Con una narrazione fluida e leggera, nel suo Vivere Volando la giovane autrice Giorgia Righi apre il suo cuore al pubblico rivelando una rara purezza d’animo, inconsapevole che gli aneddoti descritti conducono i lettori in una dimensione di maggiore consapevolezza e gratitudine verso il dono prezioso che è la vita.
È il novembre del 2018 quando in soli due giorni Vivere volando di Giorgia Righi, lanciato in crowdpublishing da Letteratura Alternativa Edizioni, raggiunge l’obiettivo delle 100 copie. A un anno dalla sua pubblicazione si rivela ancora un libro molto apprezzato dal pubblico perché, attraverso la sua lettura, i lettori intraprendono un viaggio sulle ali del tempo per scoprire come la vita ci sorprende ogni volta.
” Io lo sento in me, questo istinto che passa i confini, che sa scoprire un fondo comune delle varie creature in lotta fra loro su tutta la terra. E vorrei parlare di questo fondo comune, con voce sommessa e dolcissima”
(Etty Hillesum)
Può un fiore appena sbocciato resistere a un’improvvisa ondata di gelo? Sotto una violenta tempesta quel fiore può scegliere o di accasciarsi e abbandonarsi lentamente allo sfacelo, o di puntare con forza le sue radici al terreno e trarne il calore necessario per sopravvivere.
Nel suo Diario la scrittrice olandese Etty Hillesum, che accettò con dignità e gioia il suo destino di perseguitata, scrive: “Non sopravvalutare le tue forze interiori” perché è necessario “imparare anche ad accettare l’appassire della natura, senza opporvi resistenza. E sapere che ci sarà sempre una nuova fioritura.”Giorgia Righi ha poco più di vent’anni e, da quando ha nove anni, combatte contro l’atassia di Friedreich, una malattia neurodegenerativa che colpisce il midollo spinale e il cervelletto, causando una progressiva e totale atrofia del corpo, lasciando intatte le capacità cognitive. Così, in un momento in cui dall’infanzia ci si comincia ad affacciare alla pre-adolescenza, Giorgia si è ritrovata a doversi affidare più di tutti a se stessa, alla sua forza e a una inesauribile tenacia, scoprendo il mondo seduta su una sedia a rotelle.
“A cosa servono i piedi se ho ali per volare”
(Frida Khalo)
Il segreto di Giorgia
Giorgia sa come librarsi in volo: sale in groppa a un volatile parlante dalle piume morbide e colorate, di nome Fedo, e attraversa i luoghi dove ha vissuto i momenti più importanti della sua vita per rivivere i sogni e le emozioni che l’hanno segnata. Da Disneyland a Londra ad assistere agli Europei di nuoto, da New York a Vienna, dall’Irlanda a Roma, la narrazione prosegue in un’esplosione di colori ed entusiasmo, di autentica gioia di vivere. E così come ci ha trasmesso Eraclito“non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”, Giorgia fa ritorno in quei luoghi totalmente cambiata. È la vita ad averla cambiata, ad averle regalato le armi più potenti per difendersi dalle avversità: voglia di scoprire, provare e resistere.
Non siamo soli …
In ogni viaggio che Giorgia racconta non manca al suo seguito lo stuolo di parenti premurosi e incoraggianti e gli amici più cari. Giorgia sa che se le difficoltà tentano di sopraffarla, l’amore della sua famiglia la sosterrà, grazie a sorrisi, incoraggiamenti e sorprese inaspettate.
… per continuare a sognare
Dotata di tenacia e ambizione, Giorgia non si arrende mai. Il suo sogno, sin da bambina, è quello di diventare una affermata campionessa di nuoto, ma anche se la vita non le permette di diventare una campionessa di nuoto, lei non abbandona la sua grande passione di vivere in acqua e intraprende un percorso collaterale diventando giudice di gara. In questo modo resta a contatto con l’acqua, per lei fondamentale. Durante il suo primo viaggio a Disneyland, quando ancora non le era stata diagnosticata la patologia, alla domanda dei suoi genitori su cosa le fosse piaciuto più di tutto durante l’avventurosa esperienza, la piccola Giorgia prontamente risponde: “La piscina dell’albergo”. È proprio nel suo primo tuffo, indossando un costume fucsia dopo aver afferrato una tavoletta, che Giorgia scopre la magia dell’acqua. Immergendosi in quella distesa profonda capirà che può esplorare una dimensione lontana da quella terrestre e percepire sensazioni di leggerezza e libertà.
Come una impavida serena, Giorgia si inabissa in fondali oscuri e attraverso quei tuffi inevitabilmente crescerà, lottando contro la patologia che la mette ogni giorno alla prova per riemergere ogni volta vittoriosa.
Giorgia decide che non saranno le cose che non può più fare come un tempo ad abbatterla ma a cogliere il lato positivo anche nella sua nuova condizione. Ecco, ad esempio che la scoperta di poter saltare le interminabili file alla cassa dei luna park rende una fortuna ritrovarsi in sedia a rotelle. Si diploma, così, con il massimo dei voti, affronta le ostiche lezioni di musica che finiranno per rivelarsi un percorso importante per imparare a muoversi nella vita con passo armonioso e deciso, subisce un delicato intervento alla schiena, si sottopone a continue visite mediche dolorose, trascorre ore e ore a praticare faticosi esercizi di fisioterapia, senza mai demordere.
La malattia per lei non è un’ombra minacciosa che la insegue, ma una compagna che le cammina accanto insegnandole importanti lezioni. Giorgia impara a percepire la vita con una sensibilità nuova, più profonda, attraverso uno sguardo penetrante e un ascolto sempre più attento.
“Sono frequenti le occasioni in cui inevitabilmente cadi, senti male, o non riesci a compiere una semplice azionecome togliersi i calzini. Il segreto è fermarsi e studiare con calma ogni singola azione, come ad esempio il modo migliore per rialzarsi da terra, la giusta cosa da fare per alleviare il dolore, oppure lo slancio che devi darti col busto per far arrivare la mano al piede e sfilare il calzino.E non vale solo per una gara, gli esami di pianoforte o una malattia, ma per qualsiasi cosa. Come quando perdi un lavoro e devi preparare un piano d’azione per trovarne uno nuovo, o devi organizzarti lo studio al fine di passare un esame, o per incastrare gli impegni di tutta la famiglia in modo da far filare tutto liscio. È tutta una questione di valutazione.”Vivere la Vita
“…puro come il suo sguardo sull’Aperto./ E dove noi vediam futuro lui vede invece il tutto,/ e in quel tutto se stesso e salvo sempre”.
(R. M. Rilke)
Vivere volando è un inno alla vita, al coraggio, all’amore. Provare tutte le attrazioni, anche le più pericolose, del luna park, inebriarsi davanti a un piatto di salsicce inglesi, ammirare i teatri in cui hanno suonato i musicisti più famosi d’Europa, passeggiare nei giardini di suggestivi castelli e visitare il museo della Guinness in Irlanda, sentirsi rapiti da uno spettacolo di fuochi pirotecnici, sono solo alcune delle emozioni che una piccola donna di fronte all’immensità del mondo che sorvola sa raccontare con una penna leggera, ma dal tratto intenso che si imprime indelebilmente nel cuore del suo pubblico.
Tornando nei luoghi del passato, Giorgia rivede dunque la se stessa che era, riscoprendo, oggi, una nuova Giorgia, più forte, audace e trionfante, perché Giorgia non ha paura della Vita. E noi lettori non possiamo fare altro che applaudire per il coraggio e inchinarci dinanzi a una piccola e forte donna come Giorgia, per la quale nulla diventa impossibile perché lei davvero ci insegna che:
“vola solo chi osa”
L’incipit di Vivere volando:“Non so dove stia andando, nemmeno in che luogo mi trovi ora, ma mi sento leggera e libera come non mi sono mai sentita prima. Volo. E lo faccio da sola perché io ho voluto così, con questo compagno di viaggio insolito di cui mi fido, anche se è un po’strano. Questo volatile dalle piume bianche e qualche sfumatura rossa, così maestoso e candido, dall’apertura alare di due metri, mi ospita sulla sua groppa.”Chi è Giorgia Righi:
Giorgia Righi, classe 1998, è nata il 16 giugno a Urbino e vive a Gallo di Petriano (Pesaro-Urbino). È una ragazza piena di sogni e, spinta da una inarrestabile curiosità, grazie alla sua inesauribile forza di volontà, nuota, è Ufficiale di Gara Fin, studia per via telematica scienze motorie, viaggia continuamente e ama gli sport … anche quelli estremi: si è lanciata con il paracadute da oltre 4.200 metri! “Fai della tua vita uno spettacolo” è il motto che ha scelto per il suo blog overlimit.
Mini-intervista all’autrice:Cosa ha significato per te scrivere Vivere volando?
“Vivere volando per me è stato un grande lavoro, mettermi a nudo. Ho raccontato delle mete visitate perché adoro viaggiare e poter raccontare ciò che i miei occhi hanno visto. Per far questo mi sono servita di una grossa scatola dove conservo biglietti aerei e cartine dei vari viaggi, che mi hanno aiutata a ricordare nello specifico. È stato un viaggio nel passato che ha rievocato luoghi ed emozioni vissute. Parlo delle persone che sono al mio fianco, di cui Fedo è la colonna portante. Ho voluto dire che per me sono fondamentali, una squadra dove ognuno conta. Con la mia esperienza, intervallata da aneddoti sulla convivenza con la malattia, Spero di poter essere di ispirazione a qualcuno, con disabilità o meno. Il mondo è un posto bellissimo; uscire di casa, sperimentare cose nuove, capire gli altri e sognare. è il senso della vita.
C’è un libro che ti fatto letteralmente volare?
“Coraline è stato il libro che mi ha fatta volare. Prima di allora odiavo la lettura perché la maestra ci obbligava a leggere un libro ogni due settimane per poi farne un riassunto. Questa cosa già da piccola mi stava stretta, volevo essere io a scegliere. A undici anni un mio amico mi ha insegnato ad entrare in libreria, annusare l’odore della carta e lasciarmi attrarre dallo scaffale che più mi piaceva. Questo libro, che mi ha trascinata nel magnifico mondo della fantasia, mi ha insegnato dal principio che la prospettiva è essenziale, perché una cosa che all’inizio Può risultare piccola nasconde un mondo al suo interno. E’ ciò che cerco di mettere in pratica nella realtà: una cosa che a tutti può sembrare scontata come quella di camminare vista con i miei occhi può essere irraggiungibile e molto preziosa. Una cosa che risulta logica come vedere tramonto nel tardo pomeriggio può risultare inimmaginabile per un non-vedente. Leggere queste parole non è concepibile per un bambino africano che non ha a disposizione strumenti tecnologici e un’adeguata connessione. Teniamoci stretto ciò che abbiamo e ammiriamolo con sguardo meravigliato.”
Ali, sogno e amicizia. Comporresti una frase per i lettori di Mi libro in volo con queste tre parole?
“Perché i sogni si avverino gli amici devono essere le nostre ali. Da soli non siamo nessuno, abbiamo sempre bisogno di persone che ci sostengano ed incoraggino. Come in una partita di rugby, dove non potremmo arrivare alla meta se non ci fossero i nostri compagni di squadra a bloccare gli avversari. Incontreremo tanti ostacoli, persone che ci diranno di lasciar perdere, che lo stiamo facendo nel modo sbagliato o che il sogno è troppo grande per noi. Gli amici saranno sempre lì, pronti ad andare contro a queste persone e far risultare il nostro sogno più vicino e concreto.”
Grazie Giorgia per questa importante lezione di Vita!
Un’avventura inaspettata, ricca di emozioni e soddisfazioni, il Bookcity 2019 di Mi libro in volo.
Chi segue il blog sa bene che è soltanto da questa primavera che questo angolo virtuale di libri per lettori appassionati è stato aperto. Pochi mesi durante i quali autori mi hanno contattata per richiedere recensioni ai loro libri o interviste, i lettori più attenti mi hanno inviato richieste di approfondimenti che ho accolto con piacere ed entusiamo (leggi l’articolo Stella Raphael scrive ai suoi lettori) e, in una lunga notte estiva di improvvisa ispirazione, è nata la rubrica delle Recensioni animate (leggi i pezzi Afrodite nel salotto di Anima e Sulle tracce di Emma Jung). Il bilancio, tutto sommato, è molto positivo, specie se si aggiungono gli ultimi due giorni appena trascorsi al Bookcity di Milano che mi hanno visto partecipare sia in veste di presentatrice che di blogger.
Ho avuto il piacere di essere invitata come moderatrice per la presentazione del romanzo L’ombra del vero di Carla Magnani in occasione dell’incontro dal titolo “Il gioco della vita” organizzato dalla Casa Editrice Le Mezzelane che si è svolto presso l’accogliente e innovativo bar “Portineria 14” e ho partecipato alla presentazione del romanzo L’inverno di Giona di Filippo Tapparelli edito da Mondadori presso la Libreria Rizzoli – Galleria Vittorio Emanuele. A moderare l’incontro la sagace Stefania Auci, autrice del romanzo storico I leoni di Sicilia che negli ultimi mesi ha scalato le classifiche rivelandosi un vero caso letterario.
Entrambi gli eventi hanno aggiunto una marcia in più alla voglia di intensificare questo mio impegno nel mondo dei libri che, chi mi conosce bene, sa quanto io consideri indispensabili per accrescere sensibilità e per superare i momenti difficili della vita. I libri ci parlano, sono amici fedeli in attesa di essere presi per mano ed essere condotti in nuovi viaggi dentro noi stessi dalle straordinarie scoperte, che il più delle volte cambiano il nostro cammino per sempre.
L’ombra del vero e L’inverno di Giona sono due libri che invito a leggere proprio perchè inducono a una profonda riflessione, l’uno sull’importanza di riuscire a vivere il presente intensamente, l’altro per fermarsi ad ascoltare la voce interiore che ci parla da un lontano passato, spesso doloroso da affrontare, un percorso indispensabile per guarire se stessi e trovare nuove dimensioni.
Non mi resta che augurarvi di portare con voi sempre un buon libro e di seguire Mi libro in volo interagendo appassionatamente.
Tessendo la trama intorno a vicende dalle atmosfere oniriche e perturbanti, dove i principi di bene e male ora si capovolgono, ora si intrecciano fra loro, Filippo Tapparelli, vincitore del Premio Calvino – edizione 2018, crea una rete di trappole che avvinghiano il lettore in un incessante stato di suspense, segnando un potente esordio nel panorama della narrativa contemporanea.
L’INVERNO DI GIONA
Filippo Tapparelli
Romanzo
Mondadori
Euro 17,00
ISBN 788804708070 – Anno 2019
Come ci insegna Dostoevskji, attento esploratore della psiche umana, secondo lui divisa fra la polarità luce e ombra, l’uomo è creatura tendente sia al bene che al male e il punto di incontro fra le due polarità converge nella capacità di scegliere, nel libero arbitrio. Ed è proprio questa, la libertà, un’arma tagliente, giunta troppo presto fra le sue mani di bambino per Giona, che egli maneggia pericolosamente contro se stesso. Sulla vita di Giona, quattordicenne che vive in un villaggio di montagna senza nome con un nonno rigido e manesco, Alvise, cala un sipario di tenebre dietro il quale il personaggio sceglie di nascondersi.
Nelle sue “Memorie dal sottosuolo” il grande scrittore russo afferma: «Amare significa per me tiranneggiare e dominare moralmente. Durante tutta la mia vita non sono riuscito a rappresentarmi un altro amore, anzi qualche volta sono arrivato al punto di pensare che l’amore non consista in altro che nel diritto, liberalmente accordato dall’essere amato a colui che ama, di tiranneggiarlo. Nelle mie fantasticherie di sottosuolo io non immaginavo l’amore se non come una lotta: lo cominciavo sempre con l’odio e lo finivo con l’assoggettamento morale», parole emblematiche che il giovane protagonista de “L’inverno di Giona” edito da Mondadori sembra imporre a se stesso come colpi di frusta, per punirsi e perdonarsi, perversamente, allo stesso tempo.
Rinchiuso in un abisso di visioni sbiadite e violente allucinazioni, Giona condanna se stesso, infliggendosi la pena delle percosse da parte di Alvise, il nonno severo e manesco che lo ha accolto in una dimora buia e dalle fredde pareti. La voce che Giona sente e con la quale dialoga continuamente è la coscienza interiore che si aggira nel dedalo dei suoi pensieri asfissianti: paura, violenza, dolore. La figura di Alvise si erge monolitica nella sua dura severità, al lettore incomprensibile. La persecuzione sia psichica che fisica che egli impone a Giona appare terrificante, inspiegabile nella prima parte del romanzo, caratterizzata da descrizioni evocative che rendono tangibile l’atmosfera claustrofobica e perversa del paesaggio dove i personaggi si muovono, un villaggio di montagna avvolto dalla nebbia in cui tutti gli abitanti temono Alvise. Il dolore distrugge Giona, che pian piano impara a non sentirlo più. Le ferite inferte dal crudele nonno bruciano ma non lo piegano, bensì lo ripiegano ciclicamente su se stesso.
«La sapienza, Giona, si acquisisce attraverso la sofferenza. (…) Con il dolore, Giona. Solo con il dolore si impara», così ammonisce Alvise il giovane Giona, il quale lo presenta con queste parole:
«Non ho mai visto sorridere Alvise. Secondo me non ne è capace. In lui tutto è schema, precisione, definizione. Ogni suo gesto è misurato, identico allo stesso che ha usto in precedenza per compiere quella funzione. Parlare, guardare. Intrecciare cesti, tagliare, mangiare. Alzarsi e sedersi. Picchiarmi (…) Non c’è anima in quegli occhi. Non c’è rabbia né odio. Gli sono utili solo per vedere, nulla di più.»
Una drammatica sofferenza
Tutto il dolore trattenuto negli anni esplode improvvisamente quando lontani ricordi cominciano a sovrapporsi all’immagine del logoro maglione rosso di lana e ai frammenti di una vecchia fotografia: Luca è un bambino che si smarrisce nel bosco e perde di vista i suoi genitori, un uomo dal fisico possente lo afferra e lo porta con sé. Giona cade allora in un lungo sonno, un inverno freddo e terrificante, dominato dalla figura di Alvise, dal quale una notte decide di fuggire. Rinchiuso nella chiesa del villaggio, dove la figura impaurita della perpetua lo accoglie con benevolenza, il ragazzo sarà vittima di lunghe allucinazioni, costringendo il lettore a domandarsi incessantemente dove sta il bene e dove il male.
I personaggi de “L’inverno di Giona”
Ruotano, attorno alla storia del protagonista, una serie di figure ambigue, quasi ombre astratte, dalla coppia di coniugi rinchiusi nel perfido dolore nei confronti della figlia ribelle Lucia, fuggita dal villaggio, alla piccola Nerina che compare improvvisamente accanto al suo gatto nero, con parole di sibillina saggezza. Essi appaiono di soppiatto, comparse teatrali che contribuiscono ad accentuare l’atmosfera sempre più onirica e visionaria che coinvolge il lettore nella prima parte del romanzo.
Fra menzogna e verità«Il timore e la resistenza che ogni uomo naturale prova quando scava troppo a fondo in sé stesso, sono in ultima analisi la paura del viaggio nell’Ade. Se si provasse soltanto resistenza, la cosa non sarebbe così grave. In realtà però da quello sfondo psichico, dunque proprio da quello spazio oscuro, ignoto, emana un’attrazione, una fascinazione, che minaccia di diventare tanto più travolgente quanto più a fondo si penetra.» (“Psicologia e alchimia”-Carl Gustav Jung)
Giona si sdoppia, da innocente bambino a sicario esecutore della propria decadenza morale, un peso troppo grande da sopportare. Se in un primo momento il lettore si sente infastidito dall’atteggiamento passivo di Giona, pian piano comincia a nutrire compassione verso di lui. Ed è in questo che l’autore rivela una matura abilità narrativa, nel suscitare cioè reazioni forti con la costruzione di personaggi che sono vere e proprie rappresentazioni di idee che sveleranno il loro significato nascosto nella seconda parte del romanzo. Oscillando nell’ambiguità, il lettore si domanda, assillandosi al pari del protagonista, dove sta la colpa di Giona che sceglie così drasticamente il suo destino. Un fato negativo e pesante è stato “donato” a Giona e quel castigo interiore che egli impone a se stesso, lo condurrà o no a una redenzione? La risposta è nel patto segreto che l’autore sceglie abilmente di suggellare con il suo lettore.
Nella punizione che Giona impone a se stesso, si ravvisa dunque la traccia di bene della sua drammatica scelta. Alvise personifica il male, il boia persecutore che con le sue percosse violenta l’anima innocente di Giona, una pena che a lungo andare si rivelerà un fardello di cui liberarsi. Con l’impeto di violenta ribellione del protagonista, la narrazione prende una nuova piega. Cosa vorrà dire Norina con le sue parole quando Giona si scontra con Alvise sotto il boato della montagna che si squarcia introno a loro?
«Ti sta chiedendo di finirlo, Giona. Perché oggi è il giorno della morte (…) Ti sta chiedendo di essere tu, adesso, il vecchio del paese. Ti sta chiedendo di portarlo al crepaccio e di aggiustare ciò che è stato rotto. Ti sta chiedendo di farlo con le sue ossa e con il suo corpo.»
La scelta
Negando il male commesso dal reale artefice della colpa che aleggia kafkianamente come un’ombra/assenza perpetua per tutta la trama, Giona fa una scelta nietzschiana da Superuomo che lo porta all’autoannientamento. Nella costruzione della figura di Alvise si ravvisa difatti la padronanza tecnica e stilistica dell’autore: il personaggio, costruito magistralmente, si impone da subito come un’ombra malefica che perseguita il Giona vittima. Alvise lo rincorre, lo percuote, ma questa violenza rivela una forte ambiguità: Alvise intende forse preservare Giona dal peso della verità, una verità che lo farebbe precipitare in un abisso da cui rischierebbe di non risalire più. E invece Giona compie la sua scelta: si oppone a una autorità superiore (interiore) e allora la realtà finalmente si squarcia, rivelandosi per quella che è. L’autore sovrappone a questo punto due piani narrativi: onirico e reale, con un cambio di registro stilistico, da evocativo a esistenzialista-psicologico, che mescola nuovamente le carte in tavola della trama. Giona, riemergendo in superficie liberatosi dal ventre della balena, fuori di metafora dalla sua dimora mentale passata, si ridesta dal suo sonno, pronto a segnare una nuova tappa dell’intricato percorso che potrebbe condurlo alla verità.
Ma in fondo, dove sta la Verità? Oscillando fra senso di colpa, sentimenti ambigui verso l’autorità genitoriale, fra realtà e immaginazione, il lettore varcherà la cortina di nebbia fitta che avvolge la trama, avvicinandosi (finalmente) a una possibile interpretazione, libero da una lunga e perversa, magistrale trappola narrativa.
«La realtà è migliore della malattia, dottore? E cos’è la pazzia, se non aver guardato in faccia la realtà senza mentirsi? Non ci sono cose più fragili della verità. Per questo motivo va detta a bassa voce. Le parole si sporcano e la confondono, non sanno riportarla in modo fedele. La verità è fatta di silenzio. Un silenzio che riesce a rendere sordo il mondo, quando ciò che cela è troppo grande per essere compreso.»
Chi è Filippo Tapparelli
Nato a Verona nel 1974, Filippo Tapparelli lavora in un’azienda veronese. In passato è stato istruttore di scherma, pilota di parapendio e artista di strada. Ha studiato letteratura inglese e russa all’università. L’inverno di Giona è il suo primo romanzo, con il quale si è aggiudicato il Premio Calvino 2018.
Come si insegna a una donna a bastare a se stessa? A non sentirsi sempre e solo alle dipendenze di altro da sé, che sia un marito o una ossessiva infatuazione? Forse nessuno ci ha mai pensato seriamente. È stato facile, nei secoli, puntare il dito contro le donne considerate ribelli. Forse non c’era nessuno capace di guidarle per una via meno impervia e solitaria, quale è stato l’annientamento verso se stesse percorrendo la strada dell’adulterio. Private della libertà di scelta, hanno frainteso il senso dell’emancipazione, riducendola a mera fuga da una realtà insoddisfacente. Il pezzo che segue vuole essere una riflessione su come l’argomento è stato affrontato nella letteratura, partendo da una lettura animata del romanzo “Follia” di Patrick Mc Grath.
La trama del libro:
«Le storie d’amore contraddistinte da ossessione sessuale sono un mio interesse professionale ormai da molti anni». Inghilterra, 1959. Dall’interno di un tetro manicomio criminale vittoriano uno psichiatra comincia a esporre, con apparente distacco, il caso clinico più perturbante che abbia incontrato nella sua carriera – la passione letale fra Stella Raphael, moglie di un altro psichiatra dell’ospedale, e Edgar Stark, un artista detenuto per un uxoricidio particolarmente efferato. È una vicenda cupa e tormentosa, che fin dalle prime righe esercita su di noi una malìa talmente forte da risultare quasi incomprensibile – finché lentamente non ne emergono le ragioni nascoste. Il fatto è che in questo straordinario romanzo neogotico McGrath ci scalza dalla posizione abituale, e confortevole, di lettori, chiedendoci di adottare il punto di vista molto più scabroso di chi conduce una forma singolarmente perversa di indagine: il lavoro analitico. Eppure qualcosa, forse una tensione che a poco a poco diventa insopportabile, ci avverte che i conti non tornano, e che l’inevitabile, scandalosa e beffarda verità sarà molto diversa da quella che eravamo stati costretti a immaginare.
FOLLIA
Patrick McGrath
Romanzo
Adelphi
Euro 12,00
ISBN 9788845913600– Anno 1998
“Le donne romantiche, riflettei. Non pensano mai al male che fanno in quella loro forsennata ricerca di esperienze forti. In quella loro infatuazione per la libertà.”
Nel suo scandaloso romanzo, “L’amante di Lady Chatterley”, D. H. Lawrence ha scritto: “Forse l’animo umano ha bisogno di escursioni, e non si deve negargliele. Ma la caratteristica dell’escursione è che si ritorna sempre a casa.”
Ma io casa mia non ho mai saputo dove fosse. Coltivavo un giardino, sporcandomi le mani di terra e scorticandomi la pelle per sentire la natura pulsare attraverso le mie ferite. Lasciavo che tutti mi conducessero a casa, la loro, ma la strada per la mia, forse, non l’ho mai saputa cercare veramente…
Mi chiamo Stella Raphel, che voi conoscete come adultera folle, nata dall’ambigua voce che ha narrato la mia storia, che con questa lettera desidero assolvere agli occhi di voi lettori, i quali mi avete di sicuro condannata, come è accaduto ad altre eroine vittime della superbia maschilista e moralista del XIX secolo, ne sono certa. Vi racconterò di loro e di me, che a un certo punto ho smesso di fare quello che si aspettavano tutti che facessi. Moglie accondiscendente e compagna solidale, madre premurosa, borghese servizievole, a un certo punto Stella ha sentito implodere con violenza il latrato della bestia dentro sé, stanca di essere domata e ammaestrata, in un impeto incontrollabile. Stella, per la prima volta, ha messo se stessa al primo posto, scegliendo, forse, il posto sbagliato. Il soprammobile impolverato, di fragile porcellana, si è infranto al suolo della realtà e tra i frammenti la luce ha rimandato un torbido riflesso che ha oscurato la verità.
Dove sta la verità, in fondo, nella vita di una donna che non ha voce nella storia, se non quella narrata da autori che si sono vantati di essere quelle donne, cercando di entrare nel loro mondo e dandone risposte soddisfacenti? Emma, Nora, Anna, Connie, Kitty, Elena, Ester, Francesca da Rimini, Ginevra, Margherita … tutte condannate! Anime possedute, degne di meritarsi la condanna di un Inferno che nessuno sa, in realtà, cos’è. Scendere negli abissi di un cuore fiacco, che batte solo perché deve, è impresa di pochi coraggiosi. Quale uomo sa veramente cosa si agita nell’animo di una naufraga smarrita che vorrebbe tornare a riva, nella consapevolezza che solo lasciandosi andare alla corrente più impetuosa può salvarsi? Forse cerca una ancora di salvezza, che tenta disperatamente di afferrare ma che non sa se sia veramente l’arma giusta da impugnare. Affidarsi alle braccia di un uomo per il salvataggio è l’ennesima punizione che si affligge. Non bastare mai a se stessa, è questa la perversa condanna che si impone, nei secoli dei secoli, romanzo dopo romanzo.
“Se ci pensi, quand’è che cominciamo a fare delle distinzioni tra quel che è giusto e quel che è sbagliato? Quando qualcosa ci ferisce o minaccia di farlo”
Quando ho visto Edgar per la prima volta, qualcosa ha ripreso a muoversi dentro me, è stata la miracolosa risurrezione di un animo spento. Edgar dallo sguardo perso, ambiguo fino alla ferocia, che si posa sulla mia scollatura, ma che sento non vuole fermarsi a quello, bensì penetrare il mio petto e scorgere quello che c’è scritto nel mio cuore. Amare, volevo amare, sinceramente e con tutta me stessa, con i sensi padroni delle azioni, quella che tutti intorno a me hanno voluto far credere una ossessione, la follia! Ma cosa è amare, se non volersi perdere?
“Era come se lo sentisse al suo fianco, sempre. Aveva imparato a fidarsi di lui. Senza una ragione al mondo, ovviamente, o forse proprio per questo, sì, perché si stava convincendo che la fiducia, e la speranza e l’amore sono tali in quanto nascono e crescono a dispetto della ragione.”
Mentre le mani di Edgar scoprivano il mio corpo, entrando in tutte le porte della mia anima, io mi lasciavo denudare. I vestiti al suolo e le difese finalmente libere di andare, come i prigionieri di quella clinica crudele in cui le pareti dei corridoi echeggiano di urla disumane. Dove sta la follia, nello smarrimento o nel voler tenere strette le catene delle pulsioni primordiali? Mani serrate che non possono più modellare la propria vita, bocche cucite che si dissanguano nelle grida strozzate, piedi malfermi che lasciano umide impronte che nessuno mai rintraccerà.
Si può impazzire anche in un castello, fra abiti sontuosi e cerimonie sfarzose. Senza sogni le principesse muoiono, senza una mano tesa che asciuga la lacrima nascosta al mondo, le principesse violentano la propria anima.
Io ho fatto questo. Ho ucciso me stessa, incapace di identificarmi in una luce che il mio nome ironicamente voleva mostrare a tutti. La luce, oscurata da un’ombra che si è estesa sulle esistenze delle persone a me più care, non è mai riuscita a riflettere la vera me.
Emma Bovary, la giovane moglie di provincia insoddisfatta, il cui futuro, dice l’autore che racconta di lei “ era un corridoio oscuro e la porta in fondo era sbarrata.”, e con lei le regine Elena e Ginevra, avevano solo le loro armi seduttive per evadere, ma la donna che induce alla tentazione è una peccatrice sommersa dalle pietre scagliate dai conformisti farisei. Connie ha fatto del piacere la sua meta di vita, trattenendo fra le sue gambe l’amante selvaggio. Ester cercava una anima che la purificasse, che la liberasse da una vita claustrofobica, Francesca la simbiosi assoluta, voleva essere un corpo solo con il suo amato, Margherita si è lanciata dai tetti della sua ebbrezza, cercando nel Maestro la liberazione; Anna, smarrita nella sua lucida libido, Nora coraggiosa bambola che abbandona la sua gabbia dorata e io …. io che non sono bastata a me stessa, ho cercato di salvare una altra anima smarrita, un artista, perché solo un uomo tormentato avrebbe potuto soddisfare la mia smania di vivere.
“In apparenza Edgar era un uomo sicuro di sè, della sua forza, della sua virilità, eppure sospettavo che in lui ci fosse un profondo e infantile desiderio di sublimare, e idealizzare, l’oggetto d’amore. Succede abbastanza spesso, agli artisti, e credo dipenda dalla natura stessa del loro lavoro.”
La pelle morbida delle mie mani di borghese sulla vernice scrostata del sottoscala lugubre che mi conduceva di soppiatto dal mio folle amante, il gin scadente che scorreva nella mia gola incendiandola, il mio corpo abbandonato sul lurido materasso di un quartiere nascosto e malfamato di Londra, mi facevano sentire viva per la prima volta! Libera da ogni limite, regola e copione da seguire. Ma in fondo non ho fatto altro che fuggire da una gabbia a un’altra… E per me, nel racconto della mia storia, hanno parlato le azioni, solo azioni da condannare. Non un cenno al colore dei miei capelli o dei miei occhi. Si è detto delle mie forme sinuose, ma non del colore dei miei occhi, del resto è davvero capace un uomo di scorgere cosa si nasconde dietro gli occhi di una donna? Quegli occhi apparentemente aperti, bendati già da tempo.
In fondo, la stessa Anna Karenina “Socchiudeva gli occhi, proprio quando si trattava delle questioni intime della sua vita. Proprio come se li socchiudesse dinanzi alla sua vita, per non vedere tutto”.
Nella sua cronaca si dice: “Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è composta d’ombra e di luce.”
E allora perché sulle nostre storie sono state gettate solo ombre? Dov’è la luce che brillava nelle nostre azioni? Vi hanno fatto credere che non vi fosse un barlume di speranza, non uno spiraglio di salvezza nelle nostre impetuose e sconsiderate scelte. La passione ci ha bruciate e ridotte in cenere. La voglia di scoprire cosa veramente la vita volesse da noi ci ha tradite. La nostra audacia si è rivelata la nostra più grande condanna. Siamo state tutte portate al rogo che abbiamo affrontato dignitosamente, nella speranza di rinascere, un giorno, nelle nuove donne come fenici, fiere e libere di volare. Purtroppo le cronache raccontano ancora fatti desolanti e noi restiamo ancora intrappolate in un limbo solitario, dove giungono disdicevoli giudizi sul genere femminile.
Mi tornano ancora in mente le parole del già citato David Herbert Lawrence, tratte sempre dal suo capolavoro tanto discusso “Quando l’anima emotiva riceve un colpo violento, che non uccide il corpo, l’anima sembra guarire insieme al corpo. Ma è solo apparenza. Si tratta solo del meccanismo dell’abitudine, che riprende a funzionare. Lentamente, lentamente la ferita dell’anima comincia a farsi sentire, come un’abrasione che solo con lentezza spande il suo dolore lancinante, finché non riempie tutta la psiche. E quando cominciamo a credere di essere guariti e avere dimenticato, proprio allora si va incontro alle terribili ripercussioni.”
Il genere umano sembra volersi crogiolare nei suoi sintomi nevrotici, nelle rimozioni che la Storia rimanda loro, proprio come in un labirinto di specchi da cui non si riesce mai ad uscire. Ci si accontenta di una apparente realtà, vivendo come bestie impazzite in un recinto chiuso a chiave.
Freud e molti successivi esploratori della psiche dopo di lui non hanno avuto parole meno buone degli autori citati verso i nostri comportamenti. Ci hanno considerate esseri multiformi e incomprensibili, un oscuro buco nero, sottomesse a sintomi di degenerazione. E così, i protagonisti maschili che ruotano intorno alla mia storia si sono illusi anch’essi di indagarmi, frugarmi dentro, portando alla luce una immagine di donna malata, vittima delle sue passioni. Eccoci, noi donne alla ricerca di noi stesse ridotte a bestie in balia delle pulsioni più primordiali. In realtà siamo state vittime di una energia inesplosa che, a differenza degli uomini, non sempre siamo riuscite a mettere a servizio della società, e così è stato più facile rinchiuderci. Non è buffo che mio marito fosse uno psichiatra? La paziente più meritevole di cure e attenzioni era proprio sua moglie, sotto i suoi occhi, nella sua casa, quotidianamente. E invece lui si limitava a chiederle di obbedirle come un cucciolo di cane da ammonire se scodinzolava troppo, una creatura mite da addomesticare, considerando quella docilità, proprio come Flaubert, vile, “che per molte donne è come il castigo e insieme il riscatto dell’adulterio.” Anche Dostoevskij ha definito “La mite” la protagonista di un suo brevissimo e fantasioso racconto, come lo ha considerato egli stesso. Nella storia, i due protagonisti, marito e moglie, si ingabbiano in un perverso gioco di silenzi, poi, dinanzi al corpo esanime della donna suicida sul lungo tavolo della sua abitazione, l’uomo fa ammenda ai suoi lettori, oscillando tra colpa e vittimismo. Lui, uomo maturo che salva dal fango la sedicenne orfanella mortificata dalla vita, cerca il risarcimento sociale, la gratificazione narcisistica attraverso il potere sulla giovane moglie, perché “E la donna che ama, oh, la donna che ama giustificherà persino i vizi, perfino i delitti dell’essere amato.” Ecco che il silenzio diventa l’arma per sottrarsi alla consorte, sottomettendola. Lo ha fatto anche mio marito Max, vittima anche lui, alla fine, di un gioco di specchi perverso e deformante, che a un certo punto della storia si è chiesto se non fosse colpa sua, ma questo pensiero lo ha solo sfiorato ed è scivolato lungo le sue spalle ricurve di padre disperato, che ha vomitato la sua ira nelle feroci parole a cui mi ha condannato:
“L’unica cosa che proverai sarà una tristezza mortale, e quella tristezza non ti abbandonerà più per il resto dei tuoi giorni.”
Nel mio viaggio verso l’annientamento finale, prigioniera dell’insalubre alcova della clinica, il viso contro il muro freddo e scrostato di quella prigione di anime, le ho incontrate le mie compagne. Emma che “Era convinta che l’amore dovesse arrivare di colpo, accompagnato da luci e fragori, simile a un uragano celeste che piomba sulla vita, la sconvolge, travolgendo la volontà come foglie secche, e trascina ogni sentimento nell’abisso. Non sapeva che la pioggia a goccia a goccia crea laghetti sulle terrazze delle case, quando le grondaie sono otturate, e avrebbe continuato a credersi al sicuro se d’improvviso non avesse scoperto una falla nelle sue difese”, Ester che ricordando i suoi momenti più folli “Ridiventava giovane e bella, donna soprattutto, quale era stata in un passato che si crede irrevocabile, come per miracolo.” Se la donna è tutta tenerezza, muore. Se sopravvive, la tenerezza o le viene scostata di dosso oppure – e l’effetto all’esterno è lo stesso – le si incrosta così profondamente dentro il cuore che non si lascerà mai più vedere.” Elena che incolpa Afrodite della sua più grande maledizione: essere bella, smarrita nella ricerca di una bellezza che non sa vedere in lei.
Nora che dialoga con Helmer, pungolandolo durante il loro scontro verbale:
“Quali sarebbero, secondo te, i miei più sacri doveri?” “C’è bisogno di dirlo? O non son forse quelli che hai verso tuo marito e i tuoi figli?”“Io ho altri doveri non meno sacri.”“Niente affatto! E quali sarebbero, sentiamo?”“I doveri verso me stessa.”
Ma Edgar era la mia ossessione, tornavo da lui, con il pensiero, con i miei sensi, anche nei momenti in cui la vita mi stava scivolando di mano, giorno dopo giorno, davanti a occhi incapaci ormai di distinguere le luci dalle ombre più oscure e minacciose.
“Era come se lo sentisse al suo fianco, sempre. Aveva imparato a fidarsi di lui. Senza una ragione al mondo, ovviamente, o forse proprio per questo, sì, perché si stava convincendo che la fiducia, e la speranza e l’amore sono tali in quanto nascono e crescono a dispetto della ragione.”
Lontana da lui ero una fragile vela, in balia dell’alta marea, così come ero in balia degli uomini intorno a me che sceglievano la mia sorte.
“Si sentiva come una partita di femminilità danneggiata, ma tutto sommato riutilizzabile, che passava dal vecchio proprietario al nuovo dopo essere stata messa per qualche tempo in magazzino.”
E allora non ce l’ho fatta più e alla fine non ho accettato che un altro uomo mi facesse sua prigioniera. Ma dove sarei mai andata, dopo aver diseredato i miei affetti, aver ucciso il sangue del mio sangue? La libertà nella mia dipartita dal mondo, in un sonno profondo che si prende beffa degli accusatori mendaci che osservano con sollievo il mio involucro di larva di donna, spenta per sempre.
Peter, il traghettatore di anime perse che mi ha preso in cura manipolando pensieri e parole, si era illuso di capire, dietro il suo perfido tranello, cosa cela in realtà il troppo amore, ma solo chi non ama può trovare le risposte. Purtroppo non le ho sapute cercare neanche io le vere risposte alla mia fuga dal mondo, ma consegno la vera storia di Stella, la donna che si è spenta perché non ha saputo salvare se stessa, ai lettori compassionevoli, che tralasciano giudizi, ma cercano fra le righe una fragile Verità. Aiutatemi, nella vostra memoria, a farmi bastare a me stessa.
Vostra Stella, luce delle vostre coscienze.
Si aggiudica il Nobel per la Letteratura 2018 la scrittrice polacca Olga Tokarczuk, quindicesima donna a ricevere il premio. L’unica italiana a conquistare il prestigioso riconoscimento resta ancora oggi la scrittrice sarda “piccina piccina” Grazia Deledda.
“Io non sogno la gloria per un sentimento di vanità e di egoismo, ma perché amo intensamente il mio paese, e sogno di poter un giorno irradiare con un mite raggio le fosche ombrie dei nostri boschi, di poter un giorno narrare, intesa, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza”.
Era il 10 dicembre del 1926 e da Stoccolma la famigerata Accademia Svedese si pronunciava così nel conferire il Nobel a Grazia Deledda, che se lo vedrà consegnare l’anno successivo: “per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi”.
Autodidatta e narratrice feconda sin dalla giovanissima età, la Deledda fu anche autrice di opere teatrali, dove troviamo sempre la sua amata terra, una brulla e impervia Sardegna, a fare da sfondo alle storie raccontate. Nel 1906 lo scrittore verista siciliano Luigi Capuana recensì positivamente il suo romanzo “La via del male”, a cui seguirono i ben più noti “Elias Portulu” nel 1903, “Cenere” l’anno seguente e “Canne al vento” nel 1913, per citarne alcuni.
Quello del 1926 rappresenta il terzo Nobel per la Letteratura che il nostro Paese è riuscito a portarsi a casa. Quando ritirò il noto premio, Grazia Deledda aveva 55 anni e la sua fama aveva ormai oltrepassato i confini del “continente”. Prima della Deledda, precisamente nel 1906, soltanto il poeta Giosuè Carducci si era aggiudicato il Nobel per la Letteratura, al quale seguì, solo dopo la scrittrice sarda, Luigi Pirandello che, come si racconta, nutriva un sentimento di rivalità per la scrittrice sarda. Così, quella donna “piccina piccina”, come lei osava definirsi, la spuntava dopo essere stata segnalata per anni al celebre riconoscimento, dimostrando la sua grande statura intellettuale davanti a un pubblico prestigioso e pronunciando le celebri frasi che sono rimaste impresse, dopo oltre un secolo, nell’immaginario collettivo:
“Se vostro figlio vuole fare lo scrittore o il poeta sconsigliatelo fermamente. Se continua minacciatelo di diseredarlo. Oltre a queste prove, se resiste, cominciate a ringraziare Dio di avervi dato un figlio ispirato, diverso dagli altri.”
Le altre scrittrici Nobel, ieri e oggi
Prima di Grazia Deledda era stata la svedese Selma Lägerdorf il primo Premio Nobel donna per la Letteratura, con la seguente motivazione: “per l’elevato idealismo, la vivida immaginazione e la percezione spirituale che caratterizzano le sue opere”.
Era il 1909 e dopo di lei, dopo oltre un secolo, si possono annoverare altre quattordici vincitrici insignite dell’ambito riconoscimento letterario. A conquistarsi il 15mo posto per l’edizione 2018, rimandata a oggi 10 ottobre 2019 a seguito dello scandalo per molestie che aveva colpito lo scorso anno il fotografo e regista Jean Claude Arnault ,marito di una giurata, è la scrittrice e poetessa polacca Olga Tokarczuk, conosciuta in Italia soprattutto per la pubblicazione del romanzo I vagabondi edito da Bompiani, grazie al quale lo scorso anno ha vinto l’International Man Booker Prize. Autrice versatile, è laureata in psicologia, seguace di Carl Gustav Jung, attivista politica, nonché editrice, è stata premiata per la sua “immaginazione narrativa che con enciclopedica passione rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”.
Della scrittura ha detto che:
“allarga, aumenta, approfondisce la nostra coscienza ed è la stessa cosa che accade nella terapia: vi entriamo senza sapere delle cose e poi le veniamo a sapere. Solo così diveniamo più profondi ed intensi”.
2019, il premio va ancora a un uomo
Per l’edizione 2019 il vincitore è invece l’autore austriaco, residente in Francia, Peter Handke “per l’ingegnosità linguistica con cui ha esplorato la periferia e la specificità dell’esperienza umana”. Noto soprattutto al pubblico per il libro Insulti al pubblico pubblicato all’età di 23 anni, Handke ha collaborato alla sceneggiatura del celebre film di Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino”. L’autore settantaseienne è noto in particolar modo per il suo spirito polemico. Ha suscitato infatti pesanti polemiche per essersi schierato dalla parte dei serbi durante il conflitto jugoslavo del secolo scorso e, in una intervista del 2014, ha criticato il Premio Nobel…
“La vita è più semplice di quello che sembra” mi ha sussurrato questa mattina Federico all’orecchio. Era da poco spuntata l’alba e io, raggomitolata su me stessa, tra i cuscini della sdraio a dondolo di vimini sulla veranda, mi sono lasciata cullare dalle sue parole. Osservando di sottecchi il cane acquattato in giardino, mio marito ha continuato: “Se ne sta accucciato incurante, apparentemente indifeso, ma basta sentire i passi di uno sconosciuto avvicinarsi, che le sue orecchie si rizzano e subito scatta sull’attenti. Così nella vita – e a questo punto ha sorseggiato il caffè sottraendo dolcemente dalle mie mani la tazzina ancora tiepida – il sentore di un pericolo ci fa affilare i denti e nella bava che produce la bocca inferocita ristagna il sapore di una rabbia sopita. Non è la vita a essere complicata, Angelica, siamo noi a fuggire da noi stessi, a difenderci con i tanti e, spesso, inutili perché.” L’ho capito soltanto ieri sera, a mie spese, che il senso che mi sono ostinata a cercare a ogni litigio con mia madre, in realtà è sempre e soltanto stata la schermata per difendermi dal dolore, quello di non aver mai potuto contare su una figura materna amorevole e indulgente. Non serve accarezzare la mia ferita, adesso, come Federico vuole farmi credere, devo riaprirla ancora una volta per ricordarmi quanto sono stata forte a ricucirla in tutti questi anni. Il fantasma che tutte le notti mi viene a trovare sin da quando ero bambina non ha mai avuto un volto. Si siede sul mio letto voltandomi le spalle e comincia a dondolarsi. Io ogni volta lo accolgo in modo diverso. In alcuni momenti mi terrorizza, in altri mi provoca una profonda pena, al punto che decido di tendergli la mano e accoglierlo benevolmente. Da alcune notti, invece, l’ho scacciato via, per la prima volta gli ho urlato contro un antico risentimento, tentando di strattonargli le spalle per farlo voltare e scoprire, finalmente, il suo vero volto. Ma è scomparso, all’improvviso, lasciando sulle mie mani una impronta di rancore.
Quando ero bambina mi hanno messo in braccio una bambola per imparare a fare la mamma, spiegandomi che una volta diventata mamma, non avrei più potuto giocare. Erano gli anni ’60 e in tv spopolavano le bambole Furga. Quella che avevo ricevuto io si chiamava Carolina e aveva un caschetto cotonato biondo cenere come una diva americana, occhi verdi e ciglia nerissime e rigide; indossava un abitino bianco a pied de poule azzurro, al collo un fiocco rosso dal nastro sottile. Era un regalo da parte degli zii che vivevano al nord e che avevano da poco comprato finalmente l’ambito alloggio. Sapevo bene che mia madre si rodeva dall’invidia per la fortuna che anno dopo anno suo fratello e la moglie accumulavano, ma nonostante lei tentasse in tutti i modi di metterli in cattiva luce ai miei occhi di bambina, proprio non riuscivo a trovare loro alcun difetto, per me restavano gli zii affettuosi e generosi che ogni anno per il mio compleanno mi inviavano un regalo. E Carolina era uno di quei regali costosi per il quale, lo sapevo bene, mia zia aveva lavorato ore in più anche di domenica. Compiuti i dodici anni, un subdolo sospetto ha cominciato a rodermi. Appena mia madre usciva di casa per recarsi al lavoro, non prima di avermi severamente raccomandato di rassettare le cucina e le camere, mi precipitavo nella stanza da letto dei miei genitori, rovistando con foga i cassetti, senza premurarmi di rimettere in ordine perché la biancheria era sempre gettata alla rinfusa, nella speranza di trovare un documento che comprovasse la mia adozione. Proprio non mi rassegnavo all’idea di essere figlia di mia madre, sempre adirata con il mondo e pronta a inveire contro il marito remissivo, così diversa da mia zia da immaginare che fossi in realtà figlia sua e che mi avesse lasciata al sud perché costretta a lavorare incessantemente per mettere su la fortuna che un giorno mi avrebbe consegnato per farmi un futuro, mentre io di lì a qualche anno non avrei mai potuto contare sui soldi del mio stipendio, che puntualmente mia madre mi avrebbe sottratto. Per mesi, accarezzando il folto caschetto della bambola, mi ero domandata come si fa a diventare mamma. Essere mamma per me significava cullare un bambino per tutta la notte, proprio come facevo io con la mia Carolina, riempirlo di coccole, invitare i suoi amici a casa per feste e merende, insegnargli ad andare in bicicletta, a giocare a dama, proprio come faceva mio padre con me, ma sempre di nascosto da mia madre, che altrimenti lo avrebbe rimproverato di tirar su una figlia viziata e molle. Ogni volta che rientrava dal lavoro, mia madre mi tempestava di richieste sulla cena, sui panni da piegare e da stirare che lei stessa gettava alla rinfusa su una vecchia poltrona e che soltanto lei aveva il diritto di tirar fuori quando uno di noi ne necessitava. Se solo osavo controbattere perché avevo bisogno di continuare a ripetere la lezione in vista dell’interrogazione a scuola dell’indomani, subito inveiva contro di me, fino a sfogare il suo rancore con ingiustificate percosse. Non ricordo mai un momento di complicità passato in sua compagnia a preparare una torta o a incollare le bamboline di carta che tanto adoravo, per lei queste attività avevano solo lo svantaggio di sporcare e mettere disordine in casa, e lei di tempo per farlo non ne aveva mai. Avrei voluto urlarle tutta la mia rabbia per la sua assenza, per l’insensibilità con cui mi ignorava, ma quell’urlo restava perennemente strozzato in gola, e si palesava di notte, al buio, sul cuscino bagnato di lacrime. Mi mancava avere una madre disponibile all’ascolto, alla quale confidare i miei primi turbamenti sentimentali. Se solo le chiedevo di uscire un po’ più spesso, subito mi assaliva con le sue domande insidiose, ammonendomi a frequentare solo ragazzi laureati e a non commettere passi falsi, in modo da non far sparlare “di noi” i compaesani pettegoli. Il suo tono astioso mi spingeva, contrariamente, a rifugiarmi tra le braccia di Federico, un non laureato dal sorriso sempre stampato in faccia. La sua bontà mi sembrava ogni volta un dono ricevuto per la sofferenza a cui mi sottoponeva quella che ormai non credevo fosse mia madre. Era “la strega” che con le sue parole lanciava malefici sull’ingenua ragazza che tentava, senza mai riuscirci, di sfuggire ai suoi crudeli ricatti emotivi. Mi ero convinta, col tempo, che una madre può avere solo due volti: o Cornelia o Medea. I figli, o li mostra con orgoglio come i suoi preziosi e intoccabili gioielli, per i quali è disposta a dare la vita, o li annienta con la sua ferocia per vendicarsi della vita. Non un nido accogliente in cui rifugiarmi quando le aquile divoratrici del mondo esterno spezzavano le ali del fragile volatile che ero diventata nella mia adolescenza, ma una tela aggrovigliata tessuta con compiacenza da un ragno velenoso trovavo ad attendermi tutte le volte che precipitavo. Leggevo chiaramente nel suo sguardo la delusione di non aver partorito un figlio maschio, il fiocco rosa dietro la porta per lei era stato un oscuro presagio. Il suo più grande reato ero io, lo sentivo, che non rispondevo alle sue aspettative. Il mio amore per lo studio la costringeva a sgobbare duramente e a pretendere un mio sostegno continuo. Mi sentivo una belva in gabbia, pronta a scalciare appena mi si avvicinava. Il coraggio di fuggire da lei per sempre me lo ha dato proprio Federico, quando mi ha chiesto di sposarlo. Non aspettavo altro. Il principe generoso, pronto a donarmi il suo cuore, mi ha portato in salvo nella calda dimora che è da sempre la sua famiglia d’origine. Ho tessuto, così, una coperta morbida dalla trama trasparente nella quale ho avvolto Francesca e Simone, i figli che sono arrivati. Stringendoli a me, dopo ore di fatica, ho giurato di non umiliarli mai, di guidarli nella loro crescita con atteggiamenti di benevolenza e, al contempo, con parole di autorevolezza. Ma anche così il fantasma di notte non smetteva di tormentarmi. Si presentava, puntualmente, a dondolarsi sulle mie coperte, impedendo alle mie gambe, rigide per la paura, di scacciarlo via.
Poi ieri ho deciso di invitare mia madre per il mio compleanno. In realtà non volevo farlo, ma una voce stanca dentro me mi ha chiesto di darle una nuova possibilità di riscattarsi e così ho deciso di alzare la cornetta del telefono, dopo anni, e chiamarla, proprio come fanno le brave persone e lei mi ha sempre ribadito di comportarmi da brava persona. Ho tentato di spiegarle perché non riuscivo ad andare d’accordo con lei, ma come in passato ne sono uscita sconfitta. Mia madre riesce sempre a farmi sentire in colpa. Tuttavia, all’ora di cena, il campanello ha squillato.
La serie di trilli insistenti mi ha fatto sobbalzare e subito Federico mi ha preso la mano conducendomi con passo deciso alla porta. Con le mani sudaticce ho stirato le pieghe del vestito elegante che ho voluto indossare per l’occasione, in fondo un po’ ci speravo nel suo arrivo e, passando per il lungo corridoio, mi sono rivolta un’ultima occhiata. “Non male” ho sussurrato a me stessa, sorridendo nervosamente. Una volta ritrovatami di fronte alla sua figura imponente, l’ho attirata a me con un gesto affettuoso. La piega dei capelli perfetta, le labbra di un rosso scarlatto accecante, la gonna lunga, zeppa di merletti colorati da zingara, la facevano sembrare, al contrario dei miei gesti iimpacciati, una presenza padrona di sé, ma un paio di stivali dal tacco alto, consunti, tradivano una sciatteria che non è mai riuscita a nascondere e che io ho subito smascherato.
Allargando le narici, ha tirato su con il naso, mettendo in evidenza le rughe sotto gli occhi che tutto il cerone che maldestramente si ostina a spalmarsi non riesce più a nascondere. Stavo per commuovermi all’idea che qualcosa dentro lei si fosse sciolta nel rivedermi, quando mi ha annusato la testa con aria disgustata e ha esclamato: “Ma quanta lacca ti sei spruzzata, i tuoi capelli sembrano una parrucca! E che odore pungente c’è in questa sala, non ditemi che usate uno di quei profumatori sintetici…” All’elenco delle mie imperfezioni ho celato una furiosa irritazione, tradita dai pugni serrati con forza che subito Federico ha sciolto avvicinandosi con premura e porgendo la mano alla strega. È sempre stato più bravo di me a rompere l’imbarazzo che mia madre provoca con le sue parole sprezzanti, è sempre stato maturo nel comprendere e accettare un carattere difficile che io non riuscirà mai a decifrare. Facendo fatica a guardarla negli occhi, ho spostato lo sguardo su un sacchetto di carta che serrava tra le mani. Ho chiesto se si trattasse per caso di un regalo per me, ma lei con aria di sfida ha nascosto il pacco dietro la schiena, urlando: “Oh no, questo è per Simone!”
“E ne hai preso uno anche per Francesca, vero, non vi vedete da un sacco di tempo ….” ho sottolineato con tono implorante.
“Ma certo che no! A quella ragazza avete sempre comprato tutto, come mi avete fatto sapere quando mi sono prestata per preparare il corredino della nascita. A Simone, invece, non ho regalato quasi nulla visto i lunghi anni in cui mi avete tenuta lontana …”. Fingendo di non aver udito l’asprezza delle infamie appena pronunciate, ho detto amareggiata: “Ma così Francesca ci resterà male!”
“Simone è il mio unico nipote maschio e tu sai quanto ho desiderato un figlio maschio, io!”
“Nascere donna non è un reato!” ho controbattuto a voce alta, stupendo me stessa per quel tono stranamente fermo.
“Simone farà grandi cose, proprio come avrei dovuto insegnargli se solo non mi aveste esclusa dalla sua vita! Ma dov’è il mio cucciolo? Nella sua stanza? Ditemi dove si trova così gli faccio una sorpresa, entro quatta quatta e gli faccio il solletico!”
“Simone ha ormai tredici anni, non è più un cucciolo!” ho cominciato a spazientirmi. Incurante, ha cominciato a dirigersi al piano di sopra. Sono rimasta inerme a osservarla mentre si affannava su per le scale, annaspando nei vecchi stivali dal tacco troppo alto per le sue caviglie gonfie.
“Ahhh le mie povere gambe – si è lamentata come se mi avesse maleficamente letto nel pensiero – questo è il risultato di anni e anni di lavoro mentre tu te ne stavi tranquilla in casa a studiare.” Scalino dopo scalino, al ticchettio dei tacchi, quelle parole pronunciate, questa volta con incauto sdegno, hanno rimbombato nella mia testa come una maledizione e, come ipnotizzata, mi sono precipitata su per le scale guidata da una furia ormai incontrollabile. Non ricordo più le parole che ho tirato fuori come una partoriente incosciente che spinge precipitosamente fuori di sé un feto sofferente, che ho subito visto scivolare per le scale nella sua viscida e oscura placenta. Simone e Francesca sono sbucati dalle loro stanze lanciandomi espressioni sconvolte e preoccupate, Federico mi ha afferrato per un braccio prima che non rispondessi più delle mie azioni… Mi sono risvegliata da quel malefico incantesimo, ritrovandomi sprofondata nel divano al centro della sala. La luce era spenta, solo quelle soffuse delle applique rischiaravano la stanza, lasciando in penombra una figura seduta accanto a me. Era lei, la madre strega che avevo assalito pochi minuti prima. Ci avevano lasciate sole, alle prese con la nostra resa dei conti, negli ultimi anni tacitamente rimandata. In silenzio l’ho osservata in quella posizione insolita per lei: le spalle incurvate e lo sguardo basso rivolto al pavimento sotto di lei. Era silenziosa, come non lo è stata mai. Era sconfitta. E per la prima volta mi è apparsa non madre, ma donna. Non ricordavo più le parole vomitate con astio su di lei poco prima, sentivo solo il mio corpo scosso dalla violenza di quel mio atto furioso e il cuore svilito da un’amarezza ingoiata per troppi anni. Improvvisamente ho sentito tutto il rancore dileguarsi, lasciando spazio a un’espressione accorata che le ho rivolto mentre il viso si rigava di lacrime. Il suo corpo ha cominciato a scuotersi, profondi singulti la facevano tremare come una montagna scossa da tuoni, squarciata da una voragine improvvisa nella quale precipitano anni di silenzi, angoscia e parole non dette, mentre tutto scompare e quel vuoto si richiude per sempre. Mi sono sentita le mani afferrare e nel buio ho visto spuntare, su quel suolo roccioso appena precipitato, nuove radici.
“Mi dispiace” ho sentito che mi sussurrava “non sapevo come si cresce una figlia, nessuno me lo ha insegnato.”
E ho rivisto Carolina, la mia vecchia bambola, che fortunatamente mi avevano messo tra le braccia.
“Le sprovvedute” di Giuseppe Fini, versione romanzata di una vicenda drammatica che colpisce una famiglia in cui le donne si portano addosso come una maledizione la tendenza ad annichilirsi per quelli che scambiano per grandi amori, confondendo l’asservimento con la dedizione, il disprezzo e la mancanza di tatto per amore.
«Certo che siamo fragili, io e te. Delle insicure. (…) È vero. Quella è l’impronta. Ma potrei giurare che possediamo anche un bel fondo di resilienza. Lo teniamo in serbo, nascosto da qualche parte, in attesa che la vita ci costringa a tirarlo fuori. Siamo fatte così, noi due, finché è possibile rimandiamo…»
Quando Arianna, insegnante di lettere, scopre segni di violenza sulla guancia di sua figlia Sofia, decide di reprimere la collera per quell’indegno atto di violenza. Raccogliendo tutto il suo coraggio di madre in gesti amorevoli di comprensione, riesce a stabilire una intesa attenta e morbida con la ragazza conducendola, fra una calda tisana e la preparazione di una fragrante crostata, nel suo passato sconosciuto di donna abusata. Le sprovvedute che emergono dal loro bozzolo di insicurezze sono quelle donne che, per fragilità innata, ingenuità e bontà d’animo, non sono in grado di cogliere al primo segnale di violenza, anche solo verbale, la mancanza di riguardi nei loro confronti, proprio perché in primis sono loro stesse a non amarsi, a non rispettare se stesse in quanto individui a sé.
L’autore dimostra con la sua storia una profonda empatia nei confronti dell’universo femminile, calandosi prima nei panni della più matura e consapevole Arianna, poi in quelli adolescenziali di Sofia. La ferita inferta nel passato riemerge drammaticamente in Arianna e fa più male degli schiaffi e delle offese ricevute, perché provocata da chi avrebbe dovuto saper mostrare amore incondizionato. Arianna si porta addosso la ferita di una madre che le ha insegnato a sopportare, attenta più al giudizio altrui e alle apparenze, che ai veri sentimenti della figlia. Arianna invece spezza la catena, ponendosi in ascolto attento verso la figlia, senza forzarla, ma rispettando i suoi tempi, trattenendo l’angoscia verso una verità più drammatica, purtroppo sospetta, che si rivelerà nel finale. La forza che guida la madre nell’attenzione verso i silenzi e i gesti della figlia nasce dalla consapevolezza che la ragazza non è sola, ma ha al suo fianco, pronta a sorreggerla, una famiglia premurosa, in particolar modo un padre, Lorenzo, musicista filosofo, dotato di grande sensibilità, che comprende le donne. È attraverso questa figura che l’autore rivela il suo messaggio:
“con il rispetto si rende una donna felice, lasciandola libera di esprimere se stessa.”
Lorenzo rappresenta il riscatto per Arianna, la nuova possibilità che la vita le ha donato per rinascere, ritrovare se stessa e imparare ad amarsi. Arianna e Lorenzo sono due anime affini che condividono l’emozione del conoscere, la voglia di scoprire, l’entusiasmo per la vita, tutti sentimenti antitetici all’egoismo, al possesso e alla prevaricazione, tipici dell’arcaico retaggio di un patriarcato non ancora del tutto superato. Sofia può contare allora su due genitori empatici che dimostrano, attraverso le reazioni controllate, rispetto e comprensione nei suoi confronti, che la guidano, gradualmente, verso una presa di coscienza: “Ma come diavolo sei potuta finire insieme a un esemplare del genere? Eh? Forza Sofia, risponditi! Ci siamo fatte fregare dal fascino del cattivo ragazzo, eh? Da quello belloccio e intraprendente, eh? E ti è piaciuto, eh? Brava! Sei proprio una stupida! Soltanto una stupida! E poi a letto non è manco tutto questo granché, appena lo molli sbadiglia come se avesse compiuto chissà che impresa… Ma lo sai quanti ne trovi, centomila volte meglio di lui? No, dimmi se lo capisci o no che con quell’attrezzo, dopo quello che è successo, devi farla finita e basta! È chiaro?! E risponditi qualcosa, maledizione!”
Ma dove finiscono, invece, le ragazze abbandonate, derise e non comprese dalle famiglie? Perseguitate o subdolamente circuite e abusate sin dall’antichità, come dimostrano numerosi esempi di figure femminili, come nei miti greci di Dafne e Elettra, per citarne un paio, o le protagoniste letterarie Ida Ramundo de “La Storia” della Morante e Olì di “Cenere” della Deledda, le donne subiscono il limite morale di poter vivere liberamente le proprie pulsioni o inclinazioni, vittime esse stesse della convinzione di rivestire un ruolo di inferiorità nella società. Il cammino per queste sprovvedute, o ancora peggio emarginate dalla società, risulta ancora oggi ostacolato dall’immagine tradizionale del femminile che si fonda sull’amore oblativo, sul sacrificio estremo del Sé, alla quale si oppone la figura-ombra della ribelle-meretrice, visione contrastante insita in una cultura intrinsecamente maschilista che stenta ancora a riconoscere un ruolo attivo e senziente del femminile, condannandolo con feroce sprezzo a una condizione di asservimento psicologico e di inferiorità.
LE SPROVVEDUTE
Giuseppe Fini
Romanzo
Pubblicazione indipendente
Euro 10,50
ISBN 1719812438, 9781719812436 – Anno 2018
Mini-intervista all’autore
Come nasce l’idea di una storia al femminile?
Nasce da un profondo senso di ammirazione nei confronti della donna. Per quanto se ne dica, la nostra società continua ad essere estremamente maschilista. Come uomo sentivo la necessità di dare in qualche modo voce all’universo femminile, o quantomeno ad una parte di esso.
Rosso è il colore che hai scelto per la copertina del tuo libro, è chiara l’allusione alla tinta della lotta contro la violenza sulle donne. Il rosso simboleggia l’amore, che dalla passione sempre più spesso si trasforma in possesso e tragedia. Come pensi si possa combattere oggi la violenza sulle donne?
Credo sia un problema strettamente culturale, un retaggio che purtroppo ci trasciniamo dietro fin dagli albori. Personalmente, mi sembrava importante dare un segnale contro la violenza di genere attraverso le lettere, un contributo alla cultura del rispetto verso la donna. Di violenza di genere è fondamentale che se ne parli sempre, non soltanto all’indomani delle terribili notizie di cronaca. Troverei naturale che fra gli uomini si generasse una sorta di corrente “femminista” (termine che utilizzo in maniera del tutto apolitica), sarebbe sintomo di civiltà.
Perché hai deciso di autopubblicarti?
Perché l’Italia è il Paese delle raccomandazioni e delle spintarelle, ed è molto difficile che a una penna sconosciuta, senza alcun tipo di agganci, arrivino proposte serie ed oneste dal panorama editoriale. Così, anziché perdere tempo ho preferito propormi più dignitosamente ai lettori in maniera diretta.
Sei personaggi in cerca di aiuto i protagonisti de “Il silenzio addosso”, romanzo dell’autrice Stefania Convalle pubblicato da Convalle Edizioni, in un intreccio di incontri apparentemente fortuiti che finiscono per tendersi la mano l’un l’altra, formando una solida catena di solidarietà umana fino a scoprire che la vita, nonostante tutto, sa sorprendere ancora.IL SILENZIO ADDOSSO
Stefania Convalle
Romanzo
Collana Sole
Euro 13,00
ISBN 9 788885 434172 – Anno 2018
“… e visto che a parole non mi salvo,
parla per me, Silenzio, ch’io non posso.”
(José Saramago)
Quanto ci vuole per guarire da un dolore improvviso che ti squarcia, nonostante tu sia ancora vivo, nonostante cammini, respiri, ripeti gli stessi gesti ogni giorno, mentre il cuore è altrove, è volato via e al suo posto si è insediato quell’incontrollabile strazio? Ha le ali questa sofferenza, vola nei ricordi, in un passato che non torna, ma che resta fermo, come un fotogramma, dinanzi ai tuoi occhi smarriti.
Come si reagisce, allora, a un dolore, sia che lo si subisca, sia che accidentalmente lo si provochi? In un dramma di colpevoli e feriti, vittime e carnefici, l’autrice de “Il silenzio addosso” posa il suo sguardo attento e sensibile sul cuore di esseri lacerati da un dolore troppo forte da sopportare. Chiara e Alessandro hanno perso il loro bambino in un tragico incidente e nessuno dei due riesce a ricucire questo strappo che ormai li ha allontanati l’una dall’altro. Lei cerca di rifarsi una vita accettando un umile lavoro, spinta da Carolina, una anziana sciamana che la sostiene e cerca di guidarla, memore di un dolore condiviso, verso una nuova rinascita. Alla storia di Chiara si intrecciano quelle di Giulia, cinquantenne ristoratrice, tormentata dal fantasma della solitudine che riverserà il suo amore materno mancato nelle improvvise comparse che allieteranno la sua vita, donandole un nuovo slancio vitale e di rivalsa, di Fabio, giovane ambizioso che attende il suo momento per emergere professionalmente e infine quella di Edoardo, libraio solitario e misantropo. Stefania Convalle dà vita così a un romanzo corale, scelta strategica che, attraverso un dialogo diretto in prima persona, in un crescendo di partecipazione emotiva, coinvolge il lettore nel dramma dei protagonisti.
Trovare il coraggio“Anche il silenzio è un linguaggio, difficile da capire, ma forte e d’impatto che può penetrare muri spessi e ricoperti di edera.”
Cala come un velo sulle anime dei protagonisti, si interpone fra gli sguardi, nelle parole interrotte… è un silenzio che tenta di sussurrare qualcosa, ma resta imprigionato tra le pareti della tristezza.
Nonostante dentro Chiara il coraggio si faccia strada a piccoli passi, attanagliata dal senso di colpa verso i suoi tentativi di reagire al dolore, la donna si fustiga dicendo a se stessa: “No, mi oppongo, a tratti lo vorrei davvero, vorrei dimenticare tutto: si può dire no al turbinio di una vita che cammina come un funambolo su una corda tirata tra due grattacieli?”
Straziato dal senso di colpa, abbandonato dalla donna che ha sempre amato, alla quale in passato non è riuscito a comunicare serenamente i suoi sentimenti, vittima di una confusione interiore, Alessandro è un uomo perso, chiuso nel suo profondo tormento. “Quanta solitudine c’è in questo mondo? La solitudine, quella brutta, quella che non ti sei cercato, quella che ti ha colpito come una cattiva malattia; quella solitudine che non ha niente a che fare con la libertà di essere ciò che si vuole, ma che ti chiude in una prigione senza finestre”.
L’autrice si addentra nel labirinto tenebroso della solitudine di Chiara e Alessandro, che a un certo punto della storia sembrano comunicare fra loro attraverso un odore stantio di muffa, lei tra i vecchi volumi della libreria di Edoardo, lui tra le pareti di una vecchia casa di ringhiera, in quell’attimo in cui entrambi sembrano voler cominciare a liberarsi della piega marcia che ha ormai preso la loro vita.
“Quanta solitudine, mio Dio, quanta solitudine! Siamo gli uni vicini agli altri, ma distanti e dispersi nelle proprie rotte siderali. Viviamo a due passi dal cuore degli altri, ma non facciamo entrare nessuno, in realtà. E le domande, quelle vere, quelle importanti, arrivano quando è tardi…”
La vicenda è ambientata a Milano, simbolo nostrano per antonomasia di frenesia e freddezza emotiva, eppure l’autrice riesce a scovare scorci in cui brilla la luce e a illuminare quei luoghi sono i gesti di amore e attenzione che riversa sulle anime smarrite che inaspettatamente le ruotano attorno Giulia, che a un certo punto si chiede quale sia lo scopo della vita: “Stare fermi a fare qualcosa che amiamo, ma pur sempre dentro gli stessi metri quadrati, oppure mollare tutto e andare a conoscere cosa c’è oltre questo vicolo, oltre questo ristorante, oltre la mia vita fino a qui. Cinquant’anni non sono la fine, ma sono il giro di boa certo e sicuro; ci si sente ancora giovani ma in realtà non lo siamo più e certe cose cominciano a sfuggirci, cominciamo a pensare che niente è per sempre, neanche noi.”
E quando quel senso di precarietà esistenziale ci assale, quando l’indifferenza ormai occlude gli sguardi, intorno a noi non più occhi negli occhi ma sguardi bassi e del tutto insensibili al dolore altrui, arriva l’attimo, affatto premeditato, in cui la solitudine deve scrollarsi di dosso, arriva quell’attimo di violento piacere, l’attimo di vita in una vita che ha dimenticato come si fa a vivere.
Dal dolore all’amore, in questo romanzo, costruito con matura abilità narrativa che potrebbe facilmente prestarsi a un adattamento cinematografico, Stefania Convalle lancia un grande messaggio di coraggio. Nonostante tutto, possiamo farcela, nonostante il dolore che piomba addosso immobilizzandoci, possiamo trovare ancora una speranza, nonostante la fiducia verso la vita si spezzi, noi possiamo continuare ad amare.
Da accezione negativa, di chiusura, di quel non detto che allontana, il silenzio diventa energia prorompente di una nuova forza, di un andare incontro all’altro e a se stessi, concedendo e regalandosi atti di puro amore. Dal silenzio si nasce, perché il silenzio a un certo punto diventa dono, perché se alla sofferenza non c’è una spiegazione, allora quel silenzio dobbiamo oltrepassarlo, lasciarlo tacere con le sue domande, porsi oltre la parola perché, come direbbe Wittgenstein“Il mondo è” e non ci è dato conoscerlo con la logica.
“La Vita è davvero imprevedibile. Quando ogni singolo frammento sembra al posto giusto, ecco che una folata di vento scompiglia tutto e bisogna ricominciare a mettere insieme tutti i pezzi. Accorgersi della propria solitudine è un calcio negli stinchi. Ma sono proprio questi calci a svegliarti dal torpore per farti rendere conto che la vita non è infinita, gli anni passano, inesorabili, e senza troppi complimenti ti portano verso la fine.”Chi è Stefania Convalle
Autrice di numerose pubblicazioni: antologie, raccolte di poesie e racconti e dei romanzi “Una calda tazza di Caffè Americano”, Rapsodia Edizioni – 2015, “Tre. Il numero imperfetto” – 20, “A quattro mani”, Demian Edizioni -2016, “Dipende da dove vuoi andare”, GoWare – 2017, Stefania Convalle nel Luglio 2016è entrata a far parte degli autori dell’Agenzia Letteraria Thesis e nel 2017 ha fondato la Casa Editrice Edizioni Convalle, per la quale è stato ripubblicato “Una calda tazza di caffè americano”, nel 2018 “Il silenzio addosso” e nel 2019 con l’autore Riccardo Simoncino il romanzo “Cerca di non mancarmi troppo”.
Nel suo nuovo romanzo Carla Magnani mette il pubblico di fronte alla paura di vivere e di controllare le proprie scelte che ingabbia sempre più individui nella società contemporanea. Attraverso la tecnica dell’introspezione, la trama de “L’ombra del vero” Le Mezzelane Editore si dipana fra interrogativi esistenziali e colpi di scena.“Il mio cammino è iniziato con il terrore della morte per giungere alla conclusione opposta: temere la vita.”
Stabilire la data, con estrema lucidità, e programmare le modalità della propria fine per una affermata e brillante manager quarantaduenne, felicemente sposata e madre di due figli, può apparire una decisione assurda. Ed è proprio l’assurdo, quel senso di vuoto quando si coglie la mancanza di razionalità nel mondo, quella sensazione di nausea che Sartre ha saputo così drammaticamente descrivere, che irrompe nella vita di ognuno di noi, nella più ordinaria quotidianità che ci spinge a domandarci, come dice nel suo celebre saggio Il mito di Sisifo lo scrittore e filosofo Albert Camus:
“Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta.”
Come rispondere a tale quesito filosofico? Sisifo, uomo che paga la sua furbizia per aver sfidato gli dei con una eterna condanna, ossia spingere un masso dalla base alla cima di un monte, farlo precipitare e poi raccoglierlo in continuazione ripetendo la fatica è, secondo l’autore francese, l’uomo che sopporta l’assurdità della vita, con coscienza e, attraverso la rivolta, trova un senso all’esistere. Scegliere di togliersi la vita è un atto di resa di fronte all’assurdo, accettarlo con coscienza, sopportandolo, è un atto di coraggio.
Un grande interrogativo
Decisione di viltà o di libertà per un fine più grande, azione immorale o mera illusione, la dicotomia su cui hanno dibattuto filosofi e letterati nei secoli sul tema del suicidio è alla base della scelta della protagonista de “L’ombra del vero” pubblicato da Le Mezzelane dell’autrice Carla Magnani. Quella che si profilava come la stanchezza di vivere, il mal du siècle nell’Ottocento, che spingeva sovente gli intellettuali a togliersi la vita, appariva da un lato una scelta razionale sul piano soggettivo, ma ingiusta sul piano collettivo. Ed è proprio attorno a questa visione leopardiana che Carla Magnani tesse la trama del suo nuovo romanzo. “Sbaglia chi pensa che si arrivi al suicidio in una fase di irrazionalità, di scelta radicale vissuta in assenza di autocontrollo.” dice la protagonista.
Dinanzi alle curve della vita Anastasia cede lanciandosi, fuor di metafora, con la sua auto da un tornante.
“È stata la cognizione della sofferenza altrui, quest’ultima invano mascherata dal bisogno di sopraffarla, che mi ha fatto conoscere il dolore perfetto. Vorace, mai sazio, si nutre di perdite, lontananze, rimpianti e sensi di colpa. Inutile voltarsi, è al mio fianco e mi accompagna fedele, instancabile, lungo tutto il cammino.”
L’ombra sinistra della morte aleggia su di lei sin dall’infanzia, così negli anni Anastasia cresce nella convinzione di essere fonte di dolore per gli altri. Le cicatrici che si porta sul cuore si riaprono ogni volta bruciando attraverso feroci e inespressi attacchi di panico, quelli che oggi paralizzano una fetta sempre più larga di individui alle prese con l’ansia di non riuscire a controllare le proprie fobie. Stanca e incapace di controllare queste emozioni con se stessa mentre all’esterno appare una donna tutto d’un pezzo, Anastasia rappresenta l’individuo contemporaneo, lacerato internamente dalla volontà, contrapposta a una oscura e inspiegabile inerzia.
“Con il tempo questo dolore si è arricchito di paura; paura del dolore, della paura stessa, mi ha avvicinato alla fuga, quella definitiva, senza ritorno. È così che ho preso confidenza con la morte. Ho iniziato a considerarla una risorsa, la mano tesa di un’amica pronta a darmi sollievo. Sembra incredibile, pazzesco, da mente malata. Ne sono consapevole. Io stessa inorridisco considerando quello che sono diventata. Lo so.”
L’incontro con la Morte per Anastasia, così meticolosamente organizzato, si rivelerà inaspettato. L’oscura signora con la falce le gioca uno scherzo che le costerà lunghi giorni di riflessioni rinchiusa nell’involucro inerme che sarà il suo corpo in un letto di ospedale.
“Sono qui, prigioniera del mio corpo. Le parole, le grida, persino le bestemmie si fermano nella testa senza poter raggiungere le corde vocali e mi costringono a un silenzio forzato ricco di voci interiori con me unica destinataria.”L’abisso perscrutabile
Anastasia precipita nel suo Ade, mondo infero fatto di sofferenze che la sua condizione impone alle persone a lei care che si alternano al suo capezzale come tante ombre che cominciano a confessarsi senza remore su segreti insospettabili, fino a nauseare la stessa protagonista che a ogni rivelazione conferma l’assurdità dell’esistenza e anela a spegnersi quanto prima.
La fede cristiana in cui sua madre si rifugia sin da quando Anastasia è bambina, quella fede che da piccola l’ha allontanata dall’affetto materno, non basta a far risvegliare la figlia; le parole amorevoli e la crescente preoccupazione del marito per le reazioni dei figli, non servono a infondere coraggio ad Anastasia nel suo stato di semi-incoscienza; l’arrivo fugace di sua sorella, apparentemente antitetica ad Anastasia, l’unica in grado di smascherare, non creduta, l’atto della donna in coma, rivela un altro modus vivendi estremo, quello cioè della fuga dalle responsabilità, dal timore del confronto con la vita nonostante i suoi interminabili sforzi di farsi notare da tutti. Tuttavia, un barlume di speranza appare dal buio nella figura dell’amorevole ed empatico medico che la assiste, Silvano, figlio ideale che ancora crede nei buoni sentimenti e nel valore dell’umiltà.
Attraverso la tecnica del flusso di coscienza, l’autrice conduce nel torbido labirinto degli asfissianti pensieri della protagonista, che dal suo stato di coma in realtà sente e comprende tutto intorno a sé e ciò è fonte di grande angoscia che la fa precipitare ora nella misericordia verso se stessa ora nello sconforto più totale per l’atto commesso.
“Questa pena segreta sarà per sempre mia compagna, la sconfitta senza opportunità di rivincita, l’inutile tentativo di chiudere il cerchio della vita che ci impone la nascita senza lasciarci il come e il quando della fine.”
Per mantenere vigile l’attenzione, la donna inventa un gioco: attribuire a ogni lettera dell’alfabeto una o più parole a cui associare riflessioni o ricordi.
“Lettera S. Solitudine – Silenzio (…). A quanti constatare di essere soli procura angoscia. Vivere l’abbandono quasi come una colpa, trovarsi immersi nella folla e vedersi il vuoto attorno o, peggio ancora, dentro. La solitudine sentita come spauracchio, maledizione, o adoperata come risorsa, fuga alla ricerca di una propria identità, complice il silenzio. Nessuna voce, nessun rumore a distrarci. Un monologare in cerca di risposte e giustificazioni non sempre facili da accettare.”
Il lettore scopre così la realtà che ha circondato Anastasia fino a quel momento: una intraprendenza e al contempo una profonda sensibilità che l’hanno sempre resa agli occhi altrui una personalità forte e decisa, una sconosciuta dinanzi all’immagine del suo corpo immobile in un letto di ospedale. Nella sua illogica condizione, la protagonista scoprirà la libertà di dedicarsi a se stessa attraverso il pensiero, guardandosi finalmente allo specchio come non ha fatto mai.
Perchè leggere il romanzo
Un’analisi introspettiva, sottile e arguta, a tratti angosciante, quella che Carla Magnani offre ai suoi lettori, che presuppone un lavoro di ricerca clinico-psicologica e conferma una abilità tecnica narrativa nel saper guidare il suo pubblico nell’incubo della protagonista, fino a disorientarlo nel finale inaspettato.
Dopo il romanzo di esordio “Acuto” edito da Gilgamesh, Carla Magnani consegna ai suoi lettori una nuova storia di interrogativi esistenziali. Se nel primo si affrontava il tema della paura sulla responsabilità delle scelte nel turbolento ‘68 in Italia, questa volta la protagonista è una adulta alle prese con il timore di vivere. Lo stile dell’autrice si rivela più maturo, il monologo interiore utilizzato consente di scavare con maggiore efficacia nella psicologia dei personaggi, facendo emergere un’umanità incrinata da incertezze e inquietudini, talvolta inspiegabili, talmente radicati che rischiano di condurre verso mete sbagliate, con atteggiamenti negativi e passivi, impedendo alla coscienza di scorgere ogni giorno nuove speranze, forti motivazioni a non arrendersi di fronte all’assurdità della vita, ma riconoscendo i propri limiti, perché, come direbbe sempre Camus:
“Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.”
Quella che state per leggere è una libera interpretazione sulla biografia di Emma Rauschenbach, meglio conosciuta come la moglie del grande psichiatra svizzero Carl Gustav Jung, in seguito alla mia visita alla casa museo di Küsnacht, dove la famiglia ha vissuto dal 1909. L’immagine di questa donna, qui di seguito raccontata in una visione romanzata, emerge dall’oscurità in cui è stata avvolta dalle cronache storiche, per rivendicare un posto di rispetto nella cultura femminile del Novecento.
«Ci possiamo immaginare le conclusioni della riunione degli dei che ha deciso sul destino da riservare a Carl ed Emma: “A te, Carl Gustav, apriamo le porte delle profondità dell’animo umano. Pagherai questo viaggio con prove terribili e lascerai dietro di te le tracce eterne del tuo passaggio”. “Emma! Tu tesserai la ricca stoffa su cui verranno scritte le opere del tuo sposo. Pochi conosceranno il prezzo che verrà chiesto per adempiere a quella che ha tutti i tratti di una ricca e spesso oscura tragedia.”» (Amore e sacrificio. La vita di Emma Jung – Imelda Gaudissart)
Un sussurro di voce, fra luci e ombre
Emma Rauschenbach Jung ha bussato alla porta del mio cuore con impeto, come se volesse squartarlo per far uscire dalle crepe, finalmente, la sua voce. “Emma, Emma, come hai potuto sopportare tutto quel dolore?” mi sono chiesta, e lei ha risposto dandomene un assaggio…
È notte sul Lago di Zurigo, un corteo di nuvole scure, cariche di pioggia, minaccia l’avvicinarsi di un violento temporale. In lontananza il rombo dei tuoni è accompagnato da un incessante bagliore di lampi che squarciano il cielo. Un forte boato fa tremare la terra e la pioggia inizia a scrosciare sulla folta vegetazione che circonda le sue sponde. Il sibilo del vento tra le fronde degli arbusti porta con sé sinistri lamenti che si trascinano sulla riva destra, a pochi chilometri dal centro abitato del piccolo villaggio di Küsnacht. La luce dei lampi illumina una porta di pietra dal frontone in stile neobarocco e lascia intravedere un’iscrizione in latino “VOCATVS ATQVE NON VOCATVS DEVS ADERIT” (Chiamato o non chiamato, il Dio sarà presente). Un forte vento innalza mulinelli di foglie che si spandono intorno sulla ghiaia e all’improvviso il portone si spalanca con un deciso cigolio. Un nuovo lampo rischiara la piccola scalinata che conduce all’ingresso. Poi una nuova e violenta raffica di vento richiude il portone alle mie spalle e l’oscurità ferma il tempo…
La fioca luce di una candela, al ritmo danzante di una tremolante fiammella, viene giù dalle scale. Si ode il fruscio di una vestaglia avvicinarsi all’ingresso. La luce rischiara la figura femminile che la indossa e che incede verso di me. Ha un viso rotondeggiante, capelli bianchi arruffati che ricadono appena sulle spalle robuste, un sorriso stanco ma accogliente. Solleva un lembo della vestaglia per non inciampare nell’ultimo gradino, è scalza. La sua è una presenza silenziosa ma al contempo rischiarata dal bagliore che irradiano i suoi occhi. Mi invita a seguirla. Con una mano spalanca una porta che si affaccia su un salottino che funge da anticamera alle cui pareti, tappezzate in stoffa dal rosa antico, sono appesi quadri che raffigurano austeri ritratti di famiglia; in basso, piccoli scaffali ricolmi di libri. Il pavimento è in parquet disposto a spina di pesce, agli angoli poltroncine e divanetti in tessuto dalle tenui tonalità. Sulla destra della stanza troneggia una stufa in maiolica azzurra, decorata con incisioni zodiacali. Dall’anticamera si accede a un ampio salone, dove improvvisamente si accendono i lampadari. Dal camino arde scoppiettando la legna e un vivace chiacchiericcio echeggia tra le pareti. Qualcuno ha preso a suonare il pianoforte e dal centro della stanza, dove è disposto un ampio e lungo tavolo in legno massiccio, proviene un ticchettio regolare di lancio di dadi. Una figura imponente, di spalle, conduce il gioco. Si volta leggermente e scorgo il profilo appesantito di un uomo di mezza età, che indossa un paio di occhialini tondi e porta un paio di baffetti ben definiti. Sulle sedie accanto a lui, cinque ragazzi eccitati urlano fra loro, incitando il padre a un nuovo lancio.
Doni e rinunce sull’altare della Vita
La donna che mi fa da guida, la padrona di casa, Emma Jung, si volta chiedendomi di seguirla. Saliamo al piano superiore percorrendo la forma circolare della torretta intorno alla quale è costruita la tromba delle scale. Emma mi fa accomodare in un angusto salottino dalla candida tappezzeria, porgendomi educatamente una tazza fumante di tè. “Era qui che sostavano i pazienti prima di entrare nello studio di mio marito” e con gesti eleganti adagia le spalle nel basso schienale del divanetto. Il tono della sua voce è calmo, rassicurante, l’espressione del viso serena. “Con il tempo anche io, diventata psicoanalista, ho seguito i suoi pazienti, specie quando mio marito è stato sopraffatto dagli impegni che imponevano la sua presenza all’estero. Ha ritenuto che io fossi pronta per assumermi questo compito, del resto ha sempre condiviso con me, sin dall’inizio della sua pratica di medico, le sue ricerche. Quando vivevamo presso il Burghölzli, la clinica psichiatrica presso l’Università di Zurigo dove mio marito era assistente medico, ho collaborato attivamente con lui. Sono stata sempre attratta dalle ricerche scientifiche, un mio desiderio era proprio quello di dedicarmi agli studi scientifici, ma non mi è stato possibile, in quanto donna. Alla mia epoca non era consentito continuare gli studi, sebbene provenissi da una famiglia aristocratica della città industriale renana di Sciaffusa, dove nel 1880 mio nonno Johannes Rauschenbach-Vogel acquistò, risollevandola con estro creativo dalla bancarotta, una fabbrica di orologi fondata dodici anni prima e che presto passò nelle mani di mio giovane padre Johannes.” A questo punto socchiude gli occhi e rallenta il suo racconto per alcuni secondi. Sommessamente, canticchia un antico motivetto e un largo sorriso si disegna sulle sue labbra. “Stavo ricordando la mia magica infanzia, trascorsa accanto alla mia premurosa nonna paterna Barbara, a mia madre Bertha e alla mia amata sorella Margaretha, a Rosengarten, come era chiamata la nostra casa, fino a quando, dopo il 1890, mio padre decise di demolirla per trasferirci in collina, a Ölberg, dove aveva fatto costruire una lussuosa dimora dallo stile architettonico ridondante.” I suoi occhi si posano su una vecchia fotografia. Una bambina, di forse undici anni, per la statura, dallo sguardo più maturo, posa in un abito serioso. Improvvisamente, sulla parete di fronte si proietta una immagine in bianco e nero. Un giovane adolescente, sembra avere diciassette anni, sorprende la stessa bambina sulla scalinata di Rosengarten, illuminata da un raggio di sole accecante. Il ragazzo sembra estasiato dalla visione, la piccola gli è apparsa come una vera principessa, dal portamento distinto e lo sguardo dignitoso. Come in un film muto, rapide sequenze si susseguono: l’adolescente diventa uno studente di medicina a Basilea e stenta a mantenersi, ma spesso torna a far visita alla Signora Bertha Schenk Rauschenbach, legata a sua madre Emilie Preiswerk da profonda amicizia, e rivede Emma, ormai quattordicenne, alla quale viene promesso in sposo. “Non mi sentivo pronta ad affrontare una vita matrimoniale – interrompe bruscamente la visione Emma – ero nel pieno della mia giovinezza, leggevo avidamente, sognavo di continuare la mia formazione dopo aver terminato gli studi che comprendevano anche la conoscenza del greco e del latino, che si riveleranno utili in futuro per comprendere e approfondire la mitologia, ma come già detto non mi fu possibile, così mi lasciai convincere da mia madre che quello con il giovane Jung sarebbe stato un buon matrimonio. Del resto ero affascinata dalla sua cultura e nei suoi occhi si leggeva una profonda ambizione, e io non aspettavo altro che elevarmi nella mia curiosità e avidità di apprendere! Ci sposammo il 14 febbraio del 1903. Eravamo entrati nel XX secolo e troppe cose stavano cambiando.”
Dal piano di sotto proviene un brusco trambusto: qualcuno strilla, poi si odono passi scalpitanti, una vocina rotta dal pianto chiama sua madre. Emma, premurosamente, chiede scusa e torna nel grande salone. Durante la sua assenza lascio la scomoda poltroncina e comincio a osservarmi intorno. Spinta dalla curiosità, mi precipito nell’ampia biblioteca che si affaccia da un po’ alla mia vista. Sulla mia sinistra, un camino in pietra dove sono riposti cimeli di provenienza orientale, tra i quali un teschio di scimmia. La visione mi appare un po’ terrificante, ma in realtà a guardarmi meglio attorno, la cosa non stride affatto con il resto delle suppellettili che adornano la stanza: arazzi con mandala dipinti e altre statuine e immagini simboliche. Una strana sensazione mi pervade e mi sento risucchiare in un vortice di commozione. Sembra quasi che una mano invisibile mi guidi in ogni angolo della stanza e uno spirito benevolo mi sollevi l’animo. Comunicante alla biblioteca, appare lo studio di Jung. I miei passi si arrestano per alcuni secondi, poi con solenne devozione mi incammino verso lo stanzino. L’atmosfera è sobria: uno scrittoio su una parete e piccoli scaffali di libri sull’altra. Ciò che colpisce la mia attenzione sono le tre vetrate variopinte. La luce dei lampi riflette le scene che vi sono disegnate, tratte dalla Passione del Cristo, dalla Croce alla Resurrezione, a cui lo psichiatra attribuì una forte valenza simbolica alchemica.
Tollerare la Crocifissione per l’uomo è un atto eroico, coraggioso, il momento catartico in cui l’individuo riesce a mantenere la tensione degli opposti, Bene/Male, Vita/Morte, Luce/Oscurità, attraverso la Resurrezione, passaggio ultimo di un processo di trasformazione interiore, che conduce a quello che egli ha definito il lungo e interminabile processo di Individuazione nella vita dell’uomo, il passaggio dall’Io al Sé.
Penso a quanto le sue teorie abbiano rivoluzionato la storia della psicoanalisi, all’importanza del suo contributo in quella che fu una vera e propria rivoluzione del nuovo secolo. Come se mi stesse leggendo nei pensieri, appare alle mie spalle Emma. “Fu un infaticabile ricercatore nei primi anni di matrimonio trascorsi presso il Burghölzli che non era un posto ameno in cui cominciare una unione coniugale, ho sofferto per l’atmosfera cupa e spesso spaventosa che si respirava a causa dei lamenti dei pazienti. Mi sforzavo di rendere più accogliente e raffinato l’ambiente e alleggerivo l’animo con gli studi sul Graal, una ricerca il cui interesse era nato pochi anni prima durante un mio soggiorno a Parigi e che mi assorbì per tutta la vita. In ogni caso riuscii a farmi apprezzare dal personale e dai dottori, mi sentivo benvoluta, mio marito mi coinvolgeva nei suoi studi e divenni sua assistente. Poi arrivò il fatidico 1904…” Penso a quella data e subito lo associo al nome di un’altra donna celebre sulla scena della psicoanalisi: Sabina Spielrein. Sul volto di Emma, luce e ombra si alternano rapidamente. “Il 26 dicembre nacque la nostra prima bambina, Agathe, che aspettavo da un po’ quando in agosto giunse al Burgholzli Sabina.” Al posto della smorfia di dolore che mi aspetto, noto con mio grande stupore un abbozzo di sorriso. “In molti hanno parlato del torbido rapporto amoroso fra Sabina, la sua prima paziente diciannovenne con la quale applicò i suoi nuovi metodi psicoanalitici, e Carl, all’ombra della mia devozione di moglie, giovanissima moglie alle prese con le numerose gravidanze. Fu un rapporto che scombussolò non solo la nostra vita matrimoniale, ma la psicoanalisi stessa, che di lì a poco vide acuirsi il contrasto fra mio marito e Freud, con il quale cercai di mediare tramite una fitta corrispondenza epistolare, all’insaputa di mio marito. Il grande Maestro mi ha attribuito il talento di redimere i conflitti. Eravamo uniti da una profonda stima reciproca e con sua moglie Martha avevo creato un legame di amicizia, sebbene fossimo tanto diverse in fatto di convinzioni religiose e tradizioni sociali.”“Di solito vado abbastanza d’accordo col mio destino e vedo benissimo di essere fortunata, ma a volte sono torturata dal conflitto, come fare a valorizzarmi accanto a Carl. Non ho amici, tutti quelli che ci frequentano non vengono che per Carl. Tutte le donne sono naturalmente innamorate di lui e dagli uomini vengo immediatamente scartata in quanto moglie del maestro o dell’amico … Carl mi dice anche che non dovrei concentrarmi solo su di lui e sui bambini, ma come faccio a fare una cosa simile?” (Sigmund Freud-C.G. Jung: Corrispondenza 1906/1914)
Nonostante le sue parole pronunciate con tono pacato, percepisco un urlo represso che giunge da lontano e ancora mi si parano dinanzi immagini in bianco e nero. Una donna dagli occhi gonfi che si tiene il ventre ingrossato e soffoca singhiozzi, una donna che trattiene relazioni con medici e pazienti diffondendo sorrisi e parole concilianti, una moglie accomodante e disponibile dopo violenti eccessi di rabbia. “Il dolore o ti spezza o ti ricompone più forte di prima. È un lungo e penoso percorso quello della redenzione interiore, ma io ci sono arrivata”riprende Emma. “Tra il 1909 e il 1910 ci trasferimmo in questa dimora, il nostro arrivo nella casa sul lago profumava di un nuovo inizio e invece nello stesso periodo un nuovo dramma si stava abbattendo sul ritrovato idillio familiare.” So bene che si riferisce alla morte del padre di Toni Wollf, che a seguito della depressione in cui sprofondò per la perdita paterna divenne paziente di Jung, in seguito sua collaboratrice, esploratrice dell’inconscio assieme a lui e amante, convivente nella casa degli Jung fino alla sua morte. “Non voglio essere ricordata per l’infedeltà coniugale di mio marito. Non ce lo meritiamo entrambi. È una visione limitante della nostra storia, che stride con il pensiero che Carl ha sviluppato e che si rivela ancora in continuo divenire. Capisco bene che, seppure il XX secolo sia ormai passato, a molti la nostra situazione sentimentale appaia intollerabile, inaccettabile. Come tutte le giovani donne giunte troppo presto e inaspettatamente al matrimonio, credevo in un legame esclusivo e indissolubile. Eravamo troppo giovani quando questa scienza così potente prendeva piede e mio marito la trasformava, troppo giovani per capacitarci che ci stava risucchiando prepotentemente. Siamo stati attori su questo palcoscenico, marionette forse di un Fato indispensabile per uno scopo superiore.” Nei suoi occhi si intravede un’espressione di pace. “Toni è stata una mia rivale, ma anche un supporto. Da nemiche, con gli anni siamo diventate alleate. In fondo lei era una anima persa e solitaria, che con la sua intelligenza e cultura colmava un grande vuoto interiore, io avevo una vita piena, godevo del focolare domestico e familiare che ogni donna desidera. Non ce l’avrei fatta senza di lei a comprendere e sostenere sempre Carl. E io stavo crescendo, fuori e dentro me. Da giovane ventenne, moglie devota e innamorata, ero diventata la nota e apprezzata consorte di un grande pioniere di un rivoluzionario metodo di esplorare la psiche umana. Madre indaffarata, appena potevo mi trasformavo in assistente e studiosa e in questo ero incoraggiata da mio marito, l’uomo al quale non avrei mai rinunciato. Era il padre dei miei figli, ma non solo per questo, io non avrei mai rinunciato a restare al fianco del Dottor Carl Gustav Jung! E in virtù del percorso interiore e intellettuale di quest’uomo, io ho riscattato il mio destino. Egli stesso nella sua opera L’io e l’inconscio ha affermato: «A ogni passo verso l’individuazione si produce una nuova colpa, che richiede una nuova espiazione. I nostri peccati, errori e colpe sono necessari, altrimenti saremmo privati dei più preziosi incentivi allo sviluppo.» Proprio così, è stato necessario, per quanto doloroso, agire in vista di un’etica superiore. «Qui si può domandare perché mai sia desiderabile che un uomo si individui. È non solo desiderabile, ma indispensabile, perché l’individuo, non differenziato dagli altri, cade in uno stato e commette azioni che lo pongono in disaccordo con se stesso. Da ogni inconscia mescolanza e indissociazione parte infatti una costrizione ad essere e ad agire così come non si è. Onde non si può né essere d’accordo in ciò né assumerne la responsabilità. Ci si sente in uno stato degradante, non libero e non etico.»
E questo processo di individuazione, il fine dell’esistenza umana, reca in sé i semi per la sviluppo di una nuova collettività. Il dolore mi ha lacerata, ma è servito a elevarmi.” Mi colpiscono la sua calma e la discrezione con cui descrive il lavoro svolto da suo marito, l’ammirazione che ne deriva. Jung l’ha definita “una colomba senza peccato”, una personalità centrata “al suo posto”, alla quale ha affidato la sua intera vita, privata e professionale. Quando nel 1944 Jung attraversò un lungo momento di debilitazione fisica, Emma gli fu accanto con riservatezza e gentilezza e quando successivamente lei si ammalerà a causa di un cancro e devotamente predisporrà, secondo quanto previsto dalla legge svizzera che la sua fortuna finanziaria andasse al marito, preservandolo da preoccupazioni future, l’uomo sprofonderà in lunghi mesi di depressione. La donna che lo aveva sempre sostenuto, aveva sempre organizzato con rigore la loro vita sociale, mostrandosi premurosa verso tutti, dai medici ai pazienti ai quali in occasione di lieti o tristi eventi non si risparmiava in parole gentili o di compassione, che pensava sempre al suo abbigliamento in vista di incontri rinomati, che lo preservava da eventuali disturbi che la numerosa prole e in seguito i nipoti avrebbero potuto arrecare ai sui studi, condividendo con pazienza e premura il suo tempo con loro nello svolgimento di compiti e nell’ascolto attento delle loro esigenze … quella donna, la sua roccia, la Regina, come la definirà alla sua dipartita, adesso era scomparsa, lasciando dentro e fuori sé stesso un segno profondissimo.
“È senza dubbio una triplice sfida quella che venne proposta ad Emma. Quella di assicurare l’equilibrio della sua famiglia, di mantenere la saldezza della coppia e, con pari determinazione, perseguire lo sviluppo della sua vita psichica e intellettiva. Questo triplice obiettivo l’ha tenuta col fiato sospeso. Di fronte alla forza emanante dall’uomo Jung, ha dovuto trovare in se stessa abbastanza risorse per mantenere la propria autonomia. Questo compito l’ha maturata, arricchita, le ha portato vera gioia.” (Amore e sacrificio. La vita di Emma Jung – Imelda Gaudissart)Pensiero e opere di Emma Jung
“Come l’Anima per mezzo dell’integrazione apporta Eros alla coscienza, così l’Animus apporta Logos; e come l’Anima presta alla coscienza maschile relazione e connessione, così l’Animus presta alla coscienza femminile riflessività, ponderatezza e conoscenza”
(Aion-C.G. Jung)
“Nel 1916 entrai a far parte del Club di Psicologia di Zurigo come primo presidente e socia, con mio marito e altri, fra i quali anche la Wollf che ne diverrà presidente nel 1928, con lo scopo di dar vita a un’organizzazione di individui che avevano sperimentato l’analisi individuale.” Continua il suo racconto, questa volta accarezzando una fotografia che la ritrae a pochi anni dalla sua morte. Ha i capelli raccolti, indossa un abito bianco e tiene stretta fra le mani una borsa dello stesso colore. Ma ciò che colpisce è lo sguardo disteso e il sorriso radioso, espressione che non è possibile cogliere nelle fotografie scattate nei primi anni di matrimonio, dove appare quasi sempre austera e in pose rigide. Quando Emma aveva sessantacinque anni, nel 1947, fu pubblicato in tedesco il suo saggio “Animus e Anima”analisi chiara e semplice della realtà psichica delle due immagini archetipiche, ovvero Anima l’immagine femminile nell’uomo e Animus, l’immagine maschile nella donna. L’autrice ammonisce che ciascuna delle componenti non deve essere né ignorata né tantomeno soffocata, ma soprattutto non bisogna farsi dominare da essa. Quello del principio maschile Animus viene definito da Emma Jung un problema. Per intenderci, esso si esprime nel termine greco logos: volontà, azione, parola e pensiero. Me la immagino Emma Jung, illuminata da una sicurezza interiore, scrivere febbrilmente e sostenere le sue teorie che vanno ben oltre la posizione estrema assunta dal movimento femminista. Le parole di Emma sono il lungo risultato di un’Odissea interiore, il viaggio di un’anima che guidata finalmente da un vento favorevole approda a un’isola di pace: “Così come ci sono uomini dotati di particolare forza fisica, uomini d’azione, uomini abili con le parole e uomini di pensiero, anche l’immagine dell’Animus è diversa a seconda del livello di sviluppo o delle doti naturali della donna che lo porta in sé. (…) Alcuni sostengono che la donna non abbia in realtà alcun bisogno di occuparsi di questioni spirituali o intellettuali, giacché questo non sarebbe che un goffo tentativo di imitare l’uomo o l’espressione di un istinto di competizione sotto al quale si nascondono manie di grandezza. (…) Non siamo tentate, come accadde a Eva dalla bellezza del frutto dell’albero della conoscenza, né vi è un serpente che ci incoraggia a goderne: piuttosto, ci è stato dato un ordine. Ci troviamo di fronte alla necessità di addentare questa mela, buona o cattiva che sia, e di riconoscere che il paradiso della naturalezza e dell’incoscienza nel quale molte di noi indugerebbero ancora è finito per sempre. (…) Se la donna non affronta il problema, se non tiene dietro ai progressi della coscienza e dello spirito, l’Animus si rende indipendente e comincia ad agire in modo distruttivo sia sull’individuo che sui suoi rapporti con gli altri. (…) nella donna è presente una certa quantità di libido destinata allo svolgimento di funzioni intellettuali. (…) Pare tuttavia che occuparsi di questioni intellettuali e oggettive non sia sufficiente, e ciò è dimostrato dal fatto che molte donne, pur avendo studiato e pur svolgendo una professione di tipo maschile- intellettuale, nono sono mai venute a capo del problema dell’Animus. Un tipo di educazione e un modo di vivere esclusivamente maschili possono infatti aver luogo solo sulla base di una totale identificazione con l’Animus, cosa che tuttavia implica la soppressione della femminilità. È invece fondamentale che l’elemento spirituale, il logos presente nella psicologia femminile, venga integrato al modo di vivere e alla personalità della donna in modo tale che i fattori maschile e femminile cooperino armoniosamente e che nessuno di essi sia condannato e restare nell’ombra.”
“Psicologicamente il Sé esprime la totalità dell’essere umano che trascende la coscienza. È alla base del processo di individuazione e, attraverso questo lavoro di trasformazione, diventa gradualmente consapevole.” (Aion – C. G. Jung)
La scoperta della strada da intraprendere per completare la propria grande opera è una ricerca lunga e tortuosa, come quella intrapresa dal cavaliere Parsifal per ritrovare il Graal, la coppa che contiene il sangue di Cristo, simbolo femminile, il mistero dell’Anima che viene portata alla coscienza. Per anni Emma Jung studiò e tradusse testi mistici sulla leggenda, in cui ritrovava il riflesso del dramma psichico umano, la ricerca del senso della vita. Le sue numerose ricerche furono pubblicate, per volere di Jung, dall’allieva Marie-Louise von Franz con il titolo “Psicologia del Graal”. La leggenda del Graal esercitò su Emma un profondo fascino per tutta la vita, a riprova del fatto che il percorso verso il suo valore, del Sé, a lungo ignorato, è emerso alla coscienza non senza sacrificio.
È quasi l’alba, le nuvole si stanno dissolvendo e il cielo è rischiarato dai primi spiragli di luce che adesso penetrano attraverso le vetrate che si affacciano sul lago. Il volto di Emma è splendente, irradia la stanza come un astro nascente, una donna che si fa dea, proprio come nelle parole di Cicerone: “Le stelle poi occupano la zona eterea. E poiché questa è la più sottile di tutte ed è sempre in movimento e sempre mantiene la sua forza vitale, è necessario che quell’essere vivente che vi nasca sia di prontissima sensibilità e di prontissimo movimento. Per la qual cosa, dal momento che sono gli astri a nascere nell’etere, è logico che in essi siano insite sensibilità e intelligenza. Dal che risulta che gli astri devono essere ritenuti nel numero delle divinità.”
Si avvicina alle finestre e la sua immagine si confonde nella luce di un nuovo giorno.
E nelle lunghe e fredde notti d’inverno, in cui le donne si ripiegano su se stesse, alla ricerca di un riparo sicuro, ecco che una figura dallo sguardo luminoso e compassionevole appare nel buio, giunta da un lontano passato, ad accarezzare quelle spalle ricurve che presto esse troveranno la forza di sollevare per realizzare il sogno di se stesse. Emma Jung è fra loro.
Altre fonti: “Oltre l’Ombra. Donne intorno a Jung” di Nadia Neri – Borla Editore