Il presente diventa sempre di Marco Dalissimo
Il presente diventa sempre, raccolta di racconti dell’autore romano Marco Dalissimo edito da Letteratura Alternativa, si distingue per le atmosfere visionarie in cui la capitale fa da sfondo a cronache quotidiane che sfociano nel surreale.
In attesa dell’imminente uscita del nuovo romanzo di Marco Dalissimo, Mi libro in volo propone la recensione della raccolta di racconti che l’autore romano ha pubblicato nel 2018 per Letteratura Alternativa Edizioni.
Dall’incipit della raccolta Il presente diventa sempre di Marco Dalissimo – Letteratura Alternativa Edizioni – 2018:
“Trovare un’uscita nel muro, un vero varco, abbandonare questo secolo appena nato. (…) Fuggire da questi padri assassini e da queste donne mute. E non tornare uomo, mai più. (…) Passare nel muro, così, senza memoria delle cose inventate, e diventare altro.”
Se vi dicessero che esiste un passaggio che da questa nostra dimensione storica e temporale ci trasporta altrove, decidereste di oltrepassarlo? Magari vorremmo ritornare in quell’arcano “dove” da cui proveniamo e ricominciare tutto daccapo, oppure rinascere sotto altre forme e non sentire mai più l’urlo di dolore del mondo che comincia a strozzarsi, non vedere la Pazzia che ingoia tutto. Sì, quel varco potrebbe annientare tutto, ma potremmo anche rischiare di ritrovarci faccia a faccia con il nemico che più temiamo, quell’immagine che ci osserva dallo specchio quando decidiamo di rifletterci.
“Sono una forma in piedi sul terreno che sbriciolandosi cade a terra, nella stanza riflessa.”
Questo viaggio, che avviene su più piani temporali, tra passeggiate lussuriose in mezzo alle tombe di un cimitero, in notti in cui gli spiriti del passato sembrano ridestarsi e voler comunicare con quelli che sembrano i vivi, fra perdite e ritrovamenti inspiegabili, tentativi di fuga, nell’interrogativo se uccidere o no, tra ricordi, rimpianti e timori, conduce a una sola e unica meta, che ogni lettore dovrà scoprire da sé. Le tappe del viaggio, di volta in volta diverse, dalla resistenza all’ambiguità, fino alla delicatezza di amori perduti, sono i racconti che compongono la raccolta Il presente diventa sempre dell’autore romano Marco Dalissimo pubblicato nel 2018 dalla casa editrice astigiana Letteratura Alternativa. Pervasa da atmosfere oniriche che irrompono nella quotidianità, la narrazione travolge il lettore nelle già citate multiple sovrapposizioni temporali, reali o interiori, in cui il confine tra possibile e impossibile si sfalda, il tempo si dilata o si arresta ed è allora che gesti e parole che i protagonisti scelgono iniziano a plasmare il mondo che decidono di attraversare. Dal verde al rubino, dai flussi cangianti lunari ai bagliori di mercurio della luce del giorno che filtra da dietro le colline, le frequenti variazioni cromatiche diventano vivide rappresentazioni di sensazioni ed emozioni, che rendono la raccolta, intervallata da un breve interludio poetico chiamato Interregno, a tratti visionaria, a tratti malinconica. Roma, la città in cui sono ambientati i racconti, appare come una miniatura racchiusa in una boule de neige da rovesciare e da scoprire, è lo scenario che fa da sfondo alle vicende, riflettendosi nei vari personaggi con dialoghi diretti e stile asciutto, e nei gesti ora eclatanti, ora placati da sentimenti di solitudine o struggente nostalgia, come quello per un incontro che resta appeso al filo di un addio mancato.“Spero di vederti arrivare dal vialetto che scende verso il frutteto e chiudo gli occhi. La chiamo pazzia, ma non è così, è uno spazio dove trovarti ancora. Cosa sono dieci anni? Un luogo dove non puoi tornare dopo l’ultimo passo di oggi, di stasera.”
Chi è Marco Dalissimo Nato a Roma, ha frequentato l’Istituto D’arte Silvio D’Amico. Dopo aver lasciato tutto per la musica lirica, si trasferisce a Londra e, rientrato nella citta natia, si rimbocca le maniche per ricominciare, senza mai abbandonare le sue passioni: l’arte, la lettura, il cinema e il teatro, e scopre la fotografia che usa per le sue creazioni in digitale. Possiede l’intera discografia di David Bowie e un numero considerevole di volumi sulla storia di Roma. Il suo aforisma è: “Vivo di reale astrazione e la racconto”. Nel 2010 ha pubblicato il primo romanzo “Nessun dio sulla terra” edito da Zona Editrice. Nel 2015 pubblica con L’erudita di Giulio Perrone la raccolta “Un anno senza giorni”. Le sei prose ( o poesie/concetti visivi ) contenute in questa nuova silloge “Il presente diventa sempre” hanno vinto il premio “Adrenalina” 2017 nella sezione scrittura e possono essere ascoltate su Youtube digitando “Riflessi” Marco Dalissimo Pelliccione. Nel 2015 ha definitivamente abbandonato il suo vero nome Marco Pelliccione per usare Dalissimo come definitiva identità. Mini-intervista all’autore La musica lirica, la fotografia, la passione per il cinema, per l’arte e, last but not least, la scrittura. Come convivono queste svariate attitudini in Marco Dalissimo? “Sono la somma della mia persona, perlomeno quella della parte progettuale. Sono anche l’espressione dei miei diversi periodi vitali, dei miei fallimenti, anche se mai realmente tali, perché ogni volta passione e impegno ti portano in luoghi che non avresti potuto vivere o sperimentare, dunque espressione delle mie esperienze. Il cinema, va detto, è solo uno dei miei interessi, mentre con la musica ho avuto un rapporto reale, per un lungo periodo ho preso lezioni di canto lirico, e questa fortuna è stata forse la più formativa sotto l’aspetto della volontà e del sacrificio, perché la mia natura è di base anticonformista. La scrittura esiste come prova della voce narrante interiore che come individuo ascolto nonostante un certo tormento, per questo motivo tutte le mie storie hanno una componente molto descrittiva, ma spesso, e per fortuna, ironica e comica. Per quanto riguarda la fotografia o le arti figurative in senso lato, anche questa volta, per il mio nuovo romanzo in uscita, ho realizzato la copertina. Ecco, credo che sia questo il mio primo modo di comunicare, quello più urgente, mentre scrivere, come sai, è un’esperienza introversa, di riflessione, c’è una solitudine diversa nel progettare una storia, anche se ogni forma di creatività è un mezzo per arrivare agli altri, dunque sociale.” Rifacendoci alle tematiche multitemporali della tua raccolta di racconti, se dovessi scegliere di attraversare il varco che divide il tuo presente da una dimensione altra, dove ti ritroveresti? “Nel Presente diventa sempre il tempo e il sogno, presente e passato sono una cosa sola, come la città dove vivo, Roma, e amando quanto resta della sua forma antica posso dirti che questo non luogo è la mia città. Roma è una scatola psichica dove cammini nel multitemporale come dici tu. Freud la paragona alla mente di una persona in cui niente di tutto quello che è stato edificato è andato perduto, ma inglobato. Ma per rispondere ai miei desideri mi troverei a Dublino, credo, e a Miami, quest’ultima città estremamente moderna a contatto con il mare.” Adesso sveli alcune curiosità sul nuovo romanzo in uscita ai lettori di Mi libro in volo? “Inizio col dire che ancora una volta ho deciso di affidarmi alla casa editrice Letteratura Alternativa Edizioni e, come ogni volta, alla fine di un lavoro permango in quello stato d’animo che è un posto sospeso, un interregno, come dico spesso, in cui emozione e incertezza diventano un nuovo punto di partenza. Per non svelare troppo, accenno solo che la storia è principalmente quella di due coppie e altrettanti personaggi che credono di meritare soltanto il posto che hanno. Sembra che tutto possa capitolare da un momento all’altro, ma nei loro dubbi (anche dolorosi) trovano il modo di non lasciarsi (nutrendo dinamiche sbagliate). È un romanzo ambientato in un inverno gelido che diventa anche l’unico luogo della storia. In diversi momenti ho usato descrizioni che potrebbero essere quelle di una messa in scena teatrale, e probabilmente tutto il lavoro potrebbe trovare anche un’ipotesi di questo tipo. Non mi resta che augurarmi che i lettori di Libro in volo vogliano presto leggerlo.”Via col vento. Approfondimento sul romanzo
Via col vento, capolavoro letterario o romanzo la cui fortuna è stata decretata da una versione cinematografica colossale? Vi propongo alcune riflessioni alla luce della recentissima e rinnovata traduzione al romanzo della casa editrice Neri Pozza.
Alzi la mano chi, al titolo “Via col vento”, non pensa subito alla famosissima pellicola cinematografica, colossal del regista Victor Fleming del 1939 che si aggiudicò ben 8 premi Oscar, tra cui uno alla prima attrice di colore, Hattie McDaniel, interprete dell’indimenticabile bambinaia Mamy. Se ad alcuni la notizia del film in tv fa storcere il naso o provoca noia, alla sottoscritta la cosa non può che far piacere. Ebbene sì, lo ammetto, quello che molti potrebbero definire “un polpettone americano” mi ipnotizza davanti allo schermo ogni volta. Sarà per la maestosa ricostruzione dell’ambientazione storica, per i costumi sontuosi, per la memorabile interpretazione di attori dal calibro di Clark Gable (superbo nel ruolo del capitano Rhett Butler) e dello sguardo ammaliante di Vivien Leigh nelle vesti della spudorata ereditiera dagli occhi verdi Rossella O’Hara, ma a me il film piace tanto, ma proprio tanto, al punto da non poter negare che non si può pensare al romanzo senza pensare alla trasposizione cinematografica, così come dimostrano le scelte delle foto di copertina nelle varie ristampe del romanzo. È accaduto anche per la casa editrice Neri Pozza, che recentemente ha pubblicato la versione integrale del romanzo e che per la copertina ha scelto un primo piano in bianco e nero dell’altera Leigh-Rossella, spalleggiata da un’enorme ombra che ne accentua la presenza scenica nella pellicola cinematografica e l’iconicità del famigerato personaggio letterario.
Ci tengo subito ad ammonire coloro che non hanno ancora letto il romanzo, ma si sono limitati fino a oggi a guardare la versione cinematografica, di dimenticare il dramma sentimentale e i dialoghi spesso melensi che tanto hanno avuto presa sul pubblico di ogni età. Via col vento di Margareth Mitchell è un romanzo storico, dalla prosa prolissa, le presentazioni dei personaggi sono dirette, lo stile è asciutto, privo di orpelli al pari della scrittura che si svilupperà decenni più tardi nei più grandi capolavori della letteratura americana. Gli unici passaggi in cui l’autrice si lascia volutamente andare a riflessioni dal tratto più romantico sono i soliloqui di Ashley, il sognatore nostalgico di un’epopea romantica e fulgida di nobili valori ormai passata, adombrata da distruzione e profonde amarezze che la guerra lascia dietro di sé, in cui sta l’intento dell’autrice, come da lei stessa dichiarato all’epoca. Quando l’infatuata Rossella rinnova ancora una volta il suo amore ad Ashley questi, disincantato dalla frattura inferta dalla guerra civile al sud, confesserà: “Mi turba la perdita della bellezza della vita che amavo. La vita, prima della guerra, era bella. C’era in essa uno splendore, una perfezione, una simmetria come quella dell’arte greca. Forse non era così per tutti. (…) Ora so che quelle di allora erano ombre su un schermo. Evitavo tutto ciò che era delicato; persone e situazioni che erano troppo reali e definite. (…) Da quando ero nato mi ero tenuto a distanza dalla comunità, scegliendo con cura i miei pochi amici. Ma la guerra m’insegnò che quello era un mondo creato da me e abitato da ombre di sogno. M’insegnò che cosa sono veramente le persone, ma non mi insegnò come vivere con esse. E temo che non l’imparerò mai.”
Ashley si fa dunque portavoce dell’impossibilità di un ritorno al decantato passato virtuoso del sud, l’America si sa è il Paese in cui ogni sogno è possibile, in cui il materialismo soppianta la speculazione, quindi dopo la guerra di secessione mostrava il vero volto del sud, violento e spregiudicato, una volta caduto il sipario. Con la guerra civile, l’epopea del sud collassò ed esso fu travolto dalla rapida ondata di dinamismo ed espansione. Anticipando la visione dell’autore William Faulkner, attraverso l’irreprensibile Rossella, Margareth Mitchell smaschera quindi la sorte che toccò al sud durante la Restaurazione: il progresso è nel nuovo, tornare indietro non si può, sono nuove le radici che si diramano nella terra di Tara, nuove le mani che piantano i semi e nuove le idee che ne nasceranno.
Via col vento e con … i suoi numeri
È il 1936 quando negli Stati Uniti viene dato alle stampe Via col vento, l’unico romanzo della scrittrice e giornalista Margareth Mitchell. Il successo è immediato: supera subito il milione di copie vendute, nel 1937 si aggiudica il Premio Pulitzer e viene tradotto in oltre 30 lingue. Sottoposto all’autarchia linguistica fascista, in Italia il romanzo viene tradotto e pubblicato per la prima volta nel 1937 da Arnoldo Mondadori Editore che ne detiene le ristampe, con una traduzione datata, fino al 1919. Il 30 gennaio del 2020 la casa editrice Neri Pozza ha pubblicato il romanzo nella versione integrale per la collana I narratori delle Tavole con la traduzione rinnovata di Annamaria Biavasco e Valentina Guani, mentre l’introduzione è affidata alla critica cinematografica Mariarosa Mancuso. L’intento, come hanno dichiarato sia le traduttrici che la Mancuso, è quello di proporre ai numerosi lettori una lettura più sfaccettata del romanzo, senza omettere parti che per questioni di budget e mancanza di strumenti digitali come quelli odierni, nel 1937 non furono tradotte o vennero trascurate.
La principale novità riguarda l’introduzione di una terminologia più attuale, soprattutto in merito alla questione “razziale”. Nella versione del 1937 è molto frequente il termine “negro”, all’epoca equivalente all’aggettivo “nero”, oggi le traduttrici hanno optato per ridurne l’utilizzo solo a contesti più specifici e preferendo il più accreditato “nero”, oltre a correggere la dizione sgrammatica al limite dell’offensivo utilizzata per i loro dialoghi, come l’uso frequente del tempo infinito nei verbi. Per rendere l’idea, propongo un paio di passaggi tratti dalla versione Mondadori:
“Per fortuna, miss Rossella, io non abitare a Shantyown. Essere qui solo di passaggio. Per niente al mondo io vivere in questo posto. Non avere mai visto simile gentaglia negra. E non sapere che tu essere a ‘Tlanta. E volere andare a Tara appena possibile.” O ancora: “Sì badrona (nella nuova traduzione Neri Pozza sostituito con un Sissignora). Questo essere vero. E io dire a te che non fare bene ad andare in giro sola. Tu non sapere che canaglie essere negri in questi tempi (…)”. In queste frasi, in particolar modo, emerge il punto di vista sudista in merito alla questione dei neri. Definiti schiavisti e incivili, i sudisti erano considerati spregevoli e irrispettosi. Il vecchio Sam, quando rivede Rossella e le racconta di essere stato portato al nord, spiega di essersi stupito di essere stato trattato come “uno di loro” riferito ai nordisti, che pure lo temono, ma soprattutto risponde alle loro accuse di percosse da parte dei suoi padroni: “E tutti chiedere come essere cani sanguinari e domandare particolari di battiture che io avere ricevute. E io, miss Rossella, non essere mai stato battuto (…)”
I personaggi di Via col vento
Tutti i protagonisti di Via col vento sono diventati nell’immaginario collettivo archetipi di passioni, per lo più intense, di audacia, coraggio e determinazione. Prima fra tutte Rossella, che oggi nella rinnovata versione di Neri Pozza è chiamata con il suo nome originale, Scarlett, come accade per tutti i personaggi, italianizzati nella precedente traduzione.
Sin dalla sua apparizione, nella prima pagina del libro, a colpire è lo sguardo, vispo, attento e spregiudicato. Di lei l’autrice dice nell’incipit:
“Rossella O’Hara non era una bellezza; ma raramente gli uomini se ne accorgevano, quando, come i gemelli Tarleton, subivano il suo fascino. Nel suo volto si fondevano in modo troppo evidente i lineamenti delicati della madre – un’aristocratica della Costa, oriunda francese – con quelli rudi del padre, un florido irlandese. Ma era un viso che, col suo mento aguzzo e le mascelle quadrate, non passava inosservato. Gli occhi verde chiaro, senza sfumature nocciola, ombreggiati da ciglia nere e folte, avevano gli angoli volti leggermente all’insù. Le sopracciglia nere e folte piegavano anch’esse verso l’alto, tracciando una strana linea obliqua sulla sua candida pelle di magnolia – quella pelle così apprezzata dalle donne del Mezzogiorno, che la riparano con infinita cura dai raggi ardenti del sole della Georgia mediante cuffie, veli e mezzi guanti.”
Giovane adolescente capricciosa, viziata e circondata da uno stuolo di spasimanti, Rossella non ha occhi che per Ashley Wilkes, suo amico sin dalla tenera età, che per lei rappresenta rettitudine e nobiltà d’animo, caratteristiche che, come tutti ben sappiamo, non le appartengono. In realtà, il binomio Ashley-Rossella rappresenta proprio l’antitesi di ideali sociali che la guerra civile (1861-1865), la più sanguinosa realtà bellica che ha scosso l’America, mietendo oltre le 60.000 vittime, metterà in discussione.
“Ashley era nato da una razza di uomini che passavano le loro ore libere a riflettere, non ad agire, a intessere sogni brillantemente colorati che non avevano in sé un barlume di vero. Egli viveva in un mondo interiore molto più bello della Georgia, e tornava malvolentieri alla realtà. Guardava le persone senza provare per loro né simpatia né antipatia. Accettava l’universo e il suo posto in esso per ciò che era e, crollando le spalle, tornava alla sua musica, ai suoi libri, al suo mondo migliore.”
Ashley è l’individuo introverso che si estranea dalla realtà, affidandosi all’effetto rassicurante della cultura. Egli vive nel mito di un passato aureo, ormai superato, o forse mai esistito, in una nazione in cui si affermano individui tenaci e spregiudicati. Ne è un esempio il robusto Geraldo O’Hara dalle gambe corte e il viso malizioso, padre di Rossella, che dall’Irlanda si è trasferito in America per fare la sua fortuna e ci è riuscito contando unicamente sulle sue forze, colui che “non si è mai tormentato il cervello con problemi più astratti della quantità di carte che bisogna chiedere in una mano di poker.” Sua moglie Elena, figlia di una aristocratica famiglia francese vissuta ad Haiti dal 179 “a causa della Rivoluzione”, incarna quell’ideale di raffinatezza e cerimoniosità e a un’etica basata su generosità e altruismo. La sua “era una voce che non si alzava mai per dare ordini a uno schiavo o per muovere rimprovero a un bambino; ma tutti le obbedivano istintivamente a Tara, dove le grida e gli urli di suo marito erano pacificamente tenuti in nessun conto.” Per sua figlia Rossella, la donna è sempre stata “una colonna di forza, una fonte di saggezza, la sola persona che aveva la risposta pronta per tutti.” E sono proprio queste caratteristiche che fanno da monito all’animo in subbuglio di Rossella, che si ritrova in bilico fra vecchio e nuovo. La figura materna incombe spesso su di lei come un’ombra severa. La ragazza la vedrà sempre come una donna buona, dall’animo gentile, la moglie devota che ammonisce tutti in casa a non disturbare il marito, dispensatrice di saggi consigli e delle buone maniere. Elena è per sua figlia l’esempio da seguire, l’ideale che lei non potrà mai rappresentare, per quel fuoco di affermazione che sente ardere dentro di lei.
Rossella ambisce alla conquista impossibile di Ashley, Rossella deve farsi coraggio nel fronteggiare le malelingue della società nei confronti della sua giovane vedovanza, Rossella deve misurarsi con le sue paure di fanciulla inesperta quando si ritrova ad attraversare Atlanta in fiamme con una puerpera e il suo neonato, Rossella deve reinventarsi quando torna nella sua devastata, amata Tara, farsi spazio in un mondo di uomini rudi e affaristi.
A irritarla sono proprio le reazioni pacate e l’indole dolce e buona della sua rivale in amore Melania, le stesse che lei ha sempre ammirato in sua madre, quella figura irraggiungibile che richiama alla memoria quando è costretta a scelte impulsive e ad assumere atteggiamenti sconvenienti per l’epoca, nei momenti in cui prova forti rimorsi, dove spesso c’è la burbera Mamy che con i suoi moniti moralisti la pungola, irritandola. Cosa lega, allora, con un filo invisibile, madre e figlia? Nel romanzo si fa riferimento all’amore giovanile della Signora O’Hara per un suo giovane cugino dagli occhi scuri e ardenti, Filippo Robillard, al cui ricordo la donna rimarrà sempre legata, al punto che prima di spirare ne mormorerà il nome. Anche Rossella trascorrerà la sua vita a idealizzare l’impossibile legame con Ashley, ma non terrà segreta questa sua ossessione, fino a compromettere la sua relazione con Rhett, l’unico uomo in grado di amarla veramente. Rhett Butler rappresenta l’alter-ego al femminile di Rossella, ma un passo avanti alla stessa. È forse l’ideale di un nuovo maschile che l’autrice auspicava. Uomo affermato, spesso burbero e sarcastico, è sicuro di sé e si tiene alla larga dai coinvolgimenti socio-politici (Ashley infatti, parlando con Rossella farà riferimento a lui come colui che ha capito prima di tutti che non partecipare alla guerra era un bene), nobile d’animo, seppur dietro la maschera di uomo cinico e, soprattutto, padre attento e premuroso. È l’unico a comprendere che la ritrosia di Ashley nei confronti di sua moglie è sempre stata una forte attrazione fisica e non lealtà coniugale, mentre lui ama Rossella proprio per la sua indole ribelle, focosa e determinata. Rhett Butler è l’uomo nuovo nella sua capacità di comprendere la donna nuova che si rivela nel nuovo secolo (non dimentichiamo che la madre della Mitchell era una suffragetta e lei stessa partecipava attivamente alle riunioni dell’epoca), l’uomo in grado di accettare e apprezzare le qualità femminili di emancipazione.“Vi amo, Rossella, perché ci somigliamo tanto; rinnegati, tutti e due, e profondamente egoisti. A nessuno di noi due importa che il mondo vada in rovina, purché noi ci salviamo.”
Il personaggio femminile che ammira e comprende fino in fondo il capitano Butler è la dolce e riflessiva Melania Hamilton che però, ricordiamolo, difende Rossella dall’attacco di uno yankee impugnando una sciabola senza alcuna remore. Via col vento è di fatto anche la storia di una ambigua amicizia, quella fra Rossella e Melania, quest’ultima descritta come una donna intelligente e onesta, incapace di vedere nella sua amica briciole di malignità e tradimento, e persino quando sua cognata Lydia Wilkes diffonderà il pettegolezzo di avance di Rossella nei confronti di Ashley, reagirà con la solita purezza d’animo verso la sua presunta rivale in amore. Melania ha compreso bene chi è Rossella: una donna impavida che deve fare i conti con la vecchia morale e che per superarla deve necessariamente fare scandalo. E Rossella, invece, cosa pensa di quest’anima buona di spirito e così devota nei suoi confronti? La sua è una reazione antitetica, perché se da una parte disprezza l’altruismo, la pacatezza e la comprensione che Melania dimostra verso tutti, dall’altra sente che in fondo quella che lei ostenta come forza attraverso sfacciataggine, ostinazione e cinismo, in realtà non le appartiene del tutto, ma è un tratto caratteriale di Melania, che invece appare fragile nel suo fisico cagionevole.Laddove Rossella si incendia e mostra espressioni arcigne, Melania placa gli sguardi e sorride bonariamente. Si potrebbe affermare che esse siano l’una l’antitesi dell’altra, la donna del ventesimo secolo che deve scalpitare per affermarsi e la donna che fa della sua soddisfazione interiore la vera felicità.
Melania ammira dunque Rossella, alla quale chiederà di occuparsi del figlio Beau in punto di morte, così come non giudica la prostituta Bella Watling, personaggio marginale ma che appare ogni volta come una gran dama a discapito dei suoi “malcostumi”. Sarà proprio Melania ad accettare i soldi di Bella per la beneficenza militare, che in molti non vogliono prendere perché considerati “sporchi” e la sua benevolenza sarà ricompensata quando Bella deciderà di scagionare Ashley dall’accusa di militanza nel Ku Klux Kan.
Rossella. L’anti-eroina della letteratura contemporanea Se da una parte il personaggio di Rossella subisce una maturazione, da adolescente viziata e prepotente a donna imprenditrice che deve assicurarsi la sussistenza della tenuta e della famiglia, dall’altra emerge il lato cinico di una donna che deve imporsi e saper infischiarsene delle malelingue e, soprattutto, determinata a non scendere a compromessi con se stessa. A differenza del film, nel romanzo Rossella diventa madre per ben tre volte, da ciascun marito. Dal suo matrimonio con Carlo Hamilton, fratello di Melania sposato con impeto per indispettire Ashley, nascerà Wade, bambino dall’indole insicura, dal matrimonio con il proprietario della segheria che la donna trasformerà in una fiorente impresa, Franco Kennedy, “rubato” alla sorella Susèle per motivi economici, darà alla luce la vanitosa Elle, e infine da Rhett Butler, che mostrerà sempre sincero affetto verso i primi due figli di Rossella, avrà la sfortunata Diletta. In veste di madre, Rossella si rivela anaffettiva, sempre affaccendata ora a difendere il suo amore per Ashley, ora a risollevare le sorti di Tara, restando fedele al monito paterno secondo cui la terra:“è la sola cosa al mondo che rimane (…) la sola cosa per cui vale la pena di lavorare, di lottare … di morire!”.
L’indipendenza costa per una donna e Rossella segue l’impervia strada verso l’emancipazione femminile, al punto che, per riuscire a imporre l’amore per se stessa, non può far altro che idealizzare l’amore, un sentimento che non è ancora in grado di definire dentro se stessa, con l’ideale coniugale materno di fine ‘800 e la figura nuova che le circostanze della vita dopo la guerra hanno fatto di lei. “Devi essere più dolce cara, più remissiva” diceva Elena. “Non devi interrompere gli uomini che ti parlano, anche se credi di saperne più di loro sull’argomento. Gli uomini non amano le ragazze troppo perspicaci.” Amerà di un amore fatuo e irraggiungibile Ashley, senza accorgersi che l’uomo che le vive accanto, Rhett, la conosce e la accetta per quella che è. Affranta per l’abbandono cui spinge Rhett, Rossella non si lascerà infine piegare, perché in fondo lei è la donna ostinata pronta a calcolare tutto, anche a riprendersi l’esausto Rhett, dato che “Non era mai esistito un uomo che ella non potesse avere, se lo voleva”, fino a pronunciare le celebri parole:“ Penserò a tutto questo domani (…) Sarò più forte, allora. Domani penserò al modo di riconquistarlo. Dopo tutto, domani è un altro giorno.”
Attraversare il sogno. Cinque psicoanalisti a confronto. Incontro a cura della casa Editrice Moretti&Vitali
Quattro libri, cinque relatori per parlare del sogno come porta che conduce alla conoscenza della psiche del paziente. Breve cronaca e riflessioni sull’incontro a Torino del 25 gennaio presso il Circolo dei Lettori, a cura della casa editrice Moretti&Vitali, in collaborazione con il Centro medico psicologico torinese.
Sabato 25 gennaio, nello storico Palazzo Graneri della Roccia, la Fondazione Circolo dei Lettori di Torino ospita gli psicoanalisti Carla Stroppa, Andrea Calvi, Stefano Candellieri, Ferdinando Testa e Davide Favero, quest’ultimo in qualità di moderatore, per un confronto e successivo dibattito con un pubblico attento e numeroso sul tema del sogno analizzato da differenti prospettive, così come è nello spirito della casa editrice dei testi da loro pubblicati, la Moretti&Vitali Edizioni che, come ha dichiarato il direttore editoriale Enrico Moretti prima di lasciare la parola ai relatori, presta attenzione all’ipertestualità, prediligendo il dialogo tra saperi differenti. Alcune precisazioni È il 1898 quando Freud pubblica “L’interpretazione dei sogni”, in cui definisce il sogno “la via regia verso la scoperta dell’inconscio.” Di lì a pochi anni il suo pupillo, Carl Gustav Jung, si discosterà dall’idea che il sogno è “un appagamento camuffato di un desiderio nascosto”, affermando che i sogni sono indipendenti dalla coscienza dell’individuo e che a “travestirsi” non sarebbe dunque l’inconscio, ma il soggetto stesso. Egli dichiarerà: “L’idea di Freud è che il sogno sia razionale. Io affermo invece che è irrazionale. Succede e basta. Un sogno appare come può apparire un animale. Io sto seduto nel bosco e appare un cervo. Che i sogni siano preordinati è un’idea di Freud con cui non sono d’accordo.” (C.G. Jung, Analisi dei sogni. (Seminario tenuto nel 1928-30), 1984, Bollati Boringhieri, Torino, 2006 ) Secondo lo psichiatra svizzero le immagini dei sogni sarebbero dunque simboli. Il sogno vuole comunicarci un qualcosa, portarci a capire ciò che non è ancora giunto alla coscienza, vuole condurci alla guarigione. Rivivendo il sogno attraverso la terapia, il paziente gli attribuisce impulso creativo. Gli interventi “Sulla soglia di casa” di Carla Stroppa Psicoanalista junghiana, membro didatta dell’ARPA e dello IAAP, Carla Stroppa con il suo testo “Sulla soglia di casa” prende in considerazione i racconti onirici legati alla dimensione della casa, intesa come “figura dell’eterna tensione umana ad avere un rifugio accogliente e nello stesso tempo è figura della paura di rimanerne prigionieri”, essa è dunque “immagine della soglia fra il dentro e il fuori.” La soglia rappresenterebbe lo spazio intermedio per accedere a una dimensione altra, come quella onirica, invisibile, che svela l’enigma degli eventi che appartengono sia al singolo individuo che all’umanità, indicando rimozioni sia della storia personale che universale. È questa attitudine all’enigma che avvicina il sogno al fare dell’arte. Nell’attraversare l’invisibile si coglie l’atto creativo insito nel sogno, l’esplorazione delle zone d’ombra per portare alla luce l’ignoto. Dall’altra parte della soglia c’è il mondo visibile, e in questa tensione fra le due realtà opposte, onirica e concreta, l’individuo attraverso il lavoro di analisi da una parte “corteggia l’invisibile” dall’altra fa ritorno alla realtà, superando così la soglia che separa follia e creatività. “Quel che resta di Dio. Forme del Sacro nella cultura contemporanea e nella clinica” di Andrea Calvi Come si esprimono nella quotidianità le forme del sacro, come ritrovare i resti di Dio nell’era contemporanea e, soprattutto, come trovare un punto di incontro tra ragione e trascendenza nel tentativo di rispondere con esattezza ai fenomeni psichici e realtà mitiche e rituali attraverso il lavoro di analisi, sono gli interrogativi che pone il lavoro dello Psicoterapeuta, Psicoanalista, Presidente dell’Associazione Tiaré, Andrea Calvi, dal titolo “Quel che resta di Dio. Forme del Sacro nella cultura contemporanea e nella clinica”. Il pensiero simbolico diventa la risposta, quella dimensione intuitiva che riesce in un certo qual modo a percepire quanto sfugge, all’invisibile, realtà misteriose e sempre interpretabili. Non a caso numerosi nel testo sono i riferimenti a rituali folkloristici, figure perturbanti, stati d’animo di angoscia, depressione e solitudine in cui cogliere, oggi, “un’illegale irruzione del Sacro”. Particolare attenzione è rivolta alla personalità mana, sperimentatrice e di profonda intuizione, di Gustavo Roll, rappresentazione della capacità di mettere in relazione non usuale la dimensione psichica e quella della materia. “La clinica delle immagini” di Ferdinando Testa “La psiche è immagine e per conoscerla dobbiamo usare un linguaggio di immagini”. Partendo da questo assunto junghiano lo psicoanalista didatta dell’Istituto Meridionale del centro italiano di Psicologia Analitica, Ferdinando Testa introduce il suo intervento. Attraverso una prospettiva visionaria, mitica e sincronistica, il lavoro terapeutico, inteso proprio come un viaggio nel mistero della psiche, può giungere a comprendere il sogno, che è esperienza vissuta, reale. Il suo volume dal titolo “La clinica delle immagini. Sogno e psicopatologia”, così come riporta la sinossi: “nasce dal desiderio di avvicinare e conoscere il mondo della Psiche, dall’incontro con la sofferenza dei pazienti e dal non senso che ogni disagio psicologico comporta, ma anche dai germogli di vita nati e cresciuti durante gli incontri e i dialoghi con chi soffre, consapevole che ogni sofferenza racchiude una perla di arricchimento…”. Il lavoro di Testa si snoda all’interno del pensiero junghiano riportando più di duecento citazioni dello psicoanalista svizzero ma mettendole al servizio dei casi clinici seguiti con oltre duemila sogni analizzati. “Hyde park Officina di psicoanalisi potenziale” di Stefano Candellieri e Davide Favero Quali sono le modalità con cui si discute oggi in seduta analitica tra analista e paziente è il focus dell’ultimo intervento da parte di Stefano Candellieri, psichiatra e psicoterapeuta, autore assieme allo psicoanalista Davide Faveri del volume “Hyde Park Officina di psicoanalisi potenziale”. Oggi il paziente racconta cronache quotidiane, riporta le conversazioni virtuali (sms e whatsapp), lapsus, piccoli aneddoti, manifesta disturbi fisici, che diventano il tramite per aprire il sipario della propria rappresentazione psichica. L’analista fa allora uso anche della semiotica. Riflessioni Nel suo manifesto del surrealismo, il poeta francese, scrittore e critico d’arte André Breton affermava: “Il surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme di associazione finora trascurate, sull’onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita.” In queste parole viene sancito il rapporto inscindibile tra arte e inconscio. Nell’estetica surrealista la realtà onirica si fonde all’atto creativo, il confine tra reale e immaginale si sfalda. Possiamo affermare allora che tutti noi quando sogniamo facciamo arte? Ma se invece oggi dimentichiamo o, ancora peggio, trascuriamo le immagini che ci vengono in sogno, come possiamo riscoprire parti di noi stessi? La dimensione onirica viene sempre più relegata a zone d’ombra nella vita del singolo e della società, come dimostrano gli interventi riportati. Se il sogno viene trascurato, il lavoro dello psicoanalista si avvale di un terreno sempre meno fertile e immaginativo su cui piantare i suoi semi e interagire. Del valore dei sogni, Jung ha infatti detto: “Dobbiamo trattarli come un’opera d’arte; non in modo logico e razionale, nel modo cioè in cui si può fare una dichiarazione, ma con un certo ritegno ed una certa delicatezza. È l’arte creativa della natura a creare il sogno e quindi dobbiamo essere alla sua altezza quando tentiamo di interpretarlo.” (C.G. Jung, Analisi dei sogni.(Seminario tenuto nel 1928-30), 1984, Bollati Boringhieri, Torino, 2006)Vita brevis di Jostein Gaarder
Floria Emilia, figura femminile lasciata in ombra dalle fonti storiche, si riprende il suo posto al fianco di un uomo che ha fatto la storia della Chiesa, Sant’Agostino, grazie all’astuzia narrativa di Jostein Gaarder che nel suo “Vita brevis”, pubblicato da Longanesi nel 1998, dibatte ora con pathos, ora con arguta ironia, il tema dell’amore ai tempi del manicheismo.
VITA BREVIS Jostein Gaarder Romanzo Longanesi Collana La Gaja Scienza Traduzione Roberto Bacci 169 pagine Euro 9,66 ISBN 9788830414990 – Anno 1998 “La vita è così breve che non possiamo permetterci di pronunciare una condanna a morte dell’amore. Prima dobbiamo vivere, Aurelio, poi possiamo filosofare.” Ci sono libri che, seppur brevi, non smettono di avere un seguito nella testa del lettore. Sono i libri che, pungolando continuamente l’emotività del lettore, a fine lettura richiedono attimi di raccoglimento per mettere ordine tra i pensieri. È il caso di Vita brevis di Jostein Gaarder, il noto autore norvegese che nel 1995 si è aggiudicato in Italia il Premio Bancarellino con Il mondo di Sofia edito da Longanesi in cui si annuncia l’abile narratore di metaromanzi fantasiosi e avvincenti dalle geniali sovrapposizioni di trame moderne a miti antichi, fiabe e leggende, un metodo ingegnoso per diffondere la cultura classica fra il pubblico, specie fra quello più giovane, e indurlo così a riflettere su universali tematiche esistenziali. Accenni alla trama In Vita brevis, l’espediente letterario utilizzato è il ritrovamento nella primavera del 1995 a Buenos Aires, da parte dello stesso autore, di un manoscritto latino custodito all’interno di una cassetta rossa presso una piccola libreria antiquaria. L’etichetta riporta la scritta il Codex Floriae e si rivela essere una lunga missiva risalente alla fine del IV secolo d.C., la cui autrice è proprio Floria Emilia, la concubina che il vescovo di Ippona, meglio noto come Sant’Agostino, abbandonò dopo aver scelto di vivere in totale astinenza dall’amore sensuale, così come scrive nelle sue Confessioni. Il manoscritto scomparirà misteriosamente quando l’autore deciderà di consegnarlo alla Biblioteca Vaticana. Una storia sconosciuta… “Sentii la tua mano sulla mia spalla, quindi mi attirasti dolcemente a te, sussurrando: «La vita è così breve, Floria!» ” Forse non tutti sanno che, prima di diventare il filosofo, teologo e santo, Aurelio Agostino visse per oltre dieci anni con una prostituta a Cartagine, dove si era recato, all’età di diciassette anni, per prepararsi alla carriera forense. Da questa unione nacque Adeodato, che sua madre fu spinta a lasciare ad Aurelio quando i due amanti, trasferitisi in Italia, si separarono per sempre. Nel suo breve e sferzante romanzo, Jostein Gaarder ritrae la figura di una donna, quasi del tutto sconosciuta alla storia, forte, intelligente e anticonformista per il suo tempo. La lunga lettera è pervasa da una intensa passionalità, che sottende un amore viscerale per la vita, quello di cui solo le donne che hanno saputo prendere in mano la loro vita, dopo essere state tradite e abbandonate, sono capaci. Ma la sfida di Floria è immane, perché deve competere con una forza più grande, che è la Fede.“Confesso soltanto di credere che forse verrà giudicato anche il voltare le spalle a ogni gioia, a tutto il calore e la tenerezza che il vescovo d’Ippona ora rinnega. Tale è la confessione di Floria!” … e di denuncia La lettera di Floria Emilia è dunque la risposta alle Confessioni del suo vecchio amante, la contro-confessione, potremmo affermare, di una donna innamorata, abbandonata per la Fede (o per la codardia di un uomo incapace di scegliere) che confessa, da donna istruita, che il vescovo di Ippona tradisce se stesso negando il suo amore passato, che descrive come il periodo in cui era lontano da Dio. Con la sua scelta, Aurelio avrebbe così soffocato il suo io più autentico, diventando un’ombra di se stesso. Al contrario, Floria rivendica la sua superiorità femminile nel pensare senza filtri religiosi, in nome di una conoscenza più razionale e naturalistica. La sua istruzione non le benda gli occhi, la sua ragione ha la meglio sulla Fede, le permette di dubitare l’esistenza di un Dio, di quel Dio di cui parla il santo nelle sue Confessioni, un giudice restrittivo che uccide i sentimenti umani. “La vita è così breve, Aurelio. Possiamo sperare in una vita dopo questa, ma non ci è permesso di trattare male gli altri e noi stessi, quasi fosse un mezzo per raggiungere un’esistenza di cui non sappiamo nulla. (…) Io mi godo il pensiero che il Dio che ha creato il cielo e la terra sia lo stesso Dio che ha creato anche Venere.” Non frasi taglienti di cui un cuore ferito che medita vendetta è capace, ma crude e sincere parole di una mente intellettualmente sincera sono quelle con cui verga il suo dolore l’autrice della lunga missiva. Attraverso la sua arringa decide di mettere spudoratamente a nudo l’amante passato, denunciando atteggiamenti incoerenti e svelando tratti della sua personalità considerati immorali. Rimproverandolo, la donna vorrebbe salvare Aurelio, liberarlo da quell’accecante bagliore mistico che ha offuscato i suoi sensi e lo accusa di manicheismo. “Sono angosciata, Aurelio. Temo per quello che gli uomini di Chiesa un giorno potranno arrivare a fare con le donne come me. Non solo perché siamo donne: così Dio ci ha creato. Ma perché tentiamo voi che siete uomini: così vi ha creato Dio, per essere uomini. (…) Rabbrividisco, perché temo che arriveranno giorni in cui le donne come me verranno uccise dagli uomini della Chiesa cattolica. E perché mai verranno fatte fuori, misericordioso vescovo? Perché vi rammentano che avete rinnegato la vostra anima e i vostri talenti. E per chi? Oh sì, per un Dio, dite, per colui che ha creato un cielo sopra di voi, e una terra dov’è risaputo che le donne vi mettono al mondo.” Dualismo e simbologia in Vita brevis Nel corso della narrazione emergono una serie di binomi antitetici: Fede e Ragione; Ippona e Cartagine, la città della Chiesa cristiana contro l’antica città in cui Enea incontrò Didone e qui vi morì per la disperazione di un amore tradito, la stessa città in cui Aurelio conobbe Flora e visse con lei il suo peccaminoso concubinato; Floria Emilia contro Monica, la madre possessiva e ambiziosa di Aurelio, e ancora l’terno contrasto Vita-Morte, fino allo scontro tra Aurelio e la Chiesa contro Eva, la donna tentatrice della Bibbia.Titanicamente si eleva a giudice di una femminilità evoluta e, soprattutto, indomita. Dopo aver trascorso anni a studiare, ad approfondire la filosofia a cui era votato il suo vecchio amore, sviluppa una abile dialettica che le consente di tenere una vera e propria arringa contro il comportamento ambiguo e a tratti deprecabile di Aurelio.
Il dibattito dell’eterna lotta tra Fede e Ragione si estende alla dicotomia tra la vita eterna, quale premio di una esistenza vissuta nel controllo delle proprie passioni, e la filosofia del qui e ora di derivazione epicurea. La Fede divina si contrappone dunque al famoso motto “carpe diem” che è qui travisato dalla tradizione cristiana come il trionfo del piacere dei sensi e che l’autrice della lettera intende invece come mortificazione di una vita terrena, che ha ben altro da farsi perdonare che la goduria di un bel canto, o il profumo di un fiore. “Esci, Aurelio! Esci e distenditi sotto un albero di fico. Apri i tuoi sensi, magari per un’ultimissima volta soltanto. Per me, Aurelio, per tutto ciò che un tempo ci siamo dati l’un ‘altra. Inspira profondamente, ascolta il canto degli uccelli, guarda in alto la volta celeste e assapora tutti i profumi. È questo il mondo, Aurelio, ed è qui e ora.” Nella ricorrente simbologia dell’albero di fico è possibile ravvisare invece la dicotomia tra Vita e Morte. È proprio sotto un fico che a Cartagine Aurelio vide per la prima volta Flora e, sempre sotto lo stesso albero, si rincontrarono dopo essersi persi. Il fico è la pianta all’ombra della quale sbocciò e si consumò l’ardente legame tra Enea e Didone, ed è allo stesso tempo l’albero al quale, per la disperazione, si impiccò il discepolo Giuda dopo aver venduto Gesù per quaranta denari. Il legame di Sant’Agostino con sua madre Monica Degna di nota, ma non di certo positiva, è la citazione alla madre di Aurelio, la devota Monica, poi nominata santa. La donna è descritta come un essere possessivo, interessato a far unire in matrimonio suo figlio a una esponente, giovanissima, di un ceto più abbiente. Sarebbe Monica, dunque, dipinta come una donna avida di prestigio e calcolatrice, spingendo il figlio a salire i gradini della carriera ecclesiastica, l’artefice dell’allontanamento fra i due amanti. Tra le righe, l’autore analizza questo legame malsano tra madre e figlio che nelle sue Confessioni rinnega il periodo trascorso con Floria, definendo Adeodato il figlio della colpa, morto prematuramente. Rivolgendosi a Dio, Floria ricorda che Agostino liquiderà così la sua scomparsa nelle Confessioni: “Presto lo hai tolto dalla terra, e sereno è il ricordo che ne ho, tanto più che non ho nulla d temere per la sua infanzia e la sua adolescenza, e nulla affatto per la sua età matura…”. Nessuna complicità si instaura, dunque, fra le due donne e Floria finisce per subire, impotente, per la sua condizione di inferiorità sociale. La rivincita di Floria Emilia Che la lettera protagonista del romanzo sia realmente stata scritta o sia stata mai recapitata al suo mittente, poco importa. Ciò che conta è che la concubina, sconosciuta e indegna di essere citata nelle Confessioni di Sant’Agostino, sia riuscita a riscattarsi, negli anni di lontananza da Aurelio, con lo studio delle scritture classiche, delle teorie di quei testi che il suo amante le citava e che, nella sua agguerrita analisi contro le interpretazioni cristiane, sia in grado, con abile dialettica, di riconsegnarle alla storia nella loro autenticità. L’autore del romanzo redime così la figura di una donna che con la sua cultura, ammirevole dignità e forza d’animo, denuncia le contraddizioni interne a un sistema che fonda(va) il suo potere sull’Amore, ma che di tale da insegnare e da dimostrare ha davvero ben poco.perché in fondo non fu contro di me che ti scagliasti quella volta. Fu contro Eva, misericordioso vescovo, la donna.
Piccolo appunto al traduttore L’uso di alcuni aggettivi, come “fragorosa” e “indelebile”, stride con lo stile convincente e accattivante che contraddistingue l’autore norvegese.“Sentii la tua mano sulla mia spalla, quindi mi attirasti dolcemente a te, sussurrando: «La vita è così breve, Floria!»”
Una donna di Annie Ernaux
Nel tentativo di elaborare il lutto per la perdita della madre, la voce narrante di Una donna di Annie Ernaux, quella dell’autrice stessa, cerca di far emergere dall’involucro dei ricordi la donna reale che sua madre è stata, espellendola dalla sua memoria come una placenta che, fuori dall’utero, palpita di vita propria.
“Per me mia madre è priva di storia. C’è sempre stata. Il primo impulso, parlando di lei, è quello di fissarla in immagini senza alcuna connotazione temporale: “era violenta”, “era una donna che bruciava tutto”, e rievocare alla rinfusa scene in cui era presente. Così facendo ritrovo soltanto la donna del mio immaginario, la stessa che, da qualche giorno, nei miei sogni torna a essere viva, senza un’età precisa, in un’atmosfera di tensione simile a quella dei film dell’orrore.” Uscito in Francia nel 1987 e pubblicato in Italia nel 2018 da L’orma Editore con la traduzione di Lorenzo Flabbi, “Una donna” di Annie Ernaux è un racconto carnale, di lacrime e di sangue. Lacrime di lutti e perdite, sangue di vita che sboccia e vita che sfiorisce. È una narrazione lucida, cruda, sincera, senza orpelli o enfatizzazioni della figura materna, ritratta in tutto il suo realismo, e l’uso di un linguaggio scarno, asciutto, accentua il desiderio di tale mistificazione. Dar voce alle parole Occorre tempo prima di decidere “di scrivere in cima a una pagina bianca”, occorre attendere che il dolore venga diluito, goccia dopo goccia, nel silenzio delle lunghe notti abitate da sogni violenti, che tentano, con i loro artigli nascosti, di squarciare il velo dietro il quale, vanamente, ci si rifugia. Dopo aver compiuto i riti del caso, muovendosi attraverso gesti impersonali, scanditi dall’apparente distacco emotivo alla notizia della morte della madre, finalmente l’autrice impugna con risolutezza la penna e comincia a comporre il vero racconto di questa storia. “Ora mi sembra di scrivere su mia madre per la prima volta, metterla al mondo.” La campagnola inesperta Come in rapidi fotogrammi, i ricordi si rincorrono fra loro e, ripescati da un passato lontano e sconosciuto, da un vecchio scatto in bianco e nero che ritrae i genitori nel giorno del loro matrimonio nel 1928, fanno emergere una figura femminile custode di un sapere che sa di miseria, rinuncia e fatica, devozione religiosa alla famiglia e, al contempo, una lottatrice alla ricerca di un suo posto nel mondo in un momento storico in cui le donne cominciano ad emanciparsi. I rumori dei bombardamenti nei primi anni ’40 si sovrappongono al battito del piccolo cuore di bambina, spaventata, assieme al padre, per l’eventualità di perdere la donna di cui sono entrambi innamorati. La narrazione oscilla così tra il ricordo di buona e cattiva madre, caricandosi di immagini forti e, da un punto di vista stilistico, il ritmo è scandito da frasi lapidarie, scagliate dalla madre dispotica come frecce avvelenate sulla figlia indifesa. Affiorano allora sentimenti ambivalenti verso la figura materna, una donna che si è ribellata alla vita sfuggendo alla povertà, che ha lottato con ostinazione per garantire un futuro di benessere alla figlia. Operaia in giovane età, una volta coniugata gestirà con il marito uno spaccio alimentare con bar annesso rilevato a Lillebonn, nei pressi del paese natio, Ivetot, Normandia. All’assillo di non farcela con le spese, si affianca la potente sensazione di soccorrere le famiglie vendendo a credito, perché l’attività di vendita, per la donna, non consiste solo nel mero scambio di merce-denaro, ma è l’accoglienza dell’altro da ascoltare e con cui parlare. Il doppio volto di una donna Il contrasto fra la sequenza rumorosa dei gesti materni durante le faccende domestiche e lo sguardo vigile e silenzioso della voce narrante bambina, mette in luce l’evoluzione materna che, da campagnola inesperta a venditrice ostinata che “avrebbe venduto anche i sassi” si trasforma in una mamma sguaiata, manesca e volubile, in bilico fra attacchi di rabbia e eccessi di tenerezza. Presa dalla smania di portare avanti la baracca, per la donna il lavoro occupa il primo posto nella scala delle sue priorità che, però, le provoca una lacerante e costante tensione. “Aveva due facce – dichiara sua figlia – una per la clientela e una per noi.” Alacre e, al contempo nevrastenica, la madre descritta anticipa la figura della donna contemporanea che vuole fare tutto: in casa, al lavoro, in famiglia e che finisce col barcamenarsi a fatica per far conciliare ogni aspetto della sua vita. Si trasforma, così, in una sorta di ibrido: donna tenace ma stanca, venale nei commenti sentenziosi: “mi merito proprio di sedermi un po’” o “qui dentro faccio tutto io”, celando il desiderio di avere uno spazio per sé che emerge nel tentativo di acculturarsi attraverso gli studi della figlia e di trattare i libri come reliquie, che tocca solo dopo essersi doverosamente lavata le mani. Agli occhi della figlia adolescente, quella materna finisce col diventare una presenza sempre più appariscente e ingombrante, e nei modi di imporsi e di vestirsi, e nel fisico. La figura si riempie, sia nelle forme morbide che nella sua imperiosità. Il conflitto tra le due si inasprisce sempre più, al punto da instillare nella figlia il malefico pensiero che la morte della madre l’avrebbe lasciata indifferente. Trattenere il ricordo Negli anni della vecchiaia lo spazio che la madre occupa comincia a restringersi. La donna abita in un monolocale buio, in cui c’è spazio per i mobili più indispensabili. Da donna volitiva e socievole, quel che resta sono una rabbia esacerbata e un sospetto insidioso. Adesso, madre e figlia, più vivono lontane e più si ritrovano vicine: la prima, ormai vedova, si ritrae in se stessa, la seconda, che ha messo su famiglia, si separa dal marito. Colpita dall’Azheimer, la madre ormai “demente” comincia a trasformarsi in una donna selvatica, che si muove svestita nella camera di ospedale senza vergogna e mangia con le mani. Pur nella sua ostinazione, la donna si rimpicciolisce agli occhi della figlia, rivelando l’umana natura fragile e, allora, da madre a figlia, da figlia a madre, i ruoli si ribaltano. Ecco che un dolce richiesto con insistenza diventa una coccola, la carezza mancata, la mano tesa a un passo dal precipizio, prima che la storia di due creature unite da un legame indissolubile si perda per sempre. Alla fine del viaggio Quando riceve la notizia della scomparsa di sua madre, la narratrice si sente schiacciata dal peso della responsabilità di quell’abbandono inevitabile, necessario, due anni prima, nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise. Non è facile, a questo punto, guardarsi allo specchio e decidere di attraversarlo, proprio come l’Alice di Lewis Carroll, per dipanare i fili della storia di e con sua madre, per scoprire dove comincia l’una e dove finisce l’altra, attraverso un viaggio circolare, il viaggio perfetto, in cui smarrirsi è facile, ma ritrovarsi è la vera gioia.“Era necessario che mia madre … diventasse storia perché io mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee in cui, secondo i suoi desideri, sono entrata”.
Chi è Annie Ernaux:
Annie Ernaux è nata in Francia il 1° settembre del 1940 a Lillebonne in Normandia. Dopo la laurea, insegna lettere moderne in un liceo e collabora come articolista per Le Monde. Nel 1974 pubblica il suo primo romanzo, Gli armadi vuoti, che tratta del tema del’aborto e della solitudine e fa parte di una trilogia a sfondo autobiografico. Dieci anni dopo ottiene il Premio Renaudot con il romanzo Il posto. Nel 2000 lascia l’insegnamento e pubblica L’evento, al quale seguono altri romanzi, tra i quali i più noti Gli anni, nel 2008, L’altra figlia, nel 2011 e Memoria di ragazza, nel 2016, anno in cui si aggiudica il Premio Strega europeo.La boule de neige- Racconto di Natale
La boule de neige
Domizia Moramarco Visse quella giornata nella certezza che qualcosa di straordinario le sarebbe accaduto. L’ultimo mese dell’anno era da poco iniziato e a Miriam era stato imposto di consumare le settimane di ferie prima dell’arrivo del Natale. Si era dedicata, così, alle faccende domestiche con consueta abitudinarietà, mentre una voce dal profondo le sussurrava che quello sarebbe stato il giorno. La sua vita non era mai stata sconvolta da eventi clamorosi, o forse Miriam evitava di incorrervi, dato che si ostinava a definire la sua esistenza “un mare piatto”, consapevole che sotto quella lastra, indurita e trasparente, si annidava un popolo di creature selvagge, di cui lei aveva paura. Non voleva affacciarsi a guardare, nel timore di venire risucchiata in quel mondo sconosciuto. A volte, in punta di piedi, ne sfiorava la superficie, per poi ritrarsi, rapidamente. Lo aveva fatto anche quando il ragazzo timido dagli occhi verdi della libreria le si era avvicinato, chiedendole di uscire assieme. Si erano visti una sera, lui l’aveva portata al cinema e si erano seduti nelle file più lontane dal grande schermo, in un angolo buio dove potevano contare le ombre davanti a loro, disegnandone i contorni con le dita. All’improvviso, il ragazzo le aveva posato la mano sulla sua. Lei lo aveva lasciato fare, mentre un piccolo pesce rosso si era improvvisamente affacciato dalla lastra, creando una crepa che le aveva fatto sussultare il cuore, come nessuno mai era riuscito fino ad allora. Quando poi, il sospiro del ragazzo si era fatto più intenso e, timidamente, aveva avvicinato le labbra alle sue fino a sfiorarle, Miriam aveva sentito uno schianto profondo su quella lastra e per un attimo le era sembrato di affogare. All’improvviso riemerse, aprì gli occhi e, di fronte a quelli chiusi del ragazzo, capì che non ce l’avrebbe fatta a salvarsi dalla minacciosa marea in arrivo. Così, si era alzata ed era fuggita via, correndo. Non seppe mai se il ragazzo l’avesse rincorsa, o meno. Si era nascosta nella toilette e ne era uscita solo poco prima che il cinema chiudesse i battenti. Non frequentò più l’università, ma si cercò un lavoro su turni, optando per quello notturno. Scomparve, così, alla vista della città. Quando di giorno tutti aprivano le finestre sulla loro vita, lei chiudeva le sue e si rannicchiava nel letto, sprofondando in un sonno infinito. E di notte apriva l’uscio per scappare furtivamente con la sua utilitaria sgangherata verso la fabbrica, a molti chilometri dal paese. Riponendo un tappeto dalla trama pesante sulla lastra sotto di lei, si era congedata per anni dalla vita. Quella mattina, però, qualcosa si stava sgretolando sotto i suoi piedi, lo sentiva. A sera, guidata da un istinto da automa, afferrò dall’armadio il cappotto rosso che non indossava quasi mai e, chiusa la porta alle spalle, cominciò a percorrere il viale alberato che conduceva nel centro storico del paese. Stringendo il bavero sul collo, sfidò la piccola tormenta di neve che si era sollevata improvvisamente. Si smarrì e, colta da un inaspettato tremore, ripercorse un portico che aveva dimenticato esistesse, più e più volte. D’improvviso, una fioca luce zampillò dal vetro di una vetrina. Miriam seguì quella piccola scia luminosa che la chiamava a sé. Giunta dinanzi al negozio, fu accecata da un bagliore improvviso. Coprendosi gli occhi con le mani, avvicinò il naso al vetro e allora la sentì ancora quella vocina profonda che l’aveva assillata per tutto il giorno. “Sono qui – diceva – prendimi”. E Miriam allungò la mano e il vetro si infranse. Il mattino seguente, il corteo di nuvole che avevano offuscato il sole il giorno prima fece spazio a un sole regale che sciolse i rimasugli della neve caduta durante la notte. Era una domenica di dicembre che annunciava l’atmosfera natalizia e i primi acquirenti compulsivi si erano riversati per le vie del centro alla ricerca dei loro doni. Una manina appiccicaticcia batté sul vetro di una vetrina e, lungo il portico, echeggiò una vocina stridente: “L’ho trovato mamma! Il mio regalo di Natale è qui!” La donna che accompagnava la bambina spinse il suo braccio nascosto da un morbido manto di pelliccia verso la vetrina del negozio e esortò la figlia a entrare nel locale. “Posso esservi utile?”, chiese il negoziante con tono gentile. “Vorremmo acquistare una boule de neige” rispose la donna. “Ve ne mostro qualcuna in particolare?” “Sì, mia figlia ha scelto quella lì in alto” e così dicendo indicò la boule de neige posta al centro del robusto scaffale di legno, tra due bambole di porcellana dagli occhi verdi e le labbra dipinte di rosso. Il negoziante si sollevò sulle punte e afferrò il gingillo, smuovendo fiocchi di una sottile polvere glitterata, mentre una fanciulla in miniatura, avvolta nel suo pesante cappotto rosso, rimase a testa in giù per alcuni secondi.Intervista ad Andrea Magno
Dal suo posto comodo Andrea Magno, poeta siciliano, si racconta a Mi libro in volo.
Se ci interroghiamo sul ruolo della poesia oggi, immersi come siamo nella frenesia e frammentarietà della vita quotidiana, ci fermiamo un attimo e … la riposta viene da sé. Cominciare a fare della propria vita meditazione, incursione in se stessi cogliendo il riflesso che la natura fuori rimanda nell’Io più profondo. Oggi di poeti ce ne sono tanti, è tanta la voglia di rintanarsi nel proprio angolo o di salire sul podio per dire la propria. Che sia sussurro o chiasso mediatico, la voce che i poeti danno ai loro pensieri non smette di tacere. È per questo che Mi libro in volo concede spazio a chi scrive versi, la poesia è lo sguardo che l’individuo contemporaneo posa sul mondo per ricordarci la nostra umanità, l’impossibilità di correre senza osservare le impronte che lasciamo dietro di noi. E finché c’è poesia, c’è vita. Oggi diamo il benvenuto ad Andrea Magno. Il suo cuore non ha regole, l’amore brucia come il sale del mare e piange le sue lacrime di pioggia tra gli scogli della colorata, profumata e luminosa Sicilia nella sua ultima silloge poetica “Da qui ho un posto comodo” Chiaredizioni – 2018. E allora, facendolo accomodare nel nostro salotto virtuale dove gli autori si raccontano, chiediamo subito ad Andrea Magno quale posto preferisce per scrivere i suoi versi. “Salve, grazie per l’invito che ho accolto con molto piacere. In genere scrivo seduto alla mia scrivania tra computer, carte e matita. Questa, ovviamente è l’esigenza tecnica; in realtà, porto sempre con me un taccuino su quale annoto parole quando sono colpito da qualcosa che mi ispira, una specie di ‘appunti di viaggio’. Solo successivamente quelle parole si trasformano in versi. Per me la poesia non è improvvisazione, o meglio non è l’immediata trascrizione di ciò che sento. Improvvisa è l‘emozione o la visione che la genera, ma è dopo che descrivo puntigliosamente la sensazione vissuta. D’altronde le emozioni non hanno un posto preferito, tutto accade senza preavviso.” Cosa vuol dire, invece, sentirsi comodi nel mondo, per un poeta, o meglio è possibile esserlo? “Forse sentirsi comodi nel mondo vuol dire avere un posto dove possiamo guardarci intorno e sentirci sempre a casa, ma ciò può accadere solo se riusciamo a guardare dentro di noi sentendoci a casa. Può accadere molte volte, una volta sola, purtroppo a volte non accade mai. Mi è capitato e mi capita spesso in posti che non conoscevo ma anche in posti conosciuti in cui sono tornato. Credo che l’importante sia non abituarsi, guardare con curiosità, prestare attenzione alle persone, alle cose e ai particolari. Accadrà sempre qualcosa o conosceremo qualcuno che si farà apprezzare. È questa consapevolezza, che io chiamo ‘vivere’ e della quale non bisogna fare a meno, a farmi sentire comodo.” Nei tuoi versi predomina una esplicita sensualità, ma il vero scandalo si palesa nel momento in cui la voce che consegna le liriche al pubblico mette a nudo il proprio cuore, come in Parlami sempre sotto vento: “e nella paura delle parole/non più taciute/troviamo il coraggio di amare”. In altri momenti l’amore si rivela uno squarcio nel buio, una ferita che brucia, lacrime che si confondono alla pioggia, una sofferenza, però, di cui non si può fare a meno, perché “nel lento battere/ del cuore/ siamo naufraghi senza pentimento”. Ti chiedo, a questo punto, se per i poeti è davvero così facile spogliarsi delle proprie emozioni. “Credo non ci sia altra strada che mettersi a nudo, pur se è molto complicato farlo. Può sembrare che i poeti abbiano un modo più facile dietro la maschera delle metafore, ma esplicitare le emozioni è un cammino, spesso doloroso, al quale non ci si può sottrarre. Chi scrive deve esser nudo davanti al lettore, che si aspetta la verità dietro la messinscena delle parole. E non potrebbe esser diversamente perché la forza del poeta è quella di invitarci a guardare, a scrutare, a sentire, ciò che talvolta vorremmo evitare di vedere.” Un altro amore viscerale che emerge dalle tue poesie è quello per la tua regione di nascita, la Sicilia. Al proposito Pirandello ha detto: “Io sono nato in Sicilia e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall’aspra terra natia circondata dal mare immenso e geloso.” Anche tu ti definiresti un solitario e in un certo senso ritieni di condividere questo stato d’animo in quanto autore di versi? “In una mia poesia scrivo: “Persone mai (i)sole / un (ab)braccio di mare / unisce in arcipelaghi”. Sta tutta qui la mia visione dell’essere isolano, dell’essere soli in questo mondo che ci circonda che a volte ci abbraccia, altre ci respinge. Siamo solitari in un mondo affollato che spesso non ci riconosce, che a volte non sa che esistiamo, che altre ci illumina con lampi di luce. ‘L’aspra terra natia’ nel tempo diventa un sogno e un desiderio ai quali è impossibile sottrarsi, ‘rimanendo tale’ nell’essenza. Spesso mi accade però di sentirmi ‘isolano’ in certi luoghi, ritrovando quella solitudine e quegli abbracci che ti fanno sentire a casa.” Dinanzi alla bellezza della terra natia “terra arsa colorata dal mandorlo” che tu personifichi in una “danzatrice senza pudore”, si apre il divario ricorrente nei tuoi componimenti fra dolore e amore. La chiusa de La zagara avrà sempre il suo profumo dice: “agguantando/coraggio restò/morendo una volta sola/come chi non ha paura”. Nasce spontaneo pensare alle celebri parole pronunciate da Giovanni Falcone, perciò mi piacerebbe sapere se secondo te vince chi resta o chi va via dal luogo che dà i natali? “Un ricordo vivo, la notizia dell’attentato a Giovanni Falcone, e poco dopo anche quella dell’attentato a Paolo Borsellino, un ricordo di rabbia. Restare o andare via sono facce della stessa medaglia, vittoria dolorosa in entrambi i casi, e anche sconfitta. Credo dipenda da quanta libertà di scelta si ha nell’affrontare un così irrisolvibile dilemma, e da quanta forza ci danno la rabbia, il dolore e l’amore, nello scorrere della nostra vita. O forse, aggiungo e mi fermo, la terra natia è solo una convenzione alla quale ci aggrappiamo per non affrontare quello che non conosciamo, il diverso da noi, mentre in realtà questo dovrebbe essere se non l’unico scopo, quanto meno lo scopo principale della nostra vita, la conoscenza in senso lato, il confronto, un continuo divenire del nostro essere umani e migliori, e questo è possibile solo aprendo la nostra mente a nuovi orizzonti, solo così è possibile conoscere il mondo e riconoscersi nella propria terra che casualmente ci ha accolti, cosa di cui spesso non ci rendiamo conto.” Un tema a te caro, che ha tormentato da sempre poeti e intellettuali, è quello della felicità fugace, che nella sua fragile natura l’uomo cerca spasmodicamente di trattenere. Come cogliere, allora, l’attimo senza soffrire troppo, come affermi tu stesso, “frantumandosi/come bicchiere che cade”? “Trattenere l’attimo è impossibile, riusciamo solo a fissarlo nei ricordi, in una frase, in una poesia, per rivivere quell’emozione. In fondo ci rendiamo conto di essere felici, o meglio di essere stati felici solo quando la felicità è passata, quando l’attimo che è sempre fugace è già sfuggito, “frantumandosi/come bicchiere che cade”. Per questo siamo continuamente alla ricerca della felicità, di quell’attimo che ci illumini e ci permetta di vivere o sopravvivere fino all’attimo successivo di felicità, ovviamente senza sapere quando accadrà. Inseguiamo il tempo che scorre impietoso, ci aggrappiamo a scampoli illusori e a piccole tragedie quotidiane che ci rivelano quanto flebile e vacuo sia quello cui corriamo dietro. Per nostra fortuna c’è una cosa che si chiama ‘speranza’, ecco, forse la felicità è la speranza.” Saluteresti i lettori di Mi libro in volo con qualcuno dei tuoi versi più recenti, accennandoci se in cantiere c’è una prossima pubblicazione? UNA GOCCIA A farci l’amore poi la pelle ti resta addosso, e, nella diafana rabbia di un addio, quel lato della stanza avrà quel colore per sempre. “Chi scrive ha sempre una pubblicazione in cantiere.”“Muoiono i poeti
ma non muore la poesia
perché la poesia
è infinita
come la vita.”
(Aldo Palazzeschi)