Verrà qualcuno a salvarti di Pablo T
Con una scrittura che fustiga e accarezza, tra crudo realismo e suggestivo simbolismo, Pablo T racconta il dramma del tormentoso destino di due anime alla deriva.
“Un potenziale suicida e una ragazza uccisa dalla vita, lì, a girare senza un motivo, a delirare come farebbero i pazzi, i poeti. Senza un perché, senza un fine.”
Può un solo uomo salvare l’intera umanità? La domanda da porsi è, prima di tutto, desidera realmente l’umanità intera farsi salvare? Da chi, da cosa? O forse non è in grado di rendersi conto di essere in pericolo? Eppure c’è chi si ostina, nonostante la ripugnante visione di una collettività alla deriva, a voler credere, nonostante l’apparente cinismo e l’abulia a cui conduce l’aridità emotiva sociale, che dietro il paravento di un teatrino dell’assurdo, ci sia ancora qualcosa che vale la pena recuperare. Andrea Du Preux, protagonista del romanzo “Verrà qualcuno a salvarti” dello scrittore Pablo T, edito nella nuova edizione dalla casa editrice Letteratura Alternativa, è un poeta maledetto, che porta il peso della bestia sulle spalle, perennemente in viaggio, che in una notte stellata approda in un posto sperduto, abbandonato dal mondo, Porto d’Oblio.
Sin dalle prime pagine è palpabile l’atmosfera simbolista che pervade tutto il romanzo. Andrea è denominato lo straniero, non si sa da dove provenga, né dove abbia intenzione di andare, non appartiene ad alcun luogo fisico, le radici che contano sono quelle dei ricordi e delle cicatrici dell’anima. Anche dai tratti somatici non è possibile cogliere una precisa identità etnica, Andrea Du Preux è un vagabondo, solitario e squattrinato, che incarna la figura ibrida dell’Eroe moderno, in perenne conflitto con se stesso, risucchiato dalla sua duplice natura, diabolica e angelica al tempo stesso, egli è, dunque, l’immagine di tutti gli uomini in tutti i luoghi.
Quello che Andrea ha con la vita è un rapporto tormentato, di odio e amore: odio per l’indifferenza, l’ingiustizia e l’ipocrisia alle quali l’uomo si è prostrato, e amore per la speranza mai sepolta di intravedere una via di uscita dai falsi ideali a cui l’umanità si è venduta, perché “appena nasce… l’uomo è libero, poi iniziano l’emulazione di altri uomini, l’eredità del sistema, le regole generazionali, gli standard qualitativi, la rincorsa al denaro… ed ecco che l’uomo diventa gente.” Di lui si scopre da subito che è uno scrittore, che si fa portavoce del malessere dell’umanità, è l’attore paralizzato sul palcoscenico della vita e la parola diventa l’unica arma d’azione.
“Ogni scrittore dovrebbe essere una porta sulla fuga, un prete matto, un passaggio della strada polverosa: tutto questo insieme.”
Porto d’Oblio diventa allora la tappa ideale per quello che ha deciso sarà il suo ultimo giro di giostra. Disilluso e deluso dalla visione di una collettività alla deriva, che di umano ormai ha ben poco, nelle sue peregrinazioni solitarie sulla spiaggia libera al vento i suoi pensieri, nasconde al buio della notte le sue fottute paure, rischiara all’alba le sue promesse mancate. Ma la vita è un’astuta meretrice, che vende la sua ennesima vittima per una nuova scommessa in una bettola che, attraverso le esalazioni del suo fetore, nasconde la vera ricompensa. Hotel Hiroshima è la pensione fatiscente in cui soggiornerà Andrea, gestita da Cloe, madre dal fisico avvenente e l’anima sbiadita che ha da poco superato la quarantina, assieme alla figlia sedicenne Eva, dall’animo tormentato. Vittima di violenze da parte del padre, fra i silenzi materni, Eva si porta la morte dentro. Nel romanzo si affronta, infatti, un tema sociale scottante, quello della violenza domestica, perpetrata fra le mura silenziose di un’omertà contro natura. Cloe è consapevole di quello che accade a sua figlia, ma finge di non vedere, vittima ella stessa di una prigione emotiva che le impedisce di ribellarsi, in primis a se stessa, a una vita insoddisfacente, di cui non è pronta a prendere coscienza. Tradita e maltrattata, nel fisico e nell’anima, dalle due figure più importanti della sua vita di bambina, Eva è la piccola tentatrice di vita, che divide corpo e anima con i suoi demoni interiori. Vende il suo corpo ai clienti della locanda credendosi libera di poter disporre di se stessa senza aver più niente da perdere. E intanto le ferite riaffiorano in quei giochi perversi di violenza che impone al suo corpo. Dotata di una sottile intelligenza, sintomo di una sensibilità d’animo violata dal disincanto di una esistenza ingiusta e avara di amore, si lega subito allo straniero venuto dal mare che ha bussato alla porta della sua miserabile vita. Eva e Andrea sono l’esempio dell’incontro di due solitudini divorate da un vuoto interiore, dissacrate dall’odio per il genere umano, che si attirano e si respingono in un andirivieni di emozioni forti che ora spingono verso gli scalini più alti che conducono al Paradiso, ora premono verso il basso di un abisso di inevitabili sofferenze. Così, nella nebbia che avvolge la spiaggia di Porto d’Oblio, Eva travolge con le parole Andrea: “Dimentica straniero (…) respira le nuvole e piacevole accogli la deriva, bacia l’abisso e cadi dalle ciglia, come occhi che rotolano, come vita che, infine, si racconta.” Ogni volta che Andrea tenta di porre fine alla sua vita, appare Eva con le sue suadenti e perturbanti parole sulla Vita che lo fanno desistere. “Quanta meraviglia c’è nello sbadiglio di un bambino, nella pioggia di luglio, in una frase inventata, in un abbraccio improvviso. Quante meraviglia c’è nel fresco delle chiese, in un Cristo che non accetta offerte e muore, in una chiacchierata tra un cartone e un uomo che ha perso casa e affetti. Quanta meraviglia c’è in una tela bianca, nell’aria umida del mattino, in occhi che raccontano e labbra che tacciono, in un whisky liscio, in un suicida che prega, in un treno che corre, in una parola che salva e in un’altra che uccide… quanta meraviglia c’è.” Eva cerca di farlo capitolare di fronte alle sue avance, ma Andrea non cede, in fondo sono figli della stessa costola incrinata di quell’esistenza che ha mandato alla deriva le loro anime. Entrambi non possono che legarsi ai loro simili, ai quali porgere la mano per lasciarsi condurre verso un sentiero più sicuro. Così, per Eva ci sarà un miracolo inaspettato ad attenderla e Andrea farà i conti con il suo duro passato, segnato da incontri e perdite importanti, pronto a salpare verso un nuovo porto. “Ci sono cose che succedono e altre che fai accadere, le prime non le puoi governare, ma le seconde possono essere la salvezza della tua anima o la tua eterna dannazione.” La salvezza, allora, arriva da chi meno te lo aspetti, lì dove non sorge il sole, dove l’Amore è violentato dall’Indifferenza e la rabbia trattiene slanci di speranza. Ma è quello il posto in cui c’è ancora mare, che circonda, con le sue braccia di bacino senza fine, le esistenze di un’umanità smarrita. Lì ogni uomo sosta alla deriva sulla propria spiaggia, ad osservare il flusso della vita, senza mai trovare il coraggio di seguirlo veramente. Sarà colui il quale imparerà a guardare gli abissi che saprà riconoscere una nuova speranza, in grado di alleggerire il peso che ogni giorno aumenta sulle sue spalle, a ogni passo della sua ancora sconosciuta e sorprendente occasione che la vita regala. E c’è ancora mare …“Non c’è rivoluzione più grande dell’amore, perché lì dove arriva…niente è mai più come prima.”
Rosa candida di Audur Ava Ólafsdóttir
Il miracolo della paternità dal ventre desolato dell’Islanda al cuore luminoso della Francia
Ci sono libri che la spuntano silenziosamente. Come? Grazie alla dedizione di lettori e librai che prendono a cuore una storia e la trasportano sulle ali del vento del passaparola. È accaduto al romanzo dell’autrice islandese Audur Ava Ólafsdóttir, “Rosa candida”, pubblicato da Einaudi nel 2012. Si tratta di un autentico caso letterario, il cui successo è stato decretato dal popolo dei lettori. Il romanzo si è infatti aggiudicato una serie di premi, come il Grand Prix des lectrices de Elle, il Prix Page des Libraires 2010, il Prix des libraires du Quèbec e il Prix des Amis du Scribe 2011.
Protagonista della storia è Lobby, ventidue anni, che vive nelle terre fredde e incolte dell’Islanda con l’anziano padre, premuroso ottantenne, e il gemello autistico Joseph. Ha una figlia, Flora Sol, frutto di un breve incontro avuto con un’amica all’interno della serra dove sua madre, morta alcuni anni prima durante un incidente stradale, coltivava fiori e piante. Della sua breve notte d’amore Lobby non ricorda i tratti del viso dell’amante, ma definisce quell’incontro come un momento fugace avvenuto in un “quinto di notte”. Studente brillante, contrariamente alle previsioni paterne, ha deciso di non iscriversi all’università e di accettare la proposta di un lavoro come giardiniere, data la passione per le piante ereditata da sua madre.
Il racconto si apre infatti con la cena di commiato di Lobby dalla sua famiglia, prima della partenza verso un luogo non ancora definito. Lungo il tragitto Lobby affronterà una serie di vicissitudini che formeranno il suo carattere. Lontano, proprio laddove inconsciamente pensa di nascondersi, nella completa solitudine, imparerà ad ascoltare il suo corpo, ad approfondire, al punto da affrontare, finalmente, la sua ossessione per la vita e la morte, fino a quando, ancora una volta, la vita lo sorprenderà portando a compimento la sua crescita di uomo.
La narrazione in prima persona, caratterizzata da uno stile limpido e lineare, è scandita da lunghi monologhi interiori che conducono il lettore lungo la crescita interiore del protagonista. Lobby parte alla ricerca di se stesso e lo fa nella più completa solitudine, con la sola compagnia delle sue piante di rose rare a otto petali. L’abilità dell’autrice sta nel guidare il pubblico verso un viaggio sconosciuto, scoprendo la meta a piccole tappe, tenendolo incollato alle pagine in un crescendo di interrogativi e curiosità.
Rosa candida è uno di quei libri che arriva lentamente al cuore, in silenzio, con estrema delicatezza, proprio come un fiore che apre i suoi petali al sole, inchinandosi al ritmo della natura. Come il protagonista, anche il lettore vivrà il passaggio dall’ombra alla luce, dall’incertezza e confusione interiore approderà a una matura consapevolezza del proprio essere. Lobby soffre il mar di mare, ha bisogno di un terreno stabile sul quale piantare il seme delle sue speranze e osservare germogliare la propria esistenza, ponendosi in ascolto.
Per quanto riguarda invece l’impianto narrativo, il libro può apparire carente in molti punti, fra i quali la mancata caratterizzazione dei personaggi. A volte bastano poche frasi per rendere indimenticabile un personaggio anche secondario, in questo caso molti appaiono più comparse funzionali di una scena incentrata tutta sul viaggio interiore del protagonista. La parte centrale è un po’ lenta.
Tuttavia il successo del romanzo consiste nel garbo con cui l’autrice descrive l’indole marcatamente femminile del protagonista, che nel corso della storia maturerà sentimenti materni. Lobby è un ragazzo che sin dalla sua infanzia rivela una spiccata sensibilità, facendo sua la passione materna per i fiori e le piante e sviluppando, nel tempo, la curiosità di veder fiorire qualcosa al di là di un terreno sterile e ostico come quello islandese. E ancora, il viaggio inteso come trasformazione, la cura del leggendario roseto abbandonato alle incurie del tempo che farà rinascere, sono tutte tappe che lo condurranno a una sorprendente scoperta: la paternità. L’autrice fa sbocciare questo nuovo sentimento in Lobby proprio come accade con un fiore raro e sconosciuto ai più. Fra intemperie e difficoltà, il piccolo germoglio volge i suoi petali a una nuova luce, mostrando infine tutto il suo splendore. Quando si ritroverà a dover accudire la sua bambina, Lobby si scoprirà perfettamente a suo agio a svolgere le incombenze quotidiane che richiedono la crescita di un figlio. Cucinerà cibi nutrienti, penserà alla spesa, porterà a spasso la bambina mentre la madre (alla quale ha preservato con discrezione uno spazio tutto per sé) studia per cercare il suo posto nel mondo, spalmerà creme profumate su quel corpicino delicato … insomma, fra le righe l’autrice tratteggia la figura ideale del papà che molte mamme vorrebbero al loro fianco, auspicando l’avvento di un legame basato sulla parità dei sessi, un’utopia che tanto utopia oggi in fondo non è. Il ruolo dei padri all’interno della famiglia si è decisamente evoluto. Di padri attenti, premurosi, presenti, che partecipano assiduamente al percorso di crescita dei propri figli ve ne sono, ormai, e rappresentano un concreto esempio di emancipazione del ruolo maschile, fino a poco tempo fa ancora rinchiuso in stereotipi da macho e individuo che cela i propri sentimenti dietro una corazza impenetrabile. Lobby rappresenta quella gradevole ventata di novità, l’affermarsi di quella ambita libertà che ciascun individuo possa rivestire con autenticità il proprio ruolo all’interno di una relazione, facendo pace con i propri demoni interiori, accettando la parte femminile e maschile che alberga in ognuno di noi, indipendentemente dal sesso col quale si nasce.
“Madre e figlia mi scrutano: addosso ho la camicia bianca appena stirata e i miei capelli sono tagliati di fresco. Meglio di così… Saluto Anna con un bacio sulla guancia e sorrido alla bimba che mi sorride di rimando: ha un viso di porcellana, con le fossette sulle gote rosa e le labbra umide. Pare che si sprigioni una specie di luce da questa creatura che ora tende le braccia verso di me.”
Seta di Alessandro Baricco
Seta di Alessandro Baricco: la storia di chi un po’ assiste alla propria vita da lontano e un po’ si lascia tentare… da lontano
Terminata la lettura di “Seta” ho chiuso il libro e, sdraiata sul letto, ho socchiuso gli occhi immaginando uno scampolo di seta scivolare lungo il mio corpo. Lo vedevo, quel fascio di trama sottilissima e impalpabile cambiare colore, dal grigio diventare bianco, accecare la mente e poi pian piano confondersi con l’ocra chiaro della mia pelle. E allora l’ho avvertita quella sensazione di profonda voluttà colpire le viscere, la vibrazione dell’attimo sospeso nel tempo che ti fa smarrire in un vortice di emozioni a cui difficilmente darai un nome, l’attimo della perdizione che però dà senso per un solo breve e intenso attimo a una vita in attesa di essere vissuta. Questo è Seta di Alessandro Baricco, un libro piccolo piccolo, che per poche ore regala un turbinio di sensazioni: dall’inquietudine dell’ordine che è la vita del protagonista Hervè Joncour all’inizio della storia, al tumulto che la decisione di coltivare bachi da seta porta nella sua vita e nella piccola città francese di Lavilledieu, dallo stupefacente incanto di suoni e colori del Giappone alla desolazione e prostrazione di quelle terra lontana durante la rivolta sociale, dalla nostalgica malinconia di qualcosa che non c’è stato alla compita rassegnazione di un passato irreversibile, dall’amarezza della perdita della persona amata fino alla scoperta che ciò che si poteva avere è andato perduto per l’abbaglio che ha reso ciechi per tutta la vita. Una storia dalla trama che fluttua come il volo di un airone al tramonto, che si confonde con il cielo. Il tempo di spiegare le ali e le parole sono già finite. Ma i pensieri restano, come la scia fra i nembi del cielo, e gli interrogativi girano in tondo sulla mente del lettore. Il breve romanzo trasporta lontano, in quei luoghi conturbanti e ancora del tutto sconosciuti che tanto attirano il pubblico. Baricco scrive Seta nel 1996 quando la passione per il Giappone non è ancora così marcata come ai giorni nostri, quindi anticipa una tendenza per la filosofia zen o l’estetica orientale da cui lo stesso Steve Jobs è stato contagiato, definendola «minimalista e limpida». La storia è ambientata nella cittadina di Lavilledieu in Francia nel 1861, data che, ricorda l’autore, coincide con la guerra civile che Abramo Lincoln combatte in America e con la stesura di Salambò di Flaubert, due uomini attivi e decisivi per la storia sociale e letteraria del mondo di quegli anni. Di Hervé Joncour invece, l’autore dice che era “uno di quegli uomini che amano assistere alla propria vita ritenendo impropria qualsiasi ambizione a viverla.” Si tratta di un giovane trentaduenne che si occupa della compravendita di uova di bachi da seta in Africa e in altre nazioni d’Europa. È sposato con Hélène e i due non hanno figli. Quando un’epidemia colpisce i bachi da seta nei Paesi con i quali commercia Joncour, per non mettere a rischio il suo commercio, questi è costretto a intraprendere un lungo e difficile viaggio in Giappone, un’isola «piena di bachi… in cui nessuna malattia arriverà mai», un posto definito «fino alla fine del mondo». Laggiù l’uomo ci tornerà più volte e per ogni viaggio viene descritto il medesimo percorso, a differenza di un particolare che starà al lettore scoprire, è questa una piccola curiosità sulla quale riflettere. In Giappone Joncour è accolto da un aristocratico, HaraKei, nella cui abitazione incontra una giovane donna dagli occhi che «non avevano un taglio orientale». Fra i due c’è subito un incontro di sguardi e una segreta intesa, nonché vibrante attrazione. Dalla ragazza Joncour riceverà un biglietto che si farà tradurre in Francia da una meretrice di lusso di origine giapponese. In seguito, durante uno dei ritorni nel lontano Oriente, Joncourt troverà solo paure e rovine in Giappone, ma della giovane non c’è traccia, solo un inaspettato ed enigmatico messaggio d’amore. Disorientato rientra in Francia, con il peso addosso di «uno strano dolore […] Morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai». Un giorno l’uomo riceve una missiva, pare, dal Giappone e ancora una volta, per tradurla ricorrerà alla misteriosa Madame Blanche. È intorno a questa lettera che si dipana un sorprendente mistero della trama. A cercare una morale della storia ci si può riferire alla sì apparentemente banale constatazione che ciò che tanto cerchiamo nella vita in fondo è a portata di mano, ma bisogna ammettere che si tratta pur sempre di un’incontrovertibile e inconfutabile verità, almeno a coloro ai quali la verità non sfugge come seta fra le dita. Baricco è uno di quegli autori, si trova spesso scritto da molte parti, che o lo odi o lo ami. Io sono di quelle lettrici dalla posizione meno drastica, che preferisce mantenere aperta l’opzione del dubbio. Di Baricco ho letto anche altri libri e apprezzo la sua capacità di voler giocare con la scrittura. Alla fine della lettura dei suoi romanzi al lettore resta in bocca un retrogusto di sapori misti, dall’agro al dolce, dal salato all’amaro, un sapore insomma spesso indefinibile, ma c’è pur sempre qualcosa di piacevole che ti piace tenere sospeso fra le labbra e lo stomaco. E intanto si apre la gabbia delle emozioni e i pensieri volano liberi, lontano. Dove andranno, o se si fermeranno mai, non è dato saperlo, così come per la voglia di leggere questo libro che arriverà, forse, fino al lettore.La musa di me stessa (poesia bipolare) di Silvia Canonico
“In realtà dovremmo imparare ad amare la nostra solitudine, restare a pezzi e sopportarci, accettarci così, esseri incompleti e soli, ma questo gioco è feroce, più violento di quanto si possa umanamente pensare e non esiste vittima, né carnefice, ma solo questo eterno conflitto, di corpi mutilati, presi per darsi, solo in affitto” (Silvia Canonico)
Quante volte abbiamo letto i versi di poetesse lacerate nell’anima da un tarlo che rode incessantemente, quello che molti critici definiscono “male di vivere”? Quante volte abbiamo intravisto stralci di vita tradita in quelle parole drammatiche, con cui donne fragili hanno aperto un varco profondo nella storia, dove noi donne contemporanee non abbiamo voluto guardare, perché noi magari una vita decente l’abbiamo voluta costruire, con le nostre scelte ponderate?
Con le nostre certezze avanziamo decise in una realtà preconfezionata e non ci tange la storia di chi si accascia dentro sé stessa e rimane sospesa in una dimensione ambivalente.
Essere sé stessi o non esserlo, questo il dilemma delle anime sensibili, dotate di un’acutezza olfattiva per le delusioni in agguato, di un udito affinato da anni di rumori molesti che pungono addosso come ingiuste percosse.
La vita a volte non è clemente con tutti, quindi come reagisce chi crede di non potercela fare in un mondo inadeguato alle proprie aspettative, quando nessuno osa più fidarsi nel momento in cui si avanza a tentoni nel fango e gli altri vedono solo sudiciume? La vita a volte ci porge una mano e quell’appiglio spesso si chiama scrittura.
Così nel suo libro “La Musa di me stessa” edito da La Signoria, Silvia Canonico, indomita poetessa degli eccessi, apre il suo infernale teatrino interiore “come un sipario che non sa se rivelare gli atti osceni di questa tragedia comica infinita che io son solita chiamare vita“. E allora scopriamo che “Niente è peggio di quel che sembra, niente, tutto può solo migliorare, nella testa piena di mostri e tempesta, pure queste parole, se lasciate da sole sembrerebbero noiose, ma io sparo disperazione e per chi legge, per chi mi ama e chi mi odia, non ho compassione, solo rabbia oppure devozione“.
Tra le pagine si alternano, in una confessione sincera, una parte in prosa dalla scrittura istintiva, automatica, che trascina il lettore in una spirale di delirio, a versi poetici che raggiungono apici lirici, una parvenza di pace interiore che sembra indicare la strada a un’anima confusa nel mondo, dove “Il contatto con la realtà era solo sfregamento occasionale, un incrocio sempre più sporadico e privo di contatto umano”.
Attanagliata nel suo tormento interiore, la voce narrante si muove come un tassello fuori posto dal mosaico dell’ordinarietà, che stona in quella facciata di perfezione che è l’illusione di un’esistenza che gli spettatori passivi sentono di poter controllare. “Non mi interessa essere diversa, è già tanto riuscire ad essere me stessa, non ho un vero motivo per vivere, tanto meno uno valido per morire, ho passato il limite, sono andata oltre e adesso mi trovo “oltre” e qui ci si sente soli”.
“La musa di me stessa” è un libro di quelli che, vedendolo, si pensa possa esser letto nel giro di poche ore con ingordigia. Niente di più sbagliato. Inghiottito dai flussi di un mare nero, annaspando fra le onde di angosce e tormento, il lettore dovrà concedersi lunghe pause per riprender fiato e capire che la disperazione non si può ingollare repentinamente. La disperazione serra, soffoca, trascina con sé, se si è veramente in grado di sentirla, o meglio, se ci si prova almeno un po’. Quando non ci appartiene è difficile avvicinarsi e dirle: “ti capisco, ma … “. Alla disperazione si deve solo sfiorare le mani, parlare con le carezze, quelle che sanno dire più di mille parole.
Se alla vita togli i fili, questa penzola in una zona oscura, inesplorata che fa spavento e allora si parla di pazzia. Ma tutta quella rabbia, quell’urlare al mondo col linguaggio di graffi autoinflitti all’anima, di morsi all’aria inconsistente di un vivere senza senso, di buchi al cuore e ferite sulla lingua, vuole solo essere ascoltata, ma alle orecchie del mondo parla un linguaggio indecifrabile, dai suoni e dai segni inconcepibili, e allora li si definisce sbagli. Le orme di questi orrori brancolano nel buio e quei corpi senza voce si rintanano in ghetti maleodoranti, nutrendosi delle proprie colpe, fino a riconoscersi nelle loro ombre, inconsistenti e ignote.
Se solo potessero vedere la scia luminosa che lascia il loro passaggio, se solo rovesciassero lo specchio che l’umanità disincantata porge loro, allora sentirebbero che le note che fuoriescono dalla gabbia spalancata del cuore assomigliano a quelle di un usignolo in volo libero verso la vita, la loro. Ed è quella vita che inseguono, in ogni istante, a volte senza rendersene conto, amandola, famelicamente, come nessun altro, forse, è in grado di fare.
E Silvia Canonico lo sa, che la vita le appartiene, e lei vuole afferrarla con forza, anche a costo di non equipararsi a coloro che tentano di curarle l’anima a colpi sordi sul cuore. E muore e risorge ogni giorno, senza conoscere fino in fondo quanta fierezza si cela in questo mettersi a nudo davanti al mondo.
“Se bastasse sorridere con le labbra
sarei salva
ma si sorride con gli occhi
col cuore
e i miei
non son bravi a mentire”
La strategia di Peter Pan di Aldo Carotenuto
Da sindrome, il peterpanismo diventa àncora di salvezza in una società che spinge a soffocare creatività e immaginazione.
Quante volte ci capita di pronunciare frasi del tipo “come mi piacerebbe tornare bambino”, o meglio ancora “come sarebbe bello restare bambini per sempre”? Anche solo per pochi attimi tornare nei panni dell’infante che siamo stati ci permetterebbe di assaporare ancora quel piacevole gusto di grandiosa onnipotenza che si prova durante l’infanzia. Un bambino è felice, si compiace del suo essere al mondo intento a esplorare con il sentimento della meraviglia di chi vede per la prima volta le cose, per scoprire qual è il suo posto fra le creature dell’universo. Eppure, quando ci troviamo di fronte a un adulto che vive la propria esistenza inseguendo sogni e facendo della fantasia il suo ideale di vita, lo incolpiamo di comportamenti infantili, inadeguati alla sua età, accusandolo di fuggire dalla realtà e finiamo per denominarlo un eterno Peter Pan. C’è qualcosa che non torna in questo atteggiamento palesemente contraddittorio, di cui pochi sembrano rendersi conto, forse perché in realtà non si ha piena consapevolezza di cosa la figura di Peter Pan rappresenti. Si legge nel finale del celeberrimo romanzo “Peter Pan” di J.M. Barrie: “Pan, chi o cosa sei tu?” “Io sono la giovinezza e la gioia. Sono un uccellino appena uscito dal guscio.” Cosa fa un uccellino appena uscito dal guscio, allora? Si osserva intorno, esplora il mondo per la prima volta. E come lo fa? Attraverso la meraviglia. Stupendosi, va incontro al mondo e, spinto dalla curiosità, vuole conoscere sempre di più. Non è in fondo quello che fanno tutti i bambini quando cominciano a scoprire suoni, odori e movimenti? Sorridono di rimando, portano tutto alla bocca, si mettono in pericolo. Imparano cioè a conoscere il mondo e, le armi a disposizione per plasmare il mondo a loro piacimento, sono per l’appunto curiosità e creatività. Su questa controversa questione psicologica che caratterizza sempre più spesso la nostra vita di fronte a insoddisfazioni e vuoti interiori, talvolta incolmabili semplicemente perché non possediamo gli strumenti psicologici per analizzarli a fondo, fa riflettere i lettori lo piscoanalista e scrittore italiano Aldo Carotenuto, che nel suo breve saggio del 1995 “La strategia di Peter Pan”, pubblicato dalla Bompiani, rivendica l’importanza di salvaguardare il proprio potenziale creativo e di preservare prerogative tipicamente infantili come l’identificazione con la realtà e la partecipazione affettiva al mondo. La società contemporanea in cui predomina una cultura razionalistica, fa notare Carotenuto, tende ormai a circoscrivere il modo di pensare del bambino come qualcosa di poco pratico. L’autore afferma infatti che “La fantasia, la meraviglia, la ricerca di contatto, mortificate e scoraggiate dall’attuale sistema di valori perché poco necessarie alla logica della produttività e del pragmatismo, vengono considerati poco “pratiche” anche per i bambini. Apprendere più che giocare, prepararsi alle future attività più che immergersi nel magico fluire del presente, differenziarsi più che porsi in relazione, sono gli attuali imperativi”. È sempre più raro, se ci pensiamo, vedere un adulto giocare con un bambino, preso com’è dalla sua vita frenetica e dal tentativo di dettare regole nella presunzione di riuscire ad avere il controllo su cose e situazioni. Ecco allora che il gioco non è più inteso come espressione dell’interiorità del bambino, della trasformazione del mondo attraverso la fantasia, l’intraprendenza e la voglia di innovarsi. La funzione del gioco nell’infanzia, hanno sempre affermato i pedagogisti, è la capacità di creare la realtà affidata al bambino e di mettersi in relazione con l’alterità. Il gioco quindi rappresenta il seme dal quale germogliano abilità e attitudini utili al futuro del bambino. Privandolo invece di spazi e adeguate occasioni di gioco, si rischia di sostituire la dimensione della spontaneità e dell’immaginazione con un ferreo pragmatismo, che induce a vivere la realtà come una sfida fra migliori. Se qualcuno di voi ha avuto modo negli ultimi anni di frequentare palestre o spazi adibiti ad attività ricreative, si sarà di certo reso conto di quanto il pubblico composto da genitori, più che a essere interessato alla partita o all’allenamento in sé, sia invasato piuttosto da spirito di competizione. Non si gioca più per il gusto di provarci, o di misurarsi con sé stessi, si gioca per vincere, per essere i migliori. Sembra essere questo l’unico strumento a disposizione per affrontare il mondo nelle mani dei bambini, sempre più egocentrici e poco attenti e rispettosi verso gli altri. I bambini sembrano essere trofei nelle mani degli adulti da mostrare con vanità al mondo. Tornando al testo in questione, Carotenuto scrive: “il genio della fanciullezza” è presente negli individui creativi, o in quelli eccentrici che rifiutano di accettare supinamente le norme di condotta che la società impone”. Spesso infatti gli individui creativi, gli artisti in special modo, descrivono la loro attività come “gioco”. E invece a quanto pare oggi il gioco, così come viene proposto dagli adulti, si svuota del suo originale significato perché “I bisogni del bambino vengono ignorati a scapito dei bisogni dell’adulto, se non, ancora peggio, i bisogni dell’adulto vengono proiettati e tradotti come bisogni infantili”. Un altro riferimento al riguardo, ovvero le parole tratte dal Vangelo: “Lasciate che i bambini vengano a me”, rivela un tipo di approccio semplice e ingenuo verso la vita che si apprende stando accanto ai bambini, un modello che la società contemporanea definisce in un certo senso un pericolo da cui il mondo infantile deve essere difeso. Ecco allora che l’autore sofferma la sua attenzione sull’importanza del ruolo che l’adulto esercita sul bambino. L’adulto, con i suoi atteggiamenti e le sue parole, non si rende conto di quanto questi nascondano molto spesso idee e azioni mancate nel loro stesso vissuto passato. Dalle parole di Jung si evince allora che “Ciò che di norma influisce di più sul bambino a livello psichico è quella vita che i genitori (e i progenitori, poiché si tratta del fenomeno psicologico primordiale del peccato originale) non hanno vissuto … Da qui si sviluppano i germi più virulenti” e quindi, aggiunge Carotenuto nella sua argomentazione “Il bambino è in qualche modo chiamato a rispondere dell’ombra dei suoi genitori.” E, per finire, “Ciò che i genitori non vivono si riverbera malignamente sul bambino e lo investe con una prepotenza alla quale egli non ha i mezzi per opporsi adeguatamente”. Se teniamo conto di quanto dimostrato dai più noti pedagogisti come Winnicot e Klein, l’evoluzione del processo di conoscenza nel bambino è la volontà di creare il mondo dal niente. Il bambino quindi crea a prescindere dal fatto che una realtà esista già, dato che, specifica lo psicoanalista italiano “la creatività equivale piuttosto alla capacità di mantenere durante tutto l’arco della propria esistenza una visione personale delle cose, una potenzialità creativa con la quale in ogni momento si può dare inizio a una nuova genesi del mondo”. Riferendosi invece all’antropologo Montagu, il quale riteneva che le domane dell’infanzia sono “la linfa vitale della scienza, della filosofia e della mente attiva e fantasioso in ogni campo della vita”, Carotenuto intende dimostrare che i bambini sono dotati di un pensiero divergente, ovvero la capacità di elaborare “risposte nuove rispetto all’informazione data”. Questo tipo di pensiero, presente in maniera rudimentale già nella primissima infanzia, è tipico delle menti creative. “Potremmo anche affermare che è il nostro bambino interiore il vero e proprio profeta dei nostri futuri destini e, anche, dei nostri futuri conseguimenti …. Il bambino interiore è il nostro sogno in azione, il nostro stesso futuro in attesa di esplicarsi” Il bambino, possiamo quindi concludere, emerge come individuo unico dotato di capacità di rispondere all’ambiente che lo circonda in maniera personalissima perché, come dichiara l’autore stesso “Siamo esseri unici, e solo coltivando la nostra differenza potremo realizzare le potenzialità della nostra umana natura”, e sembra scontato aggiungere a questo punto, a patto di non tradire la nostra parte bambina in età adulta.Una donna spezzata di Simone de Beauvoir
Donne non si nasce, si diventa.
È questo lo slogan col quale Simone De Beauvoir riesce a incitare tutt’oggi un pubblico femminile desideroso di riscattarsi da una condizione di stallo interiore e sociale. Ed è proprio con spirito anticonformista e aspettative di rivincita che molto spesso ci si accosta alla lettura del suo libro “Una donna spezzata”, scritto e pubblicato nel 1967. In realtà il romanzo tutto è, tranne che un testo dal piglio ribelle. Le tre protagoniste dei racconti “Una donna spezzata”, che dà il titolo all’intera raccolta, “L’età della discrezione” e “Monologo”, alle quali l’autrice dà voce, sono donne che a un certo punto della loro vita ricevono un duro colpo e devono abituarsi a fare i conti con una frattura interna, insaldabile. Monique, moglie devota, mamma premurosa e massaia appagata, scopre il tradimento da parte di suo marito con una avvocatessa spregiudicata alla quale l’uomo non vorrà rinunciare, nel momento in cui le figlie, che ormai si sono create una propria vita, si ritrovano lontane da lei. “Quando si è talmente vissuti per gli altri, è un po’ difficile riconvertirsi, mettersi a vivere per se stessi.” Nella più completa solitudine, dovrà affrontare un tormento interiore fatto di angosce e di ossessioni, amplificate al punto da domandarsi se in fondo è mai stata davvero padrona della sua esistenza.“In realtà mi trovo disarmata, poiché non avevo mai pensato di avere dei diritti.”
Nei confronti del marito si sforza di mantenere contegno, si impone di essere allegra e comprensiva, amichevole e paziente, ma nel diario che scrive, quello a cui affida, come ella stessa ammette, parole che nascondono altre verità, emergono collera repressa, sgomento, paralisi, assoluta svalutazione. “Adesso dovrei mettermi decisamente contro di lui. Ma non ho la forza d’impegnare una lotta simile.” Suo marito ha rotto il patto, ha tradito il loro codice di coppia, lui che in sua moglie vedeva che tutto era armonioso, mentre “Le altre donne gli sembravano sempre o troppo passive o troppo agitate.” In Monique è in corso una guerra. “Passiamo sotto silenzio certe sensazioni di malessere, disagio, perché non sappiamo trovargli un nome, che però esistono (…) Ho lasciato atrofizzare la mia intelligenza; non mi coltivavo più; mi dicevo: «più tardi, quando le bambine mi avranno lasciata». Monique sprofonda in un baratro di sentimenti incostanti e feroci, inveisce contro il marito e la sua amante e allo stesso tempo ferisce se stessa, lasciandosi andare a incubi e al buio della sua anima ferita. Quando si recherà a New York a trovare sua figlia minore, ormai donna indipendente, affermatasi sul piano professionale, le chiederà di descriverla, la ragazza, prontamente, le risponderà: “Manchi di difesa, è il tuo solo difetto”. Tra i pensieri ancora annebbiati, Monique dirà in fine a se stessa: “Io non avevo altro ideale che quello di creare della felicità intorno a me. Non ho reso felice Maurice. E nemmeno le mie figlie, sono felici. E allora? Non so più niente. Non soltanto chi sono io, ma come bisognerebbe essere.” Qualcosa inizia a smuoversi dentro di lei e, con grande timore, si avvia verso il suo ignoto futuro. Della seconda protagonista non si conosce il nome, ma viene subito presentata come un’insegnante di letteratura francese, dalle idee politiche di sinistra, che ha alle spalle rinomate pubblicazioni come scrittrice, tranne l’ultima che si è rivelata un insuccesso. È una donna emancipata dai solidi principi etici e politici che, giunta a un’età matura, fatica ad accettare la nuova piega che sta prendendo la vita professionale del figlio Philippe, il quale ha deciso di lasciare l’Università. Persino nell’aspetto fisico le sembra cambiato. “Sono io che ho foggiato la sua vita. E adesso la guardo dal di fuori, da lontana spettatrice. È la sorte comune di tutte le madri: ma chi si è consolato col dirsi che la sua sorte è la sorte comune?” Le sue reazioni appaiono eccessive nei confronti del giovane che la pensa diversamente da lei, non approva i suoi nuovi ideali e a nulla valgono i tentativi del marito che sembra valutare i nuovi eventi con più naturalezza e rispetto, al punto che deciderà di allontanare il figlio dalla sua vita. Appare così una madre egoista e presuntuosa che, a differenza di Monique, affronta il suo ruolo materno con grande inflessibilità. Le due rappresentano il rovescio della stessa medaglia: laddove la prima si sente invincibile, fra le mura domestiche, l’altra percepisce l’instabilità del suo essere donna, impeccabile, che vuole ottenere tutto, successo e consenso da tutti. La sua smania di controllo viene meno nel momento in cui suo figlio le si oppone, mostrandosi come individuo altro da sé, che non rispecchia il risultato dei suoi insegnamenti. Tutta la sua intransigenza di donna solida comincia a sfaldarsi quando, passeggiando accanto al marito, ammetterà: “Ad ogni modo, è vero che la vecchiaia esiste (…) E non è affatto divertente sentirsi finiti.” Una strana consapevolezza si affaccia ai suoi nuovi orizzonti dove le paure fanno capolino tra incertezze e nuove speranze. “Potrò ancora lavorare, sì o no? Il mio rancore verso Philippe s’affievolirà o no?” Il personaggio femminile dell’ultimo e terzo racconto, il più breve, è Murielle, donna che non ha ancora trovato il suo posto nel mondo e viene sorpresa nel momento più doloroso della sua vita: sola e abbandonata dagli affetti più cari, madre e amanti, soffre atrocemente per la perdita della figlia adolescente che si è suicidata e per aver perso la custodia del suo secondo figlio. Se Monique e la madre di Philippe reagiscono secondo i dettami borghesi di discrezione e compostezza, Murielle, di estrazione sociale più bassa, si esprime in maniera concitata e scurrile. In concomitanza al delirio interiore che invade la protagonista, lo stile del racconto si fa infatti più vivace, a tratti privo di punteggiatura e il ritmo della narrazione sempre più veloce. Al buio della sua stanza, mentre fuori dalla finestra infuriano i botti del nuovo anno, Murielle accusa il suo destino e gli altri intorno a lei di crudeltà e indifferenza. “Delinquenti mi hanno fatta a pezzi se ne fottono del terzo e del quarto ognuno può crepare nel suo angolo i mariti cornificare le loro mogli le madri strapazzare i loro figli e nessuno parla bocca cucita mi fa schifo tutto questo riguardo che nessuno abbia il coraggio delle proprie opinioni.” Questa volta non sono le convenzioni sociali ad irretire la figura femminile, ma un giudizio ancora più duro e spietato, quello del tribunale interiore che punisce, senza alcuna possibilità di assoluzione, le donne vittime della mancanza d’amore verso se stesse. L’autrice quindi, facendosi da parte silenziosamente, mostra al proprio pubblico il quadro desolante di una paralisi interiore tipica della condizione femminile in chiave universale. Ostacolate dai propri mostri interiori (la dipendenza emotiva da legame convenzionali, la mania di perfezione e di dimostrare il proprio valore a tutti i costi, la pessima valutazione del proprio ruolo di madre agli occhi della società), le donne non si rendono conto che spesso si incatenano da sé. Simone de Beauvoir intende proprio creare una frattura nel cuore delle lettrici, affinché reagiscano a quei dettami sociali che le vogliono sottomesse e, soprattutto, che affrontino con se stesse una vera e propria battaglia che le conduca alla vittoria più importante: la stima di se stesse.“La porta dell’avvenire sta per aprirsi. Lentamente. Implacabilmente. Io sono sulla soglia. C’è soltanto questa porta e ciò che v’è nascosto dietro. Ho paura. E non posso chiamar nessuno in aiuto. Ho paura.”
Vite segrete delle donne Punjabi di Balli Kaur Jaswal
C’è un posto in cui nessuna rinuncia imposta dall’alto, nessuna raccomandazione proveniente dall’esterno, nessuna regola tramandata nei secoli, potrà mai violare. Quel posto è intimo, nascosto in un punto in cui chiunque, pur avendo la chiave, non riuscirà mai a entrare. È la fantasia, fervida e passionale, della donna, di qualunque donna. Che viva a Ovest, o all’Est del mondo, ogni donna sogna e alimenta la sua immaginazione con i racconti che fa a se stessa. E se in Occidente le donne sono libere di muoversi per strada con disinvoltura, di fare echeggiare le loro sonore risate per i vicoli più bui senza alcun timore di venire punite, anche dall’altra parte del mondo ci sono donne che, chiusi gli occhi, nell’oscurità della stanza, nelle tenebre del cuore, aprono lentamente uno spiraglio di luce e sognano.
Sognano di donne che possono tutto, vogliono esplorare quei posti quotidianamente inesplorati, quelli da cui esplode il piacere per fare pace con se stesse. Più una cosa è vietata, più la si desidera. Cosa succede, allora, a quelle donne a cui una vita intima, nel senso biblico del termine, viene negata? Lei vi si immergerà il più possibile per sfuggire a una quotidianità che la ignora come individuo in grado di vivere appieno la sua intimità. E Nikki, la ventenne londinese di origini indiane, protagonista di “Vite segrete delle donne Punjabi” di Balli Kaur Jaswal edito da HarperCollins, ignora che uno stuolo di donne, per lo più vedove, ogni settimana più numeroso, possa voler partecipare alle sue lezioni presso il tempio sikh di Southall, apparentemente di grammatica inglese, solo per ascoltare storie, quelle storie, segrete e scandalose, inventate e raccontate dalle donne della comunità sikh inglese.
Quando si candida per tenere i corsi di lingua inglese, Nikki vuole solo riscattarsi da una condizione di “fallita” sul piano professionale. Dopo aver rinunciato a completare gli studi universitari in giurisprudenza, si porta dentro il cruccio di aver deluso suo padre, appartenente alla vecchia generazione di Indiani trasferiti in Inghilterra, che sogna un futuro migliore per le sue figlie.
Niki non ha ancora trovato il suo posto nel mondo e stenta ad affermarsi. L’incontro con Kulwinder, organizzatrice del corso e referente della scuola del tempio in cui Nikki insegnerà, e con le donne della comunità sikh, darà un nuovo risvolto alla sua vita indolente. Invischiata in un mistero tutto al femminile, farà pace con la parte di se stessa che ha sempre evitato, riconciliando le sue origini alla nuova impronta di indiana integrata nella società inglese.
Intorno a lei si muovono altre figure femminili che matureranno nel corso della storia, come sua sorella Mindi, personalità docile alla ricerca di un compagno perfetto, Kulwinder, madre appesa a un forte dolore, e poi Tarampal, prigioniera del tarlo dell’invidia e della gelosia, la timida e altruista Sheena, e altre ancora, ciascuna con una storia segreta da portare allo scoperto. Il ritmo della storia è decisamente incalzante con picchi di tensione, specie verso l’epilogo, legata a personaggi misteriosi che per tutta la trama cospireranno contro le audaci donne.
Apparentemente scandaloso, il tema erotico del romanzo non si discosta affatto dal mondo orientale nel quale viene presentato. I testi di stampo sensuale della tradizione indiana più noti sono infatti Il Kamasutra e Le mille e una notte, caratterizzati stilisticamente da icastiche allusioni e dettagliate simbologie. Laddove la realtà diventa soffocante, le donne raccontate da Balli Kaur Jaswal si immergono in una dimensione fantasiosa senza confini e, come in una matrioska, nella narrazione ogni donna diventa protagonista di altre storie che affascinano il pubblico delle protagoniste, e allo stesso tempo rapisce i lettori dell’intero romanzo.
“Scusa mi sono lasciata trasportare” dice una delle donne al termine di un suo piccante racconto.
“Non scusarti. È stato bellissimo. Il tuo racconto è ricco di dettagli vividi.”
“È frutto dell’immaginazione di Sunita, non della mia.”
“Sunita non sei tu?” chiese Preetam. “Anche tu hai un neo.”
“Vite segrete delle donne Punjabi” è un libro dalla trama accattivante che fa da ponte fra Occidente e Oriente nel binomio tradizione e modernità. È un romanzo misterioso come l’alcova in cui la donna, anche la più prigioniera, si adagia comodamente, per cominciare a sognare la sua vita segreta.
Il sogno finisce all’improvviso di Massimo Colonna. Sulla fragilità della verità
Edito da Letteratura Alternativa Edizioni, “Il sogno finisce all’improvviso” del giornalista ternano Massimo Colonna è un libro che, attraverso la tematica della relazione padre-figlio, induce a riflettere sulla realtà di tutti i giorni che affrontiamo sempre più smarriti; un libro che parla al lettore con uno stile a tratti visionario, che rivela quanto del simbolismo mitico psicoanalitico c’è dietro a ogni legame familiare.
Mi è capito recentemente, durante la visita presso la pinacoteca del Palazzo della Pilotta a Parma, di soffermarmi nella visione di un dipinto dell’artista reggiano Antonio Allegri, meglio conosciuto come Correggio.
Si tratta di un quadro che ritrae la Sacra Famiglia, in cui, come riportato dal commento all’opera, la figura di San Giuseppe viene risaltata da uno sguardo attento e premuroso verso il figlio. Ho subito pensato che in realtà ancora oggi si tende più facilmente ad associare occhi vigili verso la prole, più alla figura materna che a quella paterna. Eppure oggi i padri sono più presenti nella vita dei propri figli, molti di essi si sostituiscono ai doveri materni in casa e nella vita sociale della famiglia. Un giusto passo avanti (se così lo si vuole considerare) che va legittimamente riconosciuto. Un padre, come una madre, sente il peso della responsabilità verso il proprio figlio; un padre, come una madre, prova sentimenti di paura e smarrimento; un padre, come una madre, si pone continuamente assillanti interrogativi sul suo ruolo di genitore. Ecco che ho ripensato a un libro letto poche settimane prima, in cui la vicenda si snoda proprio attraverso l’indagine del rapporto Padre-Figlio. Partendo da una drammatica vicenda familiare, la trama si allarga a una analisi socio-antropologica sempre più intrigante, seppure la narrazione resti pervasa da un terrificante dolore, quello dell’assenza che solo chi non riesce a comunicare può percepire. La trama de “Il sogno finisce all’improvviso” è scarna, ma non per questo poco interessante: un uomo entra in una chiesa per parlare con un prete sul dolore-vaneggiamento per la morte del proprio figlio; l’ambientazione, teatrale, a tratti ricorda lo stile dell’assurdo di Ionesco e Beckett. Le diverse versioni della verità sono non-verità Nella storia che racconta il giornalista Colonna è possibile ravvisare lo spaccato della realtà contemporanea, in cui siamo, ormai, tutti ossessionati dal calcolo, maniaci del controllo. Ma quando la realtà, proprio quella che si cerca dannatamente di tenere sotto continua verifica, ci sorprende, allora cadiamo nel baratro dell’ansia e del sospetto. Cosa è andato perso, cosa abbiamo sbagliato, proprio noi artefici diretti delle nostre azioni? Oggi viviamo in questa trappola dell’ispezione. Quando tutto ci è dato sapere, quando tutti conosciamo tutto e tutti, allora teniamo ben tese le redini della nostra vita. Non più sguardo all’insù verso il cielo, non più udito schiuso all’eco che rimanda la natura che ci circonda, non più mani realmente tese verso chi ci circonda. Siamo presenti, ma in realtà siamo tutti assenti, rapiti dai nostri continui e assillanti vagheggiamenti. A volte arriviamo al punto di isolarci, pur avendo la rubrica del telefono intasata di numeri di cosiddetti amici, perché a volte quel troppo dolore che ci teniamo dentro sappiamo bene che rischia di distruggerci se lo tiriamo fuori. Ma se non lo facciamo, allora rischiamo che il buio della notte ci ingoi, e allora sì che la luce del mattino, noi vigili sentinelle, rischieremmo di non vederla più sorgere per davvero. Allora ecco che i sogni vengono in soccorso, proprio quando la realtà ci parla solo attraverso un linguaggio già tutto codificato. I sogni che spesso non riusciamo a capire ci perseguitano, fino a quando non siamo pronti a percepire che vogliono solo dirci qualcosa, essendo ormai disabituati a cogliere segnali diversi da quella che crediamo essere ormai la nostra realtà. Ed è in quel momento che riscopriamo il silenzio, come quello che c’è nell’antro sacro della navata in una chiesa. Tutto quel silenzio disorienta i nostri sensi e nella guida che vuole ascoltarci facciamo fatica a riconoscere la scintilla di una speranza, noi che oggi non crediamo, incapaci di vedere e sentire realmente. “La prego, non cerchi il Maligno in tutte le cose. C’è anche Gesù. Insomma, io glielo posso garantire” dice il prete alla moglie del protagonista.Quel Dio che non riconosciamo più in tutte le cose non si è nascosto, resta sempre Padre-Creatore di tutte le cose che noi, con il nostro sguardo scientifico e indagatore, non vediamo più vive.
Siamo parte di mini-microcosmi in cui ci rifugiamo, incuranti di appartenere a un più elevato macrocosmo che ha da dirci tanto altro. Siamo piccole cellule solitarie in una moltitudine di voci e rumori. La donna, smarrita nel delirio di cui suo marito è vittima, continua: “Padre. La sua storia… vede… parte tutta dal suo rapporto con Dio.”Il Padre risponde:
“Tutte le storie, mia cara, partono da Dio.”Si parte dal padre, specie quando padre lo si diventa per davvero.
Essere guida, sostegno e riferimento è così disorientante. Chi ci ha preceduto ci ha davvero lasciato la mappa per orientarci? Confusi e spesso disadattati, i genitori di oggi arrancano al buio e i dubbi diventano macigni. Ma non per questo tutti i padri vanno puniti, non per questo occorre essere severi con noi stessi perché solo quando riconosciamo l’essere (umano) fragile che è in noi possiamo essere pronti ad attraversare il buio e ritrovare la luce che credevamo non potesse più spuntare. E in quel tenebroso dedalo in cui ci smarriamo torniamo a un antico legame che crediamo dimenticato, ritrovandoci figli di un Creatore che tesse le trame della nostra vita, a noi sconosciute, fino a quando non torniamo a riconoscere l’Artefice di tutte le cose nella quotidianità che ci circonda. “Il sogno finisce all’improvviso” è questo, un romanzo incentrato sulla tensione delle relazioni umane, stilisticamente caratterizzato da una prosa diretta e asciutta nei dialoghi, a cui si alternano ricche e variegate digressioni teoriche fra le quali si cela una amara critica ai rapporti sociali contemporanei.Quando la notte di Cristina Comenicini. L’ombra sulla maternità
Manfred e Marina, burbero e solitario il primo, tormentata e fragile la seconda, sono i protagonisti di “Quando la notte”, libro edito dalla Feltrinelli pubblicato nel 2009, da cui la stessa autrice Cristina Comencini ha curato sceneggiatura e regia per l’omonima pellicola. A fare da sfondo alle vicende il paesaggio montano, geograficamente non identificato, che con le sue ripide e difficili salite, con i suoi lunghi e solitari inverni, tratteggia l’esistenza interiore dei personaggi, segnati da traumi del passato, angosce inconfessate e incomunicabilità.
Lui è nato e cresciuto in montagna e svolge la professione di guida alpina, lei è giunta dalla città per trascorrere un mese con il bambino Marco di circa due anni, nell’intento di rinvigorire il suo appetito e ristabilirne i ritmi del sonno. Marina affitta l’appartamento del piano superiore dell’abitazione di Manfred, arredato dalla moglie Lina che lo ha abbandonato portando con sé i figli. Marco non dorme, Marina è esausta, ma si ostina a voler far credere che la sua vita di mamma è sotto controllo. Una sera Manfred sente urla e rumori provenire dal piano di sopra, seguiti da un sospetto silenzio. Allarmato, bussa alla porta, ma la donna non risponde, allora si vede costretto a forzare la porta e la scena che gli si presenta dinanzi lo getta in un atroce sospetto, che la donna non sia in grado di accudire il proprio figlio. Soccorrerà il bambino e farà intendere a Marina di conoscere il suo segreto. Da quel momento fra i due inizia una battaglia silenziosa che ha come obiettivo portare allo scoperto l’uno le debolezze dell’altra. Finiranno entrambi stremati sul suolo delle emozioni, come due cuccioli ammansiti che si leccano le ferite a vicenda. Sempre più attratti l’uno dall’altra, il legame che intrecceranno fra loro non sarà mai trasparente e definitivo, così come solo fra due anime disorientate, alle quali la vita ha tolto le principali certezze, può purtroppo accadere.
L’autrice esplora gli angoli bui della mente di esistenze solitarie e spaventate, dilaniate da manie e ossessioni e lo fa attraverso uno stile asciutto e diretto, con la tecnica del monologo interiore attraverso il quale le riflessioni di Manfred si alternano a quelle di Marina. Il lettore viene così trascinato nel vortice di pensieri torbidi, che mettono a nudo i tormenti delle generazioni contemporanee, impreparate al loro ruolo di genitori. Abbandonato in maniera incomprensibile da sua madre quando era ancora un bambino, Manfred cova dentro di sé un odio viscerale per le donne che lo rende incapace di stabilire rapporti duraturi e sereni con l’altro sesso, nonché vittima di scatti d’ira, mentre Marina si porta addosso da sempre il peso di un senso di inadeguatezza. Bambina sognatrice durante l’infanzia, donna ammaliatrice da grande, oggi è una madre distratta che fa fatica a riconoscere il suo istinto materno. Perseguitata da ansie e paure, soffoca il figlio di eccessive attenzioni, impedendogli di vivere spontaneamente le proprie emozioni e di farlo crescere in maniera sana ed equilibrata.
La Comencini si addentra in un terreno difficile, quello della maternità, ribaltando i luoghi comuni che celebrano l’evento come un momento idilliaco per la vita di una donna. Facendo calare il sipario sul palcoscenico di autentiche paure, illumina antri bui e nascosti attraverso scene di cruda verità. Un libro che, seppur nel suo stile contemporaneo frammentario, rischia di confondere il lettore, fa riflettere sul fatto che forse non sempre i sorrisi lanciati dalle mamme che spingono i passeggini per strada siano poi così del tutto veritieri e che, dietro quegli occhi cerchiati, non si celano solo notti insonni, ma lunghi momenti di angosce e tormenti più profondi.