisce bisce il cleido ripetè.
A volte rappira di sgolazzo
uno sgnorfo nel partio dell’auto
acchipaglia la crutsa…
eppure, mi parve metesto.
Gnode a chi pisce allora disse tra se e se
‘gnode a chi pisce’ di sblineco,
di forfa,
di billistro…
Gnode a chi pisce
senza alcun prefo
da un lenfo immemore.»
Nella sua raccolta di racconti surreali Il buongiorno si vede dal mattino se non sei miope Letteratura Alternativa Edizioni – 2020, Gabriele Sanzo diletta dunque il suo pubblico con divertissement alla Palazzeschi, buffonerie e sovvertimenti semantici, un’arte difficile di questi tempi amari, mandati giù a sorsi di risate. E difatti:
«Non sempre è detto che a Carnevale ogni scherzo Vale, che saluto calorosamente, e so che ci sta guardando proprio in questo momento.»Chi è Gabriele Sanzo
Classe 1995, Gabriele Sanzo disegna sin dalla tenera età. Da diversi anni è illustratore Freelancer. Ha pubblicato per libri e riviste importanti. Nel 2015 si è aggiudicato il premio della critica della giuria durante il “Sunday painters” indetto dalla Stampa ad “Artissima”, dove si è classificato secondo. Autore di mostre, organizza laboratori artistici per bambini e ragazzi in diverse librerie e biblioteche del territorio piemontese.
Nel 2019 si è laureato all’Accademia di belle arti con il massimo dei voti e subito dopo è diventato docente del corso di illustrazione presso la scuola del fumetto di Asti. Il buongiorno si vede dal mattino se non sei miope è il suo primo libro di racconti surreali-nonsense, pubblicato per Letteratura Alternativa Edizioni.
Pubblicato da Guanda Editore nel 2009, con la traduzione di Elisa Banfi, Per l’amor di un dio rappresenta l’esilarante esordio letterario dell’antropologa londinese Marie Phillips che, ispirandosi agli originali ideali incarnati dalle divinità dell’antica Grecia, dà vita a un romanzo avvincente che farà riscoprire il valore del divino dentro di noi. Marie PhillipsRomanzoGuanda Editorepagg. 289Euro 15,69ISBN 9788860885821Erano fieri, audaci e impavidi. Oggi, negli anni chiamati a.c., sono smarriti, sempre più vittime dei loro capricci, vanità e insicurezze. Sono loro, gli dei dell’antica Grecia che dal 1665 convivono a Londra in una casa dalla struttura decadente e l’atmosfera fatiscente, alla quale si accede tramite un portone dalla vernice nera non più lucida, dal batacchio a forma di corona di alloro annerito. Caos, disordine e sporcizia regnano ovunque anche nella giornata con cui si apre la narrazione, il che rende impossibile ad Atena dedicarsi a una importante ricerca, interrotta dalla musica assordante del fratello Dioniso, gestore di un pub e dj, il quale sorseggia alcol in cucina, accusato dalla saggia sorella di nascondere egoismo dietro il famigerato edonismo. Artemide, che di professione fa la dog-sitter, rientra da una passeggiata nel parco, dove ha fatto conoscenza con una donna trasformata in albero da suo fratello Apollo, a sua volta alle prese con l’imprevedibile ars amatoria di Afrodite, che si sta scopando in bagno, dalle pareti scrostate, mentre Ares bussa insistentemente alla porta.
Con questa turbinosa e al contempo spassosa introduzione, l’autrice londinese Marie Phillips ci presenta i suoi protagonisti. Un’idea davvero brillante la sua se consideriamo il significato racchiuso nelle idee archetipiche che le antiche divinità greche incarnano nell’immaginario collettivo. L’autrice, insomma, sovverte del tutto l’ideale che hanno da sempre rappresentato queste divinità. Afrodite, la dea della Bellezza, l’avvenente seduttrice ha perso il suo fascino erotico inteso in senso di illuminazione e conoscenza interiore e infine amore e gioia di vivere. Come afferma nel suo saggio La rinascita di Afrodite l’analista junghiana Ginette Paris, la bellezza della dea «scaturisce dall’incontro sessuale profondo e che ha in sé il potere di trasmutare l’esperienza fisica del piacere in un’esperienza estatica. Dall’amore sessuale alla bellezza, dalla bellezza all’estasi, questa è l’esperienza dell’esperienza afroditica.» O ancora, come scrive James Hillman nel suo saggio Re-visione della psicologia, la sua bellezza «rimanda alla superficie lucente di ciascun evento particolare alla sua trasparenza, alla sua particolare brillantezza, al fatto stesso che singole cose si mostrino alla vista e proprio nella forma in cui si mostrano».
Nella Londra contemporanea, Afrodite lavora svogliatamente per una chat-line erotica, mentre suo figlio Eros, il messo portatore di desiderio e scintilla d’amore, si è convertito al cattolicesimo e si ritrova in dubbio se passare al buddhismo. Atena, dea della ragione e della saggezza che, dichiara ancora Hillman ne La vana fuga degli dei «ha dato all’umanità la briglia e il giogo e la “scienza dei numeri”» non riesce a esprimere le sue idee e nessuno la ascolta. Palladina della psiche selvaggia femminile, Artemide risente emotivamente dell’indebolimento dei poteri divini.
Sempre Ginette Paris, nel saggio La grazia pagana descrive così la dea vergine: «leggera come un cerbiatto, forte come un’orsa, fremente come la narice di una cavalla.» Nella prima parte della trama nata dalla penna della Phlillips, il fremito selvaggio di Artemide è frenato dalla condizione di abulia in cui riversano gli abitanti della casa, ma permane in lei il cuore intrepido, che si riversa nelle accuse verso il fratello che usa i suoi poteri in maniera sbagliata e superficiale: «Apollo, devi giurare sul fiume Stige che userai i tuoi poteri solo per lo stretto necessario finché non avremo recuperato le forze. (…) Giura di non usare i tuoi poteri per fare del male ai mortali finché non ci verranno restituiti.»
Ma è lui, Apollo, il dio del Sole, simbolo del Sé, che appare il più sconfitto. «Il Sole, Apollo, secondo Jung – spiega Paolo Quagliarella nel suo libro Il sole: Un’interpretazione mito-astrologica– rappresenta il principio d’individuazione, l’energia che mette ordine e razionalizza gli istinti: “Su Apollo Nietzsche si esprime con le parole di Schopenhauer: Come in mezzo al mare in tempesta che, aprendosi sconfinato da ogni parte, solleva e sprofonda mugghiando montagne d’acqua, il navigante seduto nella sua barca si affida al suo fragile natante, così in mezzo a un mondo traboccante di angosce, l’uomo singolo rimane tranquillo appoggiandosi e affidandosi al principium individuationis. Nietzsche prosegue: Per certo viene fatto di dire di Apollo che in lui ha trovato la sua più alta espressione l’incrollabile fiducia in quel principio e la serena fermezza di chi si appoggia ad esso: si potrebbe anzi considerare Apollo come la splendida personificazione divina del principium individuationis. L’apollineo è quindi, come Nietzsche lo concepisce, un ripiegarsi su sé stesso, l’introversione.”»
Svilito nelle sue energie, nella Londra di oggi, il dio del Sole tenta invano la strada del successo in tv, dove viene deriso. Vittima di un subdolo sortilegio da parte di Afrodite, che quando si infuria sa bene come vendicarsi, cadrà in amore di una umile mortale, Alice, che si presenta a casa loro come donna delle pulizie. La sua presenza, se da una parte riporta ordine esterno, dall’altra turba l’instabile equilibrio della bizzarra convivenza degli dei dell’Olimpo nei giorni nostri.
Apollo tenta in tutti i modi di sedurre la giovane fanciulla, che egli considera «la più bella, più incredibile, più fantastica ragazza del mondo» e che a sua volta, imbarazzata e confusa, gli sfugge continuamente confessandogli di essere innamorata del suo amico ingegnere Neil, fino a quando non decide di rivolgersi a suo padre Zeus, tenuto rinchiuso in una soffitta dalla moglie irosa Era. Il padre degli dei, mezzo inebetito, viene risvegliato dal figlio e lancia una punizione divina sulla mortale Alice, che durante un violento temporale, muore e viene condotta nell’Ade da Ermes. A questo punto la storia prende una nuova svolta avventurosa, durante la quale le divinità avranno modo di riscattarsi, in primis Artemide, che darà prova del suo coraggio e della sua forza di fiera amazzone. Anche il giovane mortale Niel scoprirà la parte eroica dentro di sé, trasformandosi in un moderno Orfeo che salva dagli Inferi la sua amata. Tra feroci combattimenti, sortilegi, promesse e compromessi, l’impavida Artemide conclude il suo piano riportando ordine ed equilibrio grazie al ritorno della fede dei mortali negli dei. Zeus scende fra gli umani sotto una nuova forma e tutto questo grazie al sacrificio di Apollo che ha deciso di addormentarsi, per tornare alla luce cambiato.
Concludiamo la recensione con una considerazione tratta dal già citato Il sole: Un’interpretazione mito-astrologica, in cui Paolo Quagliarella afferma che: «Apollo e il Sole rappresentano il lupo aggressivo, indifferenziato, che vive dentro di noi ma che per essere accettato deve evolversi. I dodici giorni, possono rappresentare i dodici mesi del ciclo solare, l’anno in più che ognuno di noi compie per venire alla luce nuovamente rinnovato, come se fosse un nuovo parto. Una delle possibili rappresentazioni del serpente Pitone, se lo rileggiamo attraverso le lenti di Jung, è l’ouroubouros, il drago/serpente che porta i segni zodiacali sul suo dorso, quindi il tempo, le stagioni, il momento della nascita di Apollo nell’oscurità e non alla luce del Sole. Jung afferma che: “Questo Dragone è per così dire insonne, poiché il polo “non tramonta mai”. Esso compare spesso confuso con il contorto percorso del sole nel cielo. “È per questo motivo che a volte si dispongono i segni dello zodiaco tra le circonvoluzioni del rettile”, dice Cumont. I segni zodiacali sono a volte portati sul dorso dal serpente. Come sottolinea Eisler, attraverso la simbologia del tempo l’onniveggenza del Dragone passa a Chrónos, […] L’οὐροβóρος significa in Orapollo eternità (aión) e cosmo.” Alla luce di questi racconti notiamo come sia sempre la giusta misura e l’equilibrio che permettano l’individuazione solare, assieme al fatto che qualora non si ubbidisca al volere di Zeus, o gli si remi contro in qualche modo, si diviene suoi schiavi e ci si allontana dall’individualità.”»Chi è Marie Phillips
Nata a Londra nel 1976, si è laureata in antropologia. Ha lavorato per alcuni anni in televisione. Dedicatasi alla scrittura, nel 2008 ha pubblicato il romanzo Per l’amor di un dio, in Italia tradotto da Elisa Banfi per Guanda Editore – 2009.
Edita da Letteratura Alternativa Edizioni 2019, L’estetica dell’anima dell’autrice piemontese Rosa Gallo è una raccolta di pensieri al femminile che sbocciano come fiori in una nuova primavera della vita.«Mannaggia le parole, alcune sono “buttate lì”, sono normali ragionamenti, altre invece rileggendole oggi le vedo e le sento ancora adesso, addosso, come se si fossero incastrate lì per rimanerci, per raccontarmi una storia importante nella vita, per raccontarmi di me, di come ero, in cosa credevo.»Rosa GalloRaccoltaLetteratura Alternativa Edizionipagg. 142Euro 14,90ISBN 9788893257008
Una donna, una penna e un foglio, che poi diventano tanti fogli e infine un diario. I pensieri di Rosa Gallo scorrono con urgenza sulla carta e si trasformano in un dialogo sincero con se stessa. Pensieri di una donna che impara a stare al mondo, con coraggio e che rinasce ogni giorno, dopo aver guardato in faccia la vera se stessa. «L’immagine di me riflessa sull’acqua, l’altra me che mi dice: “hai ragione ad avere paura, hai tutte le ragioni”. Sono paure che vengono da lontano, che hanno ruggini spesse e non hanno più voce. Non vogliono scosse, ma questa non è vita, non è respiro, non è niente di niente. Basta così. La paura si vince. Non c’è altra soluzione.”»
La voglia di sognare, di partire, di osare sono le armi che la proteggono dall’ignoto e spesso spaventoso flusso in cui la vita la sommerge. Dubbi, domande, mezze risposte, anziché incatenarla, diventano la spinta per indagare i mille volti di una verità irraggiungibile, ma che si nasconde nell’amore per le piccole cose.
«Bisognerebbe saper apprezzare quello che porterà il domani, ma ancor prima, bisognerebbe amare chi si ha tra le mani, perché non (s)fugga.»
Quello della donna che esce dal suo bozzolo è un cammino dapprima incerto, poi sempre più sicuro. A ogni scelta i passi si fanno più spediti e i movimenti impacciati diventano una danza leggiadra. Inseguendo sogni, mettendosi alla prova, la donna che si racconta si fa protagonista della propria vita in un tempo immediato. Impara a cogliere la rosa, a inebriarsi di un intenso ed effimero profumo, perché la vita è fatta di attimi, da cogliere e affrontare qui e ora, come ha detto Robert Herrick:
«Cogli la rosa quando è il momento, ché il tempo, lo sai, vola, e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà.»
Non più tempo da perdere, non più sogni da nascondere, il cassetto ormai è stato forzato e ogni desiderio diventa una esigenza da soddisfare. La donna crisalide è ora farfalla e su ogni fiore sorseggia un nuovo nettare, scoprendo un sapore sempre nuovo dopo le cadute e gli attimi di smarrimento.
E quando, appena tracciata, la parola prende vita sul figlio, le immagini si intrecciano fra loro: passato, presente e futuro si muovono in un flusso continuo che trasforma colei che racconta. La mano scorre e scava e i pensieri volano e ritrovano la strada di casa. Scrivere per ricordare, per capire e guarire. Mettersi a nudo, senza maschere e svelare arcani misteri della propria esistenza.«Oltre le finestre c’è pure lo scantinato, nel mio c’è una botola con la scritta “apri quando avrai deciso di perdonarti”, quando lo farai sarà come se il dolore avesse il compito di guarirti.»La scrittura autobiografica di Rosa Gallo nella sua L’estetica dell’anima edito da Letteratura Alternativa Edizioni 2019, è il vaso di Pandora dal quale, con apparente innocenza, fuoriescono potenti verità per affrontare il viaggio più pericoloso e al contempo esaltante: quello dentro se stessi. E così ogni vita è avventura quando si attraversa lo specchio, ogni parola è magia quando si carica della forza dei ricordi e delle paure che essi nascondono. Ogni strada è coraggio quando si impara a camminare con passo sempre più leggero.
Chi è Rosa Gallo
Nata a Torino nel luglio 1965, all’età di cinque anni si trasferisce ad Asti, città dove vive attualmente. Consegue il diploma di Maestro d’arte presso l’Istituto Statale d’Arte di Asti e inizia prestissimo a lavorare: dieci anni, rimasti nel suo cuore, come impiegata del Centro Astigiano di Studi e documentazione Giovanni Marcora (Segreteria politica dell’On. Giovanni Goria). È stata poi impiegata presso Confcommercio, Confartigianato e segreteria di presidenza di Asti Calcio. Oggi svolge la sua attività presso la ditta di famiglia. È consigliere di Amministrazione della Fondazione Giovanni Goria. Sposata dal 1996 con Fabio, ha due figli: il diciottenne Andrea e la quindicenne Sara. Scrive da anni su quaderni a righe con copertina rigida, dove incide di suo pugno il titolo “Rosapensiero”. È stata co-autrice del romanzo corale “Il firmamento in un fazzoletto” edito da C.E.T. Casa Editrice Torinese e pubblicato nel novembre 2019. Per Letteratura Alternativa Edizioni ha pubblicato L’estetica dell’anima.
Stoner di John Williams – Anatomia di un ordinario sogno umano Edito in Italia per Fazi Editori con la traduzione di Stefano Tummolini, Stoner di John Williams è il romanzo riscoperto in Europa a cinquant’anni dalla sua pubblicazione negli Stati Uniti. La seguente recensione cerca di spiegare il motivo di tale riconoscimento postumo.John Williams RomanzoFazi Editorepagg. 332Euro 15,00ISBN 9788893257008
«… con intensità crescente, gli si presentava sempre la stesa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata. Sospettava che alla stessa domanda, prima o poi, dovessero rispondere tutti gli uomini. Ma si chiedeva se, anche agli altri, essa si presentasse con la stessa forza impersonale. La domanda portava con sé una certa tristezza, ma era una tristezza diffusa che (pensava) aveva poco a che fare con lui o con il suo destino particolare. Non era neanche sicuro che essa sorgesse dalle cause più ovvie e immediate, ovvero da ciò che la sua vita era diventata.»
Dalla fattoria di famiglia all’università. Non va molto lontano William Stoner per scoprire il suo posto nel mondo, perché il mondo che scopre di amare, quello che lo fa sentire vivo, che lo riporta a se stesso, al suo centro, è quello della letteratura, il posto in cui tutti i mondi si incontrano. Attraverso la lettura di un sonetto di Shakespeare, una poesia di Milton o un saggio di Bacon, Stoner avverte il continuo cambiamento del mondo di cui gli autori parlano e da cui essi stessi dipendono. In lui «L’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio.» E possiamo aggiungere con rigore, insegnando con disciplina e onestà intellettuale, al punto che prima di morire affermerà tra sé che «la vita accademica è l’unica che non l’ha tradito.»Ma la sua vita resta immobile.
Alla soglia dei trent’anni Stoner si innamora e, preso dal fuoco fatuo dell’attrazione amorosa, più per colmare il senso di solitudine, sposa una donna, Edith, che scopre presto non conoscere affatto. Nominato professore di letteratura medievale, ottiene riconoscimenti da parte dei suoi studenti ma subirà per anni le angherie del suo rettore.
Anche la paternità, che egli esprime con pacata amorevolezza, gli verrà presto preclusa dagli improvvisi sbalzi d’umore e dalle borghesi ambizioni della moglie, la quale finirà subdolamente per sottrargli l’affetto di sua figlia Grace, rendendo quest’ultima per sempre taciturna e infelice, «una di quelle rare e adorabili creature la cui natura morale è così delicata che va sostenuta e curata di continuo, per poter essere soddisfatta.» Anche il suo angolo di pace che egli si ritaglia in casa per dedicarsi alla scrittura, dove si sente «rincuorato dalla scoperta di ciò che era in grado di fare» gli viene brutalmente sottratto. In entrambi i casi, Stoner resta impassibile, impotente. Prevaricato dalla realtà esterna, si rifugia sempre più nei suoi studi, ed è in questo ambito che egli esprime veemenza e dignità. Conoscerà una donna che gli farà scoprire il vero amore, anche questo destinato a essergli negato sotto i suoi occhi.
Stoner è l’individuo che non rinuncia ai suoi doveri, ai valori che ha deciso di seguire. Anche quando nel mondo fuori imperversa l’orrore e la violenza della guerra, egli resta fermo nelle sue idee. Non si arruola durante la prima guerra mondiale. Quella che egli sostiene è una visione intellettuale lontana da ideali e fanatismi patriottici, ma in grado di percepire il pericolo insito nella tragedia bellica.
Stoner simboleggia l’ideale di coerenza umana, un ideale che dalla sua nascita la nazione americana aveva auspicato, poi tradito dalla storia. A metà strada fra l’infaticabile e ambizioso Martin Eden di Jack London e il prodigioso e romantico Jay Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, il personaggio di William Stoner smaschera il mito americano, quello che la Fallaci, nel romanzo della giovinezza Penelope alla guerra, definirà “un sogno evaporato al sole”. Martin Eden scopre, a sue spese, che il suo arduo impegno per affermarsi come scrittore verrà ricompensato quando ormai non ci spera più e a discapito della sua rispettabilità sociale, William Stoner accarezza il sogno di pubblicare libri e vi riesce, ma senza correre alcun rischio, semplicemente per il mero piacere letterario. Il protagonista de Il grande Gatsby invece volge sempre il suo sguardo al passato, a un desiderio irraggiungibile, ostacolato dalla realtà presente. Stoner sfugge alla vita fuori dalle mura universitarie rifugiandosi fra i libri e le lezioni.
Come per i romanzi classici dell’800, il titolo del romanzo di John Williams è semplicemente un nome. Stoner è dunque il racconto della storia, non avventurosa ma ordinaria, di un uomo ed è per questo che Stoner diventa un indimenticabile protagonista contemporaneo di denuncia verso l’individualismo americano con le sue intrinseche contraddizioni.
La storia di Stoner attraversa oltre cinquant’anni del ‘900. Gli anni della sua infanzia, che vengono immaginati attraverso i frequenti richiami alle spalle paterne ricurve sulla terra arida da coltivare, sono quelli successivi alla guerra di secessione, raccontati da Faulkner nei suoi romanzi, anni che Stoner lascia dietro di sé senza alcuna nostalgia, anzi, una volta messo piede nell’università egli rinuncia totalmente al suo passato perché capisce che quel posto lui non lo abbandonerà mai più. La spiegazione di questa scelta radicale e ribelle, in un certo senso, è tutta nelle parole di uno dei suoi più cari amici, David Masters che morirà all’inizio della prima guerra mondiale, un episodio che divide in due la trama del romanzo.
«È per noi che esiste l’università, per i diseredati dal mondo. (…) per quanto infami siamo sempre meglio di quelli che vivono lì fuori, nel fango, i poveri bastardi del mondo. Non facciamo del mae a nessuno, diciamo quello che vogliamo, e addirittura ci pagano per farlo. Questo è un trionfo della virtù nazionale, dannazione. O poco ci manca.»
Da quel momento, un periodo aureo, di sogni, di ambizioni, pian piano svanisce dalla vita di Stoner. Egli esce dalle mura stabili e secolari dell’università e si getta nel mondo, scoprendo in esso solo delusioni e sconfitte. Stoner è dunque il ritratto dell’individuo che si rinchiude in una realtà circoscritta, che si riflette nello stesso nucleo familiare chiuso e arido che il protagonista costruisce. La sua è una moglie affetta da frequenti crolli psichici, madre anaffettiva, l’esatto opposto dell’immagine artefatta della casalinga americana dal sorriso radioso, in grembiule e con una torta appena sfornata tra le mani.
Stoner attraversa la sua vita oscillando fra desideri e scelte forzate. Stoner soffoca i suoi istinti sentimentali. Stoner appare perennemente impassibile dinanzi alla vita.
La vita di Stoner, così affrontata passivamente, sembra il fioco sussurro di un incessante interrogativo: dov’è finito il diritto alla felicità?
L’esistenza di Stoner sembra fatalmente destinata alla rottura di qualsiasi equilibrio. Che fine ha fatto l’uomo avido, desideroso di succhiare il midollo della vita? Stoner appare disorientato, non ambisce a proteggere la patria, a imporre l’amore coniugale, l’autorità paterna, Stoner lascia che la vita scorra, perché la vita va accettata, non va inseguita per i cambiamenti che non possiamo prevedere. Stoner è la caduta dell’ideale americano, dell’incessante fuga verso la felicità contro il classico ideale dell’Eudemonia greca. Forse proprio per questo, quando nel 1965 il romanzo di John Williams fu pubblicato, non venne accolto con entusiasmo dal pubblico americano e ci sarebbero voluti decenni prima di decretarne il successo, avvenuto negli ultimi anni, oltreoceano, così come accadde in precedenza per Il grande Gatsby. Si tratta di un libro che anticipa il disincanto dell’individualismo e la nostalgia per valori classici, solidi e idealmente intramontabili.
Stoner si muove in bilico su un sottile filo che divide la sua vita interiore da quella esteriore. Mentre dentro di sé la vita si anima di una fervente passione letteraria, fuori la feroce brutalità lo schiaccia. Quando vivrà la sua relazione con Katherine, lo farà con riservatezza, in segreto, preservando quella zona di felicità raggiunta che gli ha fatto scoprire una parte di sé che non immaginava di avere. Perciò Stoner è anche capace di scelte impetuose nei sentimenti, come fa sul posto di lavoro, ma non rompe il precario equilibrio della sua vita ordinaria. Dinanzi alla realtà dei fatti Stoner si paralizza e rischia di essere scambiato per l’antieroe della letteratura europea del XX secolo, inetto e soggetto al fato, quando ormai la certezza nei solidi valori morali e sociali non rappresentano più l’obiettivo per cui lottare. Stoner dimostra, invece, che una scintilla resta sempre accesa e che per lui è il mondo interiore, in grado di costruire e sostenere tutto, quella zona inesplorata che la psicoanalisi porta alla luce e che ancora tenta di dare risposte alle incoerenze umane, nelle quali sembrano annidarsi infelicità e insuccesso, quando invece è nelle passioni che troviamo forza, perchè forse è proprio la rinuncia all’ossessiva ricerca di risposte che ci rende umanamente dignitosi e vivi, consapevoli delle difficoltà al di fuori di noi.Chi è John Williams
(Texas 1922-Colorado 1994) Figlio di contadini, partecipa alla seconda guerra mondiale in India e Birmania. Trascorre il resto della sua vita a Denver, in Colorado con la sua famiglia e dove insegna all’Università. Fra i suoi romanzi più noti, ricordiamo Nulla, solo la notte (1948), Butcher’s Crossing (1960), Stoner (1965) e Augustus (1972), tutti pubblicati in Italia da Fazi Editore. Sempre per Fazi Editore è uscita la biografia dell’autore di Stoner di Charles J. Shields L’uomo che scrisse il romanzo perfetto -Ritratto di John Williams, autore di Stoner.
Con spietata sincerità, l’autore astigiano Mauro Crosetti consegna al suo pubblico le cronache di un viaggio tormentato in versi e prosa nel profondo dell’anima, dove luce e coraggio sconfiggono buio e dolore, liberando il cuore da un segreto troppo a lungo nascosto.
“… tu sogno,
sei fuggito via
con il mio cuore tra le mani”
In fondo, un segreto cos’è se non un dolore nascosto fra le pieghe dell’anima? Bisogna imparare a convivere con le parole taciute, che soffocano il petto in una morsa violenta e poi esplodono in pezzi che colpiscono improvvisamente e fanno rumore, tanto rumore …
“Come il mare
mi sento quest’oggi,
sbattuto tra gli scogli
d’infinita durezza
e l’anima mia borbotta”
Chi è quell’uomo che di notte canta alla luna, stanco di nutrirsi di ipocrisia, di dissetarsi con sogni e di sopprimere amore?
“Anche la luna ormai si nasconde dietro a una nuvola, forse è stanca anche lei del mio canto…”
Ci sono spazi vuoti in quell’anima, che aspettano di essere colmati. La sua solitudine si ciba di sogni, il cuore è gonfio di un amore pronto a esplodere e l’eco assordante di un silenzio senza fine crea un vuoto che avanzando, minaccioso, sgretola ogni certezza.
“Pesa ormai
sulle spalle,
il bagaglio del vivere
e
i pensieri
come cani randagi,
frugano
per continuare ad esistere”
“Il silenzioso dolore dell’anima” edito da Letteratura Alternativa Edizioni – 2019 è il ritratto di un uomo allo specchio, che combatte contro se stesso, prigioniero di paure spesso invisibili, ma che appaiono come fantasmi reali nella notte buia del cuore. Inseguire i fantasmi è un rischio, non ascoltarli è il dolore più grande.
E allora come uscire da una prigione dove il boia è lo stesso detenuto, che si flagella e desiste dal volersi liberare? La cura è nella forza di quelle parole nascoste che irrompe nei versi di una poetica malinconica, fortemente evocatrice di sogni infranti e voli di farfalla, un respiro dell’anima che soffia via la polvere dal cuore.
“Ho atteso ancora un attimo
Prima di morire dentro,
prima di chiudere la porta ai sospiri”
E così, imparando a guardare “con l’occhio dell’anima”, la vita appare sotto una nuova luce, una scia luminosa e autentica che guida là dove si odono suoni chiari e forti, dove “bianco,/fresco/e luce/nascono”.
È lungo, arduo e doloroso il cammino prima di arrivare a casa. I passi pesanti lasciano ferite al posto di impronte, ma senza attraversare tutto il dolore, non si può giungere al coraggio di vivere che alleggerisce l’anima che impara, finalmente, a volare.
“Lasciami andare, non costringermi a scappare…
A scappare da cosa, poi? Dalla felicità?”
Chi è Mauro Crosetti:
Mauro Crosetti è responsabile della Sezione Ragazzi della Biblioteca Astense Giorgio Faletti. Da sempre appassionato di lettura, ha approfondito la conoscenza e l’apprendimento delle tecniche di dizione con importanti nomi del teatro italiano. Ha frequentato diversi corsi di dizione e recitazione organizzati dal noto e compianto regista astigiano Massimo Scaglione e i corsi organizzati dall’Associazione Culturale astigiana Hastarte. Partecipa attivamente a spettacoli di recitazione di poesia e musica e presentazioni di libri nelle città di Asti e Torino.
Il booktrailer di “Il silenzioso dolore dell’anima”:
In libreria dal 9 giugno, “Il bambino è il maestro. Vita di Maria Montessori” edito da Rizzoli di Cristina De Stefano è la biografia di una grande donna, rivoluzionaria e testarda, che sostenne e diffuse un nuovo metodo educativo di vita, che mette al centro il rispetto per il bambino. Ne abbiamo parlato con l’autrice nella seguente intervista.
Determinate, anticonformiste, scandalose. Le donne raccontate da Cristina De Stefano di volta in volta aggiungono un nuovo tassello alla scoperta del multiforme universo femminile. La sua ultima pubblicazione “Il bambino è il maestro. Vita di Maria Montessori” (Rizzoli) è dedicata all’ennesima figura di cui riesce a smascherare la donna che si cela dietro il personaggio. Conosciuta in tutto il mondo per il rivoluzionario metodo educativo propugnato, a cui si dedicò con estrema abnegazione, Maria Montessori emerge, come tutte le pioniere tratteggiate sino ad oggi dalla De Stefano, come una personalità volitiva con le sue ombre e contraddizioni, a conferma di un singolare e assai coinvolgente modo di indagare e raccontare gli archetipi femminili del Novecento.
“La figura del bambino si presenta possente e misteriosa e noi dobbiamo meditare su di essa perché il bambino, che chiude in sé il segreto della nostra natura, divenga il nostro maestro.” (Maria Montessori)
Ciao cara Cristina, ben ritrovata. É con immenso piacere che ti ospito in questo spazio virtuale tutto mio dedicato alle interviste agli autori. Non mi perdo mai le protagoniste delle tue biografie e questa volta la curiosità è stuzzicata proprio dall’affascinante fil rouge che lega la grande scienziata e pedagogista di cui ci racconti nel tuo nuovo libro, al mondo dei più piccoli. Le nuove ideologie sociali strettamente legate al processo di industrializzazione del XIX secolo, con l’attenzione rivolta ai diritti dell’individuo portarono a una nuova concezione del metodo educativo. Prima della Montessori, infatti, c’erano già stati tentativi di approccio sensoriale e, soprattutto un pensiero, come dire, più morbido verso il mondo dei piccoli, a differenza dell’idea delle epoche precedenti del bambino considerato alla stregua di un adulto e ostacolato nella sua libera espressione. Mi viene in mente, ad esempio, Pestalozzi che già verso fine Settecento valutava l’aspetto affettivo tra allievo e maestro e aveva creato in Svizzera una fattoria per orfani in cui si svolgevano attività agricole e manuali, si concepiva insomma un continuum fra vita e scuola attraverso il gioco e la stimolazione. Cosa univa, perciò, Maria Montessori all’universo dell’infanzia?«Il primo legame viene dalla sua giovinezza. Era fin da studentessa impegnata nel sociale. Faceva volontariato nei quartieri poveri, in particolare San Lorenzo, nei dispensari creati dai suoi professori di medicina. Femminista e suffragetta, si rende presto conto che i bambini sono gli ultimi degli ultimi, mandati a lavorare o a chiedere l’elemosina appena sanno stare sulle loro gambe, esposti a tutti gli abusi. Il secondo legame viene dalla sua scoperta del manicomio di Roma, diretto da un collega che era anche il suo partner. Scoprire quei bambini “difficili” della scuola che allora venivano definiti “idioti incurabili” e rinchiusi con i matti fu uno shock per lei. Si mise a studiare l’educazione speciale e portarli fuori dal manicomio divenne la sua ossessione. Solo in un secondo momento passò da occuparsi di bambini handicappati a occuparsi di bambini in generale, percheè intuì che con le sue idee poteva cambiare la scuola.»Da letterate e artiste, sei passata a raccontare di una donna che è stata, dunque, tante cose: scienziata, medico, pedagogista, filosofa e grande educatrice. Come mai questo salto? Esiste un legame sotterraneo fra le prime e Maria Montessori?«I personaggi mi scelgono un po’ loro. Però mi sembra che tutte le mie donne siano ad alta tensione, illuminate dall’interno da una energia superiore alla norma. E poi ci sono collegamenti sorprendenti, che capisco solo a libro finito. Maria Montessori per esempio ha un forte lato mistico, come Cristina Campo, a cui ho dedicato il mio primo lavoro (Belinda e il mostro, Adelphi). Ed è una star globale come nel campo del giornalismo fu Oriana Fallaci, a cui ho dedicato Una donna (Rizzoli). E di certo è un personaggio che avrebbe potuto stare benissimo tra le mie Scandalose (Rizzoli).»Quanto tempo passa, di solito, dal momento folgorante in cui scegli di occuparti di una donna sulla quale approfondire i tuoi studi, e il momento della ricerca vera e propria?«Appena nasce il desiderio parte il meccanismo interiore. Cerco su Internet, ordino libri, mi nasce una curiosità enorme. Però per una biografia come Il bambino è il maestro ci vogliono anni, e almeno un ricercatore ad aiutarmi, è un lavoro di fondo, richiede pazienza. Certo, la parte che preferisco è la scrittura – felicita’ pura, quando la storia di una vita si srotola davanti ai miei occhi come una tela fatata – ma per arrivare a quel momento benedetto bisogna lavorare anni a cercare, consultare archivi, seguire tracce, come un detective.»Infaticabile, passionale e testarda, Maria Montessori non si è fermata davanti agli ostacoli della vita, sacrificando proprio l’affetto più profondo per una donna, quello per suo figlio Mario, nato, per sua scelta, fuori dal matrimonio. Di sicuro avrai colto altri aspetti contrastanti fra la Maria pedagogista e la Maria donna. Cosa ti ha colpito particolarmente nella vita di Maria Montessori che ancora non conoscevi?«Era una donna molto complessa. Mi ha colpito la sua forza di carattere, la sua capacita’ visionaria di osservare i bambini. Mi ha fatto sorridere il suo non essere portata affatto per gli affari, pur volendo creare un impero da lasciare al figlio. Mi ha sorpreso la sua forte fede religiosa. Insomma.Éuna donna piena di cassetti.»Entrando nel vivo del tuo lavoro di ricerca, ci sveli come hai organizzato la ricerca di fonti e testimonianze della tua nuova donna scandalosa?«Ho sempre almeno un ricercatore sul campo (in questo caso in Italia, perchè io vivo a Parigi), che mando in tutti gli archivi. Lo faccio per motivi logistici, per accelerare la ricerca ma anche per proteggermi. Cerco di non espormi, di stare sotto il livello dell’acqua e di non parlare molto del mio progetto. Per esempio non ho mai incontrato i montessoriani in Italia. Voglio sentirmi del tutto libera. Il punto di partenza è stato l’archivio AMI di Amsterdam, dove sono conservare le carte private di Maria: una vera miniera, gestita da ottimi professionisti. Ho trovato moltissimi materiali inediti. Ho usato tutto. Molto non ho potuto citarlo fra virgolette perchè avuto in modo non-ortodosso, o per proteggere le mie fonti.»L’aspetto rivoluzionario del metodo montessoriano è insito nel suo essere da supporto alla vita stessa, un modo di intendere l’educazione che ricalca l’approccio filosofico di stampo socratico, o anche junghiano se vogliamo, basato su una formazione dell’individuo attraverso la conoscenza di se stessi. Occorre educare dunque il bambino a scoprire chi è per poter guarire antiche ferite e, come un riformatore, progredire nel proprio sviluppo e in quello dell’umanità intera. Come ha espresso concretamente nella sua vita la Montessori questo grande ideale morale?«Il metodo Montessori non è solo una tecnica della scuola, è una visione del mondo altamente utopica. Maria Montessori lo sente molto presto, è abitata da una missione, anche in senso religioso. Sente che ha avuto una rivelazione che deve dare al mondo. “La gente pensava parlassi di un metodo pedagogico mentre io parlavo di una rivelazione”, dirà un giorno. Per questo la sua intera vita fu al servizio di questa missione. Nomade, sempre in movimento, seguendo quella che definiva “la chiamata”.»Immergendoti nel mondo di Maria Montessori, avrai inevitabilmente riflettuto su un parallelismo fra l’ideale pedagogico da lei sostenuto e l’iperstimolazione e, paradossalmente, l’eccessivo controllo emotivo a cui sono sottoposti i bambini di oggi. Cosa ritieni fondamentale recuperare dal metodo montessoriano che possa contribuire a una crescita più autonoma dei ragazzi che saranno gli adulti di domani?«Prima di tutto il rispetto: Maria Montessori scrive cose fondamentali sul rispetto che l’adulto deve ai bambini, dal rispetto del suo corpo al riconoscimento del suo portentoso cervello. Poi la concretezza: in questa epoca di schermi e computer, lei ci ricorda che il bambino impara stando nell’ambiente, usando le mani, che l’educazione è incarnata.»Inizialmente nate in quartieri malfamati, dove c’era poco tempo da dedicare ai bambini, specie a quelli malati e disabili, le case dei bambini fondate dalla Montessori nel corso del ‘900 si affermarono nell’ambito privato elitario. Nonostante in Italia per prevalenza la pedagogia montessoriana è ancora nelle mani di scuole private, molti istituti pubblici stanno adottando un modello di didattica montessoriana attraverso la convenzione MontessoriScuolapubblica che ha l’obiettivo di fare rete fra enti e persone, educatori, insegnati e genitori. Ritieni che questa importante risorsa per l’Istruzione Pubblica possa consentire una apertura all’interno di un orientamento più circoscritto dell’ideale montessoriano, in nome del puro ideale di cui è intriso il motto che fa da titolo al tuo libro “Il bambino è il maestro”?«É uno dei paradossi della sua storia. Ha iniziato studiando i quartieri poveri di Roma e collaborando con la Società Umanitaria operaia di Milano e poi il suo metodo è diventato sinonimo di scuole private per ricchi. Spero si riesca a riportare il metodo Montessori nel solco iniziale, ma la strada non è semplice. Da una parte molti insistono sul concetto di “applicazione in purezza” de metodo, senza commistioni con altre pedagogie, concetto che era centrale anche per la fondatrice, dall’altra la scuola di massa non può permettersi il profondo lavoro individuale su ogni insegnante che il metodo richiede. La cosa che ho capito, studiando la sua vita, è che Maria Montessori è di una radicalità che spaventa. Chiede agli adulti di diventare creature diverse, solo così possono interagire coi bambini senza fare danni.»Vorrei soffermare adesso l’attenzione su un altro aspetto che la Montessori ha esaltato, quello della bellezza, affermando: “É la bellezza in tutte le sue forme che aiuta l’uomo interiore a crescere”. Secondo te, qual è la bellezza che i bambini di oggi dovrebbero riscoprire e coltivare?«In questo era profondamente mistica. La bellezza come salvezza del mondo. Io oggi partirei dalla natura, che è quasi sempre bella, dall’albero lasciato crescere senza le oscene potature che noi uomini ci intestardiamo a fare nei nostri viali cittadini, alla grazia degli animali. Una scuola nel giardino, soprattutto nei primi anni di vita, sarebbe già una scuola nella bellezza.»Ringraziandoti per la tua disponibilità, mi farebbe piacere concludere, così come abbiamo aperto questa nostra intervista, con una altra curiosità. Dopo aver indagato così a fondo nella vita di una donna talmente coraggiosa e determinata come Maria Montessori, cosa ti sarebbe piaciuto chiederle se l’avessi conosciuta di persona?«Se avessi potuto avrei cercato di spingerla ad accettare un po’ di compromessi e di commistioni con altre pedagogie per aumentare la diffusione del metodo. La sua severità non ha aiutato lo sviluppo. Ma di certo non l’avrei convinta: era una nave da guerra, non una donna!»Chi è Cristina De Stefano
Giornalista e scrittrice, vive a Parigi e lavora come scout letterario. É grazie a lei che in Italia è stato pubblicato il best seller di Joël Dicker“La verità sul caso Harry Quebert”. La sua carriera giornalistica comincia con la rivista Elle per la quale non ha mai smesso di collaborare. É autrice dei libri “Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo” (Adelphi 2002), “Americane avventurose” (Adelphi 2007), “Oriana. Una donna” (Rizzoli 2013) e “Scandalose” (Rizzoli 2017), libri tradotti nelle principali lingue del mondo. Il 9 giugno 2020 pubblica, ancora per Rizzoli“Il bambino è il maestro. Vita di Maria Montessori”, già in traduzione per diversi Paesi.
Primo volume di una nostrana saga familiare, “Una volta è abbastanza” di Giulia Ciarapica – Rizzoli 2019, è il romanzo sulla forza della memoria, di antichi ricordi che rivivono attraverso una fantasia vivace, in grado di forgiare il passato con una forza descrittiva vivida e prorompente.
«Come vi siete conosciuti tu e nonna Giuliana?» Valentino sospira. «Abitavo ancora nella casa in campagna. La guerra aveva portato tanta miseria, ma noi non ci potevamo lamentare. Avevamo la terra, l’orto, qualche animale. Sai…»
Scrivere di un’epoca in cui non si è vissuti, tessendo una trama in cui i personaggi si animano attraverso una spinta propulsiva che è quella della rinascita, dalla miseria materiale e umana all’innovazione guidata dalla resilienza e dalla fiducia nel possibile, richiede un grande sforzo di immaginazione e profonda empatia, nonché una rigorosa ricostruzione storica. Ci è riuscita, ottenendo un acclamato riconoscimento da parte del suo affezionato pubblico, l’esordiente autrice Giulia Ciarapica, già giornalista e nota book blogger, con la sua padronanza tecnica e stilistica, a cui si aggiungono una narrazione fluida e un ritmo vivace grazie ai numerosi dialoghi, che rendono le vicende sempre più accattivanti.
“Una volta è abbastanza”, pubblicato per Rizzoli nella primavera del 2019, è infatti un libro sommerso dalla forza dei ricordi, in cui le parole fuoriescono impetuose dalla penna dell’autrice, trascinando i lettori nell’abisso magmatico della scrittura.
Siamo nell’Italia del 1945, nell’immediato dopoguerra che impone la ricostruzione di un passato che ormai non torna perché è tempo di fare i conti con realtà nuove che cambieranno il destino della nazione e della piccola comunità delle basse Marche, protagonista della storia. E mentre parenti, amici e conoscenti fanno ritorno al paesello cambiati, piegati dall’immane tragedia vissuta sulla propria pelle, per le donne, coloro che tenacemente sono rimaste a casa, ad aspettare pazientemente, a rifugiarsi nei ricordi, a trarre coraggio dai sogni, la guerra continua. Quel coraggio che adesso non hanno più paura a tirar fuori è la linfa vitale da cui ricominciare, la giusta grinta che dia la nuova spinta e una propria identità a Casette d’Ete, il piccolo borgo agricolo in cui è ambientata la storia.
Audacia e resilienza al femminile
Artigiane solerti, madri rudi e impassibili (per il bene non c’è mai tempo con tutto il da fare che c’è), giovani audaci, spavalde e anticonformiste sono le protagoniste che animano la trama di questo primo capitolo di una saga familiare che arriva fino alla metà degli anni Sessanta, e che emana un “profumo intenso e pungente” di colla e di quello “avvolgente del pellame”, che rimbomba dei colpi di martello che battono le suole lungo i vicoli del borgo dove la gente in inverno si scalda, ammassata, ascoltando lo sfrigolio della legna nel camino. É un lavoro di finitura, attenzione e precisione quello dei calzolai casettari guidati dalle prime luci dell’alba nelle loro botteghe, dove “Vicino e intorno alle gambe delle sedie, ci sono ancora i rimasugli di cuoio dei giorni passati, ammucchiati sul pavimento insieme a un grumo di fatica e parole stanche.”
Il ritratto della comunità di Casette d’Ete che ne deriva è dunque quello del popolo italiano fra gli anni ’50 e ’60 che, dopo miseria e sofferenza, impara a destreggiarsi fra modernità e nuove consapevolezze, dall’uso di nuovi agi e strumenti elettronici come la televisione che fa unire nelle case gli abitanti, all’emancipazione femminile di donne fiere di esporsi in un mondo esclusivamente maschile.
Fra pelle e cuore, il dissidio fra sorelle
Come accade nelle note saghe familiari che spopolano negli ultimi anni nella narrativa italiana contemporanea, anche le protagoniste di “Una volta è abbastanza” sono due figure femminili, apparentemente antitetiche, in realtà complementari l’una all’altra: le sorelle Annetta e Giuliana Betelli. Tra le due, il protagonista maschile Valentino Verdini, dapprima fidanzato di Annetta, poi marito di Giuliana. Per una sorte ironica, il personaggio non presenta le fattezze fisiche del noto rubacuori di cui porta il nome, egli “non supera il metro e sessantacinque, ha profondi occhi scuri dal taglio obliquo ed è molto giovane, nonostante sia già stempiato” ma è un Apollo che spesso si trasforma in Zeus, conscio del suo potere maschile e, al contempo, disorientato dalle reazioni improvvise di Annetta e dalle prese di posizione di Giuliana.
“Annetta non avrebbe fatto la stessa fine di sua madre; vuole lavorare al pari di un uomo, decisa ad annientare definitivamente lo spettro ingombrante della miseria.”
Annetta fa la sua apparizione all’inizio del racconto, rivelando un’indole ribelle e temeraria, come una giovane donna sfuggente e conscia del suo fascino, per poi allontanarsi dalla vicenda, pur facendo sentire sempre viva la sua presenza, quasi fosse un’ombra ammonitrice sulle scelte della più docile sorella minore. “Non può parlare, lei, perché è fatta di aria e di immaginazione, non può esser vista, eppure è lì, con tutti loro.”
Giuliana è il ciclamino fucsia nato nella piccola crepa, “immobile e perfetto”, ma ancora non lo sa, perché lei deve imparare a combattere con le sue emozioni confuse, incapace di domarle. “Le sue parole colpiscono Valentino in pieno viso. Non vuole ferirlo ma è fatta così, arranca nel gestire le emozioni, fa fatica a dare voce ai sentimenti. A volte non soppesa le parole, le scaglia addosso a Valentino come fossero pallottole, mostrando gli artigli ancor prima di essere attaccata.” E mentre sua sorella Annetta ha sciolto le briglie e vive in balia della sua impulsività come una amazzone indomita e orgogliosa della sua indipendenza, in un gioco di specchi Giuliana imparerà a liberare lentamente la furia delle sue azioni, che altro non è se non il coraggio di amare donandosi, come una Venere appena nata, fiera di se stessa, che decide di non tradire il più prezioso e puro dei sentimenti che porta con sè.
Al primo bacio, l’uomo della sua vita, posando lo sguardo su di lei, è come Perseo strappato a se stesso dinanzi a Medusa: “I lineamenti del viso, ogni curva del suo corpo, ogni singolo ciuffo che le solleticava il collo parlavano di lei. Del suo essere infinita, seducente e follemente, pazzamente, prepotentemente terrena. Era lei.”
Da fanciulla, a sposa e infine madre, il personaggio di Giuliana si evolve con tenacia, contribuendo alla nascita di una impresa calzaturificia familiare, tenendo saldo un legame sentimentale che non le risparmia dolori e delusioni, ma anche conquiste irrinunciabili: “lanciare quelle scarpe e vederle sfiorare l’azzurro del cielo significa solo una cosa: la Valens è nata e ora deve continuare la sua corsa, perché è lì che quelle scarpe chiedono di stare; in alto, con la punta rivolta verso le nuvole.”
Con il passare degli anni Annetta imparerà a rivalutare le sue rigide posizioni, facendo i conti con il senso di solitudine al quale è avvezza la donna indipendente, che non scende facilmente a compromessi. “Annetta guarda i termosifoni nuovi, lucidissimi, e subito dopo fissa lo sguardo su Geremia. Forse non sarà quella la felicità, e di sicuro non è la vita perfetta. Ma in quella casa si respira una serenità sincera, fatta di litigate ardenti come fuoco vivo, di parole mai pronunciate per caso, di sospiri e di grandi sorrisi. C’è tutto quello che compone una famiglia normale, e che diventa, proprio per quello, eccezionale.”Abilità stilistica e archetipi femminili
Le minuziose e particolareggiate descrizioni dei personaggi, con le loro singolari caratteristiche fisiche, rivelano una già matura abilità tecnica nel conferire loro spessore psicologico.
“Luisa è una signora elegante e raffinata, con un piccolo neo che le spunta sull’avambraccio sinistro. Indossa sempre degli ampi foulard dai colori pastello, anche d’inverno; sembra uscita da un quadro di Botticelli pure nel mese di novembre. Peccato per quella fastidiosa zeppola che le ostruisce la fluidità del linguaggio: le “s” e le “z” sono un tormento.”
Donne dai fianchi morbidi e dagli sguardi fieri, dalla vita sottile e gli occhi dignitosi, dal portamento elegante e il cuore in fiamme, sono le numerose immagini femminili che di volta in volta fanno capolino sulla scena della narrazione. Da un punto di vista stilistico, la loro descrizione trasmette una sorta di potenza alchemica: “Lo si capisce dallo sguardo, che quella giovane donna ha la brace viva negli occhi, un fuoco che si agita in fondo alle pupille; ha il piglio da guerriera e la vita non troppo sottile, larga poco meno delle spalle ampie. È proprio quella sua potenza fisica ad avere attirato l’attenzione di Mario, convinto che da un corpo tanto energico non potesse sgorgare che un animo altrettanto combattivo.” Dall’incrocio di trame e sottotrame, emergono così i diversi archetipi femminili: dalla donna Estia terrena ancorata al quotidiano e al lavoro domestico, che circoscrive un centro familiare, intimo e sicuro, alla donna Artemide che agisce con scelte spesso incomprensibili pur di mantenere salda la sua autonomia, sacrificando gli affetti: “Senza farsi notare da Annalia, Annetta aveva strappato la pagina con la fotografia dei sandali, era passata dalla bottega di Girardo a prendere qualche rimasuglio del pellame scartato, un paio di zeppe e giusto un poco di mastice che sarebbe servito ad attaccarle. Tornata a casa, si era chiusa nel piccolo laboratorio, fatto di un tavolo dai piedi scorticati, pieno di fogli, fibbie e pezzi di cuoio, e una macchina per cucire che usavano anche Giuliana e Rosa. Dopo aver disegnato tutte le parti del modello prendendo ispirazione da quello sulla rivista, aveva ritagliato i pezzi di pelle beige, i più grandi che aveva trovato, anche se il colore non la convinceva per niente. Avrebbe preferito un bel rosso scuro o almeno una tinta marrone, color cioccolato. Qualcosa di forte, insomma. Aveva dovuto accontentarsi, d’altronde poteva dirsi già fortunata a permettersi un paio di sandali nuovi di zecca, confezionati da sé. Dopo aver cucito assieme tutte le parti, aveva attaccato la suola con il mastice. Le piaceva aspirare l’odore intenso e pungente di quella colla. All’inizio le dava sempre un po’ il capogiro ma alla seconda sniffata le veniva quasi voglia di portarsela alle labbra, con quel colore ambrato, venato d’oro, e la consistenza soffice ed elastica.” O ancora la donna Venere che sa donare amore senza negare se stessa e in questo intimo coraggio è custodito il suo potere. Tutte donne che racchiudono i loro mille volti, da un antico passato a un presente che sboccia, appassisce e rinasce ogni volta. Donne che sanno essere ora tutto ora niente, aizzate da impeti di rivincita, piegate dalle sconfitte, capaci di rialzarsi, illuminate da una nuova speranza.Una narrazione diretta e immediata
“Giuliana arrossisce lievemente e lo scansa con la mano: «E vanne, Focaracciu. Quanto si ruffià…». «Ruffiano chi? Io?» L’uomo si porta le mani all’altezza del cuore. «Te si sposato un angelu, atro che ruffià!»”
I dialoghi vivaci, la scelta del tempo presente, l’uso frequente di un verace dialetto locale e dei soprannomi, noché i riferimenti alle manie dei personaggi contribuiscono a rendere la vicenda ancora più animata e tangibile, stemperando il dramma della quotidianità difficile da affrontare per la comunità casettara. Non mancano, infatti, momenti drammatici che raggiungono picchi lirici quando l’amara riflessione è rivolta al senso di finitezza umana con cui si impara a convivere: “In quel paese sperduto, avvolto dalla feroce campagna marchigiana e immerso in un non-luogo che è periferia di se stesso, si consumano l’orrore dell’abbandono e la fine di una vita. (…) Un territorio silente e spietato, che ha insegnato ai suoi abitanti a non combattere la morte ma ad avvicinarla, a sedurla, a rivolgerle la parola. Un mondo che ha insegnato agli uomini come si vive morendo un poco alla volta, con discrezione.”
Riscattando la memoria delle sue amate terra e famiglia, nel suo primo e potente romanzo “Una volta è abbastanza”, Giulia Ciarapica racconta la storia di tutte le storie, che si sofferma con lo sguardo su una umanità che apprende l’imprevedibile gioco della vita fra sconfitte, perdite e meritati successi, fra sogni, ambizioni e nuovi inizi.
Edito da Letteratura Alternativa Edizioni , “Deliri tascabili” dell’autore astigiano Roberto Portinari è la cronaca bizzarra dell’assurdo quotidiano, in bilico sul filo invisibile che delimita il confine fra realtà e allucinazioni.
Apparentemente banali, gli eventi che scatenano le brevi narrazioni che compongono la raccolta rivelano, in un crescendo di tensione, verità assurde. Vi sembra possibile che venga “trovato il cadavere della morte” ??? Oppure che si legga un libro per poi scoprire che la trama è … inesistente?
Avvolte da atmosfere talvolta grottesche e altre stranianti, le semplici e quotidiane situazioni descritte nascondono il pretesto per riflettere su condizioni umane paradossali e, appunto deliranti, come riporta il titolo stesso della raccolta. Lo scopo delle narrazioni di Deliri tascabili di RobertoPortinari è dunque la denuncia di condizioni e stati d’animo socio-culturali attraverso un impianto prevalentemente favolistico che finisce per sorprendere il lettore con le morali spiazzanti contenute nei criptici finali.
Ecco, allora, che carte da gioco, lenti di occhiali, panini, bandiere, insetti si animano e nei loro dialoghi l’essere umano appare distante, incurante di quanto accade, in uno stato di suspence, fino a quando il narratore si intromette furtivamente e gioca con il lettore, interpellandolo.
Un esempio? Nel delirio “Le mosche in compagnia” cinque mosche si ritrovano a bere e a scambiarsi battute in una birreria della città durante una calda sera d’estate, ruttando e stuzzicandosi fra loro, fino a quando, ormai ubriache …
“E l’ultima battuta non si è tradotta, perché la mosca 5, caso mai non lo avessi capito, sei tu, e devi sceglierti la frase che vuoi. Risparmia il fiato, non farmi credere che non rutti, piuttosto pensa a come rispondere alla mosca 3. Non ci resta molto tempo, il proprietario sta già pulendo alcuni tavoli, e le stelle studiano dove trascorrere il giorno. Non ci resta molto tempo.”
Re, imperatori, governatori, sentinelle, forze dell’ordine, tribunali, cinte murarie, sono tutte immagini simboliche di una forza autoritaria che presiede all’impotenza dell’osservatore esterno. Fatti inspiegabili, eppure accaduti, in una quotidianità apparentemente normale, che richiamano, per certi versi, le atmosfere onirico-surreali kafkiane e quelle di Dino Buzzati, soprattutto nel riferimento al tempo dell’attesa.
Dal delirio “La buona notte”“E il tempo passava. Passava, senza che la solfa cambiasse; ma al governatore si infiammavano di giorno in giorno gli occhi. Cominciava a vedere il mondo ai suoi piedi, le donne più belle sue schiave, le pietre più preziose nei suoi scrigni. E ne aveva ben d’onde. (…) quella notte (passati ormai moltissimi anni) l’uomo riuscì nell’impresa di saccheggiarlo. Quell’uomo aveva rubato al governatore la cosa che tanto magnanimamente lasciava agli altri. Gli aveva portato via la buona notte.”
Infine, in appendice, una breve silloge poetica, dove, in un rapido flusso di coscienza, l’autore rivela i suoi “occhi con tre pupille”, uno sguardo ampio, che si nasconde dietro immagini onirico surreali, confermando la linea delirante dell’intera raccolta.
Un assaggio da “Cieli di plastica”“Questa sera tutto esce dall’assurdo: / il cielo tramontato è di plastica, le nubi a/ punta coricate. (…) Artifici e fuochi fatui, bisce di vapore. Candele viventi in strada, spente, verbi babelici nell’aria, i miei occhi con tre pupille.”Mini intervista all’autoreCiao Roberto e benvenuto. Come nasce la raccolta dei tuoi “Deliri tascabili”?«Il progetto nasce da molto lontano (nel tempo) e da molto in profondità (nel mio animo). Vorrebbero essere la realizzazione della mia modesta concezione della letteratura. Nati dall’amore per la sintesi, da qui la scelta del racconto breve, ho l’ambizione di portare il lettore a pensare alla gravosità di certi temi universali tipo l’inesorabilità del Tempo, la caducità dei desideri dell’Uomo, la sua piccolezza di fronte a meccanismi imponderabili. Tutto questo servito in una dimensione inaspettata, inattesa, minima, dove prendono vita illogicamente i panini esposti al bar, le carte da gioco, le lenti degli occhiali. E che cosa capiterebbe se si trovasse per caso una bara che contiene la salma della Morte? A me pare di vivere in un mondo dove cade anche la certezza che la Morte non sia vittima di se stessa. E lo esprimo con un assurdo per mio conto suggestivo di Morte-morta, come potrebbe essere di acqua-asciutta, o di sole-freddo. L’urgenza dei deliri deriva proprio da voler sublimare il banale del quotidiano stravolto, imprestandogli una dignità letteraria, che lo porta a tastare ambiti più elevati. Operazione che sconfina fatalmente in una follia innegabile. Si tratta, appunto, di deliri, tascabili perché a portata di mano, che potrebbero accadere in qualsiasi momento, o meglio: per i quali dovremmo farci venire il dubbio che possano accadere in qualsiasi momento.»I finali dei racconti sono spesso criptici, non hai avuto il timore che risultassero incomprensibili al lettore?«Spesso il protagonista è disarmato e inconcludente: questa è la spiegazione della troncatura sul punto decisivo della narrazione. Il racconto finisce senza una conclusione naturale, proprio perché a quel punto subentra il lettore, con la necessità di porsi delle domande e completare. O, se lo stesso ritenesse troppo surreale e pretenziosa un’operazione del genere, vorrei almeno informare sul fatto che lo scrittore si è messo in quelle condizioni, cioè di scrivere un breve racconto che, attraverso metafore – diremo – bislacche, lo ha portato a pensare a temi eternamente inquietanti. C’è indubbiamente una tendenza all’esasperazione della cripticità e della scarnificazione della narrazione, ma è un rischio calcolato sulla scommessa di una scelta considerata adatta all’intenzione. Poi, sai, si tratta di un libro d’esordio, spero di avere ancora occasione, in futuro, di lavorare a un’evoluzione stilistica oltre che di contenuti.»Le atmosfere create nei tuoi racconti rimandano alla poetica dell’assurdo di autori come Kafka e Dino Buzzati. É proprio così? Ti sei ispirato a loro? E in cosa ritieni, invece, di esserti distinto da loro o da altri autori, e aver dato una tua impronta personale?«Kafka e Buzzati sono due giganti del Novecento. Non solo segnalo, ma la grido, l’ispirazione che ho tratto da loro, soprattutto dal secondo. Che mi ha affascinato, oltre che per i temi, anche e soprattutto per lo stile, figlio della sua persona naturalmente elegante. È normale sostenere che chiunque scriva rappresenti la sua unicità e, per quanto ispirato da uno o più maestri, conservi delle prerogative del tutto sue. Però onestamente ritengo di non essere nelle condizioni di sottolineare io elementi di contatto o di scostamento con i due autori citati. Per me sarebbe già una soddisfazione più che appagante solleticare la curiosità di un lettore e avvicinarlo alla mia interpretazione di una parte della realtà attraverso questo libro. Grazie naturalmente, infine, alla casa editrice Letteratura Alternativa, perché Romina Tondo e da Pablo T hanno scommesso sulla mia raccolta di racconti, e, senza di loro, sarebbero restati deliri silenziosi avvolti su loro stessi.»
Segnalato fra i 54 titoli all’edizione Premio Strega 2020, “L’amore altrove” della scrittrice Cynthia Collu, edito da DeA Planeta Libri, è un romanzo claustrofobico sull’amore rubato e sulla difficile conquista per ritrovarlo.
L’AMORE ALTROVE
Cynthia Collu
Romanzo
DeA Planeta Libri
pagg. 320
Euro 16,00 ISBN 8851174210
«È facile essere buoni quando si è felici. Quando si soffre, non lo è per niente.»
Ci si può salvare da una vita senza amore?
L’amore compreso
l’amore perdonato
l’amore negato
l’amore donato
l’amore cercato
l’amore respinto
l’amore violento
l’amore malato
l’amore cercato …
nei posti sbagliati,
l’amore incontrato e …
subito rubato …
Ma l’amore dov’è?
L’amore si distrae e vola altrove e allora ci smarriamo, allora non sappiamo più cosa cerchiamo, mentre una voragine si dilata nel petto e la notte ingoia l’anima. E allora impariamo a camminare nel buio, finendo per scambiarlo per la luce. Combattere contro l’orco è la battaglia che ci spinge a non allentare la presa e l’orco è proprio l’appiglio al quale ci ancoriamo per percepire il cuore battere ancora, e nell’odio sentiamo di essere vivi. Ma in fondo poi, l’odio cos’è se non amore adombrato? É amore che ci spetta di diritto e che abbiamo inseguito inciampando, ogni volta, riaprendo ferite mai chiuse.
«Mi chiedo se dovevo raccontare a mamma di papà. Ma ho sempre temuto che non capisse, oppure mi rispondesse con uno dei suoi discorsi strampalati. Non avrei sopportato di vederla ridere o battere le mani. E se anche avesse capito, che avrebbe potuto fare? Sono io che devo proteggerla. Lei è grande e grossa, ma incapace di difendersi.»
In questo clima di sentimenti confusi e confusionari, maldestramente si muovono i personaggi de L’amore altrove dell’autrice milanese Cynthia Collu – DeA Planeta Libri – 2019. Una madre, Amanda, dalla presenza fisica ingombrante, il portamento goffo, l’odore di candeggina sulla pelle e lo spirito assente, perduta nelle sue fantasticherie alla ricerca delle ali di angelo, sparisce di frequente di casa. Una figlia adolescente, Licia, impara a bastare a se stessa, sentendosi grande e forte nel difendere dal male che si annida nel luogo a lei più caro la sorella minore, Giada, mentre soffocando la rabbia butta via il suo corpo tra le braccia di uomini sbagliati. Un padre manesco, Luca, che sfida l’umiliazione in pieno giorno alla ricerca della madre scomparsa, scurrile e sempre sbronzo, che scambia la perversione per amore. É una famiglia azzoppata che tenta invano di tenersi in equilibrio nel quartiere popolare milanese Quarto Oggiaro, dove dilagano delinquenza e squallore. Una famiglia che all’esterno, agli sguardi distratti della gente, sembra una delle tante, rinchiusa nel suo bozzolo.«Sino a due anni fa andavo a messa. Poi un giorno un prete mi ha detto che ero una puttana perché stavo sempre in mezzo ai maschi, e da quella volta in chiesa non ci ho messo più piede. (…) Adesso anche per me la domenica è un giorno come un altro, così quando sento le campane mi rigiro nel letto, imbronciata, e spero solo che papà abbia deciso di ristabilire il necessario tasso alcolico, e sia già uscito di casa.»
Ma nessuno immagina cosa si nasconde dietro le finestre, dove si vive in apnea, a digiuno da amore e comprensione. Tutto questo smarrimento affonda le radici in un torbido passato che non ha concesso via di scampo di padre in figlio, di madre in figlia. Nella brulla e isolata Sardegna fra gli anni ’70 e ’80 le lacrime si mescolano al mare impetuoso che porta via l’amore, un cane malaticcio regala momenti di autentico affetto a un bambino punito troppo presto dalla vita, aborti illegali lasciano un solco profondo nelle viscere di un’anima sbiadita, un vedovo si tiene in vita grazie all’amore per sua figlia, che non abbandona, sapendo che se lo facesse anche lui verrebbe tradito dall’amore e, in una Milano assente e distratta degli anni ‘90, adolescenti dai corpi brutalmente violati tentano di reinventarsi un nuovo inizio. Tutte queste anime prigioniere dovranno lottare duramente prima di riuscire a spezzare le pesanti catene che le tengono legate alle loro prigioni interiori.
«Una volta l’ho recuperata davanti alla chiesa di Santa Agnese, poco lontana da casa. Mamma era intenta a fissare il grande affresco della facciata. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Che c’è, ma’, che guardi? Mi ha indicato gli affreschi. L’hanno esposta nuda davanti a tutti, poverina. Ma chi? La santa! Ha rabbrividito e si è stretta il golfino al seno, poi si è guardata le mani enormi. Deve essere stato terribile, sentirsi gli occhi di tutti addosso e non potersi coprire. Ho guardato anch’io ma non capivo a cosa si riferisse. L’ho presa per mano e lei mi ha seguito con un sorriso da demente.»Osservando con sguardo lucido le vicende dall’esterno, l’autrice lascia che siano i personaggi a parlare delle loro singole storie. L’amore altrove è difatti un romanzo a tratti corale, che fa convergere i fili della trama verso una unica direzione: la mancanza d’amore, e quando non si è amati, è difficile riuscire ad amare. Ma esiste un manuale per insegnare ad amare? Come una maledizione l’amore negato si abbatte su alcuni individui, perseguitandoli senza sosta. Ma poi arriva il momento di rottura di uno schema ormai indecifrabile ed è allora che i pezzi cominciano, pian piano, a tornare al loro posto. Su ognuno di quei pezzi è nascosta la ferita che comincia a rimarginarsi.
La penna di Cynthia Collu si rivela come sempre un bisturi maneggiato da un attento e preciso chirurgo che incide in profondità per portare alla luce i più dolorosi conflitti familiari. L’uso del presente rende la scrittura diretta, la mancanza di virgolette nei dialoghi accentua l’affanno interiore dei personaggi, così come le descrizioni crude colpiscono il lettore fino a fargli mancare il respiro. “Come è possibile tutto ciò?” potrà chiedersi, pensando se quanto raccontato, così portato all’estremo, possa essere possibile. Perché vivere senza sentirsi amati è una verità impossibile da accettare.
Chi è Cynthia Collu
Nata a Milano, dove vive e lavora, Cynthia Collu ha esordito nel 2009 con il romanzo Una bambina sbagliata, edito da Mondadori, aggiudicandosi il Premio Berto opera prima. Nel 2015 ha pubblicato, sempre con Mondadori, Sono io che l’ho voluto. Nell’ottobre 2019 esce per DeA Planeta Libri “L’amore altrove”, romanzo proposto dallo scrittore e saggista Ferruccio Parazzoli, fra i 54 titoli degli Amici della Domenica per il Premio Strega – Edizione 2020 con la seguente motivazione: «Romanzo di narrazione compatta, esattezza e controllata forza del linguaggio. Storia di una famiglia che, nei ricorsi della vita, può sembrarci perfino di avere conosciuto in uno qualunque dei nostri condomini urbani, ma che, come ogni storia di famiglia, è irrepetibile nei suoi dolori, esaltazioni, cadute, resurrezioni, affetti, ribellioni. Storie che si alternano, in cui ognuno vive e rivive la propria nel passato e nel presente, pagine in cui l’impeto, che raggiunge anche toni scabri, cede alla dolcezza, la spietata osservazione umana a una profonda pietà.Tali i sentimenti e le passioni che, fino dai primi romanzi, fa vivere la vibrante voce di Cynthia Collu.»
Esiste una relazione fra immagine raffigurativa e scrittura, un punto in cui le due sfere artistiche si incontrano per svelare una dimensione arcana e al contempo universale?
«La pittura è poesia muta e la poesia pittura parlante.» Simonide di Ceo
Da Aristotele a Orazio, da Leonardo Da Vinci a Lessing, fino ai contemporanei come Umberto Eco, il tema della complementarietà fra pittura e scrittura ha suscitato complessi dibattiti, spesso ridotti a una sorta di gara di supremazia di una forma d’arte sull’arte, oppure al dualismo delle categorie spazio-tempo, corpo-anima.
Secondo la poetica simbolista, la poesia deve svilupparsi attraverso le immagini, accostando suoni, colori e profumi.
Trasportato in un flusso di coscienza, il poeta Arthur Rimbaud offe proprio l’emblematico esempio di questa nuova poetica, nella sua lirica intitolata “Vocali”:
«A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Io dirò un giorno le vostre nascite latenti:
A, nero corsetto villoso di mosche splendenti
Che ronzano intorno a crudeli fetori,
Golfi d’ombra; E, candori di vapori e tende,
Lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi d’umbelle;
I, porpora, sangue sputato, risata di belle labbra
Nella collera o nelle ubriachezze penitenti;
U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari,
Pace di pascoli seminati d’animali, pace di rughe
Che l’alchimia imprime nelle ampie fronti studiose;
O, suprema Tromba piena di strani stridori,
Silenzi attraversati da Angeli e Mondi:
– O l’Omega, raggio viola dei suoi Occhi!»
Rimbaud auspica un nuovo linguaggio, una lingua dell’anima per l’anima. E il poeta non è solo colui che scrive, possiamo aggiungere a questo punto, ma colui che lascia tracce del suo passaggio animale, inteso in senso dell’anima, meglio espresso con l’aggettivo spagnolo “animico”, nel mondo.
Impossessati da immagini interiori, i pittori tracciano su tela, o sui muri o su qualsiasi altro materiale plasmabile segni, parole, colori. In uno stato tra sogno e veglia, disegnano il loro mondo, animati da pensieri, guidati da antiche voci, da un’eco di immagini primordiali.
«Ogni accadimento psichico è un’immagine e un immaginare.»Carl Gustav Jung
Ispirato da note opere letterarie, il pittore, scrittore e poeta Pablo Toussaint ha intitolato una raccolta di suoi dipinti astratti “Classici d’autore”. Attraverso linee e colori, l’artista di adozione astigiana cerca di entrare nello spirito che ha portato una serie di scrittori, oggi famosi, a comporre i loro scritti.
Dai riflessi dorati che baluginano sullo sfondo bianco della tela si intravede uno spiraglio di speranza che probabilmente lo scrittore statunitense Jack Kerouac, autore del romanzo dell’irrequietudine e della ribellione degli anni ‘50 “Sulla strada”, trovò nello studio dei testi buddhisti; dallo sfondo chiaro adombrato da macchie nere, intervallate da improvvise sbavature rossastre, emerge invece l’anima tormentata del poeta e scrittore Charles Bukowski, mentre dai toni spenti del grigio e nervose e sempre più sfumate pennellate di nero, si percepisce la riflessione esistenziale sull’alienazione sociale del periodo a cavallo fra gli anni ’30 e ’60 in Italia, a opera di Alberto Moravia.
Quello di Pablo Toussaint è un esempio di incontro fra immagine e parole che, nel tentativo di entrare nei complessi meandri della psiche degli scrittori, rivela quel fenomeno di trasmutazione artistica dei processi creativi, animati da arcane simmetrie. Le immagini, nei suoi dipinti, si sono caricate di una intensa valenza alchemica, come accade nel viaggio che l’Anima fa dentro di sé.
Per visionare le opere di Pablo Toussaint, la pagina Facebook è: La Pittura visionaria di Pablo T