Una moglie a Parigi di Paula McLain. Biografia romanzata sulla vita di Hadley Richardson, prima consorte di Hemingway

Meglio nota come la moglie parigina, Hadley Richardson rivive oggi in un romanzo scritto in prima persona come una figura femminile dall’animo sensibile e conciliante che ha vissuto accanto a uno dei maggiori autori del XX secolo durante gli anni di esordio della sua carriera letteraria. Colpita dall’affascinante e spavaldo scrittore in erba più giovane di lei di otto anni, si lascia sopraffare da emozioni che la sua vita di ragazza ingenua e spaventata non le ha ancora fatto conoscere vivendo questo nuovo sentimento con assoluta abnegazione. Accetta di partire con il suo novello sposo alla volta dell’Europa, per la quale si imbarcano pieni di speranze alla fine del 1921 sulla Leopoldina. Insieme, racconta “Contemplammo la distesa del mare tenendoci abbracciati. Era inverosimilmente immenso, pieno di bellezza e al contempo di pericoli – e noi volevamo tutto”. A fare da sfondo alla narrazione degli eventi è la Parigi degli anni ’20, allora considerata la città giusta e interessante in cui tutti avevano qualcosa da offrire e dove i coniugi Hemingway si trasferiscono dopo il matrimonio “per seguire la corrente”, alla ricerca del successo. Nei salotti letterari parigini i protagonisti della storia entrano in contatto con la società intellettuale dell’epoca costituita da scrittori europei e americani del calibro di Gertrude SteinEzra Pound e Scott Fitzgerald, dediti a una vita dissoluta, contrassegnata da emozioni esaltanti e poco convenzionali che finiranno col travolgere l’esistenza dello scrittore americano trascinandolo in una realtà ben lontana da quella fatta di confidenza e rispetto che contraddistingue il suo legame con Hadley. Quest’ultima viene presentata, già attraverso la storia della sua famiglia di origine, come una donna dai gusti tradizionalisti in fatto di arte, messa in ombra dalla vita dei personaggi che la circondano a causa della sua indole riservata e talvolta insicura, ma che negli anni imparerà a scoprirsi diversa e consapevole di sé, forte dell’amore provato e vissuto accanto a un uomo tormentato dai fantasmi del passato, dai conflitti familiari ai traumi di guerra, che nelle ultime pagine del romanzo ella stessa definirà “un vero enigma: delicato e forte, debole e crudele. Un amico senza pari e un figlio di puttana. In fin dei conti non esisteva un’unica verità su di lui, perché tutte erano vere”. Nel romanzo, seppur senza approfondirne a fondo la psicologia, vengono presentate diverse figure femminili, alcune delle quali sono costrette a indossare i panni di mogli devote, vittime dei dettami di una società perbenista o semplicemente della loro incapacità a rinunciare a malsani legami sentimentali, altre, libertine e femministe, celano l’ambizione di una storia stabile, di un amore eterno che a quei tempi sembrava un’utopia da realizzare e che invece agli occhi di tutti, la coppia Hemingway-Richardson sembrava incarnare alla perfezione. Un idillio anche questo che pian piano viene eroso come roccia calcarea dalle onde che, dapprima in silenzio, poi sempre più rumorose, si infrangono sulle loro vite. La smania di affermarsi, la competizione e i compromessi, porteranno Ernest a far vacillare la stabilità emotiva trovata grazie a Hadley, la quale proprio attraverso il loro legame e all’esperienza della maternità, realizza di essere diventata una donna nuova, che troverà il coraggio di fare la sua scelta con dignità perché, come rivela in una presa di coscienza riferendosi al marito “Lui mi aveva aiutato a scoprire chi ero e cosa ero capace di fare”. Seppur relegata dalla storia a ruolo di prima moglie, l’importanza di Hadley nella vita di Hemingway verrà rivalutata dai lettori dopo essersi avvicinati a questo romanzo perché nonostante il triste epilogo, la storia d’amore raccontata rappresenta un esempio di conquista femminile che ancora una volta conferma il famoso detto “dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna” e Hadley Richardson è stata una donna che con dedizione e pacata presenza ha saputo sostenere un marito con le sue inquietudini, prima che spiccasse il volo verso la notorietà.

Come le mosche d’autunno di Irène Némirovsky. Il triste epilogo di un’epoca, fra ricordi e nostalgie

Pubblicato in Francia nel 1931 Come le mosche d’autunno, breve romanzo della scrittrice francese Irène Némirovsky, è stato riproposto in Italia dalla casa editrice Adelphi nel 2007

Vedova settantenne, sopravvissuta a figlio e marito, la balia Tat’jana Ivanovna, protagonista di Come le mosche d’autunno, viene presentata come una donna fragile, dall’aria vivace e dallo sguardo che da acuto comincia talvolta a farsi trasognato. A servizio dell’aristocratica famiglia Karin da generazioni nella maestosa dimora situata nei pressi del villaggio di Sucharevo nella Russia nordoccidentale, è lei che saluta i due fratelli Jurij e Kirill in procinto di partire per la guerra nella scena inziale del racconto. Dopo aver partecipato al ballo, svoltosi in un’atmosfera apparentemente godereccia che offusca in realtà un imminente preludio a morte e tristezza, i due ragazzi si allontanano sulla slitta che lascia solchi profondi sul suolo ghiacciato, mentre alle loro spalle la balia traccia segni di benedizione. Con estrema abnegazione la nutrice resta, sola, a sorvegliare la grande tenuta dopo la fuga dei Karin a Odessa nel gennaio del 1918, accoglie Jurij braccato dai nemici e intraprende, senza alcuna esitazione, un viaggio difficoltoso per raggiungere i padroni con i gioielli cuciti nell’orlo della gonna. “Mai avrebbero scordato il momento in cui lei aveva bussato alla porta e aveva fatto la sua comparsa, sfinita ma tranquilla, con il fagotto di stracci sulla schiena e i diamanti che le sbattevano contro le gambe stanche”. Grazie all’arrivo provvidenziale dell’anziana donna, la famiglia, da lei seguita, lascia la Russia alla volta della Francia, accolta da umidi e lunghi autunni. Qui, rinchiusi in angusti appartamenti, i Karin “vivacchiavano fino a sera” e “Camminavano avanti e indietro da una parete all’altra, in silenzio, come le mosche d’autunno, allorché, passati il caldo e la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita”. In poche pagine di Come le mosche d’autunno Irène Némirovsky condensa anni di storia, regalando un affresco letterario di un momento da ella stessa vissuto in prima persona. La scrittrice francese nacque a Kiev nel 1903 dove visse fino al 1918 quando, a causa di una taglia messa dai Soviet sulla testa del padre banchiere, fu costretta a trasferirsi in Francia. Il rapporto con la madre fu sempre difficile e contrastante e sin da bambina fu affidata alle cure di diverse governanti dalle differenti nazionalità, dalle quali apprese svariate lingue straniere. In questo breve e toccante romanzo la scrittrice francese ritrae un personaggio davvero singolare. Con il suo modo di agire perseverante e devoto, Tat’jana Ivanovna rappresenta il legame con un’epoca d’oro il cui idillio viene spazzato via con violenza e in modo ingiusto dalla rivoluzione bolscevica. Mentre la famiglia dei Karin, disillusa, fatica ad adattarsi al misero presente, la balia, rimettendosi alla volontà divina, sopravvive grazie ai ricordi, perennemente indaffarata in faccende domestiche in attesa dell’arrivo della neve a Parigi, in uno stato confusionario fra delirio e realtà “il giorno in cui l’avrebbe vista cadere, sarebbe finito tutto … Avrebbe dimenticato. Si sarebbe messa a letto e avrebbe chiuso gli occhi per sempr”e. Lo stile del romanzo è limpido, la lettura scorrevole. Pur riconoscendo un’impostazione tradizionale nella narrazione, è possibile cogliere il passaggio a un’esposizione più moderna, scandita da una trama concisa, capitoli brevi, dialoghi incalzanti e da un’attenta analisi psicologica dei personaggi. Di primo acchito Come le mosche d’autunno sembra limitarsi a voler raccontare le vicende storiche di una famiglia decaduta, in realtà il lettore più accorto saprà cogliere l’intensità di questo breve romanzo nelle sensazioni di amarezza e solitudine cui è destinata l’umanità. La grandezza di un’epoca che non tornerà e che riaffiora come una punizione attraverso il barlume di un’accorata nostalgia e l’ineluttabile declino di una potenza, quella russa che, agendo nell’illusione della salvezza di quella parte di popolo che si sarebbe voluto proteggere e tutelare da soprusi perpetuati nel tempo, sparge brandelli di dolori e abbandoni lungo il sentiero della storia. Se si considera l’atroce destino a cui andò incontro la scrittrice, morta ad Auschwitz nel 1942, non si può fare a meno di pensare al valore profetico di alcuni messaggi celati dietro le pagine di grandi autori.

Il diritto del bambino al rispetto di Janusk Korczak, un piccolo libro per fermarsi ad ascoltare il mondo dei più piccoli.

Pubblicato nel 1929, Il diritto del bambino al rispetto è un libro brevissimo scritto dal pedagogo polacco Janusk Korczak con uno stile semplice, discorsivo, diretto e perciò incisivo nella trasmissione del messaggio. Potremmo definirlo una sorta di guida alla riflessione del mondo del bambino, molto spesso dimenticato e il più delle volte superficialmente frainteso dall’adulto. Il libretto si apre con la frase “Cresciamo con l’idea che grande sia più importante che piccolo”. L’errore in cui incorrono gli adulti, sottolinea l’autore, è proprio quello di sottovalutare la potenza del sapere di un bambino. Con i loro atteggiamenti e le loro pretese, i grandi sembra vogliano far credere che egli non sia ancora in grado di capire e che perciò debba sottomettersi alle regole e ai saperi del mondo adulto, che debba essere sorvegliato e protetto dalle difficoltà e dalle sofferenze della vita con lo scopo di aiutarlo e fargli del bene, mentre il pedagogo invita gli adulti a preparare i bambini alle avversità della vita. Gli adulti sono perciò portati a manifestare loro affetto con atti di egoismo che scambiano per tenerezza, come quando li stringono a sé e in realtà non fanno altro che stringersi a se stessi per scappare dalla sofferenza, caricando i piccoli delle loro preoccupazioni. L’autore fa notare come verso il bambino gli adulti provino spesso atteggiamenti di sospetto, di accusa e di sfiducia, mentre in realtà egli è un essere intelligente, in grado di capire necessità, difficoltà e ostacoli della sua esistenza.  A differenza di quello che la società vede nel bambino, cioè solo un adulto di domani, Korczak coglie nell’infanzia il momento cruciale in cui l’ascolto, la comprensione e la complicità possono diventare i mezzi per una crescita migliore. “Esiste l’erronea opinione secondo cui la gentilezza renderebbe insolenti i bambini, e che la risposta alla dolcezza siamo il disordine e l’insubordinazione”  afferma il pedagogo, e gli educatori spesso ricorrono ad atteggiamenti ammalianti, persuasivi o di falsa benevolenza. Le risposte a questi modi di porsi non tarderanno ad arrivare, provocando da parte dei bambini disprezzo, ostilità e cospirazione, mentre la comprensione verso l’eccitazione e l’ebbrezza che prova il bambino, che si nutre di ossigeno come un uomo di vodka, avvicina gli adulti al suo mondo, rendendoli loro alleati. Janusk Korczak, pedagogo, medico e scrittore polacco di origini ebree e dalle idee scomode per la società che decise spontaneamente di seguire i bambini orfani del ghetto di Varsavia durante la deportazione nei lager dove morì, fondò infatti la Casa degli Orfani per educare i ragazzi a diventare adulti liberi tolleranti. Qui si entrava all’età di sette anni e si usciva a quattordici. A differenza delle abitudini consolidate, egli basò il suo insegnamento sull’ascolto, sulla collaborazione e sulla comprensione. I più grandi infatti aiutavano i piccoli nelle faccende domestiche (rifare i letti, pulire le stanze, preparare le tavole ) e tutti erano dediti ad attività artigianali. Furono stabilite regole di convivenza, fra cui l’igiene. All’interno della comunità fu istituito un tribunale composto da giudici di ragazzi eletti fra loro stessi. Venivano decise le punizioni, mai corporali, che avevano lo scopo di decretare in maniera oggettiva la realtà dei fatti, basata sulla comprensione e sul perdono verso l’altro, perché secondo Korczak: “Nessun ragazzo è difficile o cattivo, ma lo diventa perché è infelice. Dovere dell’educatore è scoprire che cosa lo tormenta” . Egli riteneva, inoltre, che la cosa peggiore è che un ragazzo abbia paura dei suoi genitori, dei suoi maestri, per questo la sua frase ricorrente era: “bambini al guinzaglio, ricchi e poveri”. Negli ultimi due capitoletti del breve saggio, viene messo in risalto che il bambino non è solo proiettato verso il futuro, ma ha un suo passato e vive nel presente, è importante pertanto imparare a rispettare le sue fasi di crescita, le sue domande curiose sul presente e le riflessioni sul futuro, le sue lacrime e le sue sconfitte, incoraggiandolo con atteggiamento comprensivo e abolendo l’uso di percosse e di un rigido controllo. L’autore infatti ritiene quanto segue: “Dobbiamo rispetto alle ore, all’oggi. Come farà un domani, se non gli permettiamo di vivere oggi una vita consapevole e responsabile?”. I veri esperti allora sono proprio i bambini, è a loro che occorre rivolgersi per capirli, e sono loro che bisogna tutelare con un’educazione al rispetto a quello che si è. Leggendo il libretto, pagina dopo pagina il lettore si sentirà trascinato in una spirale di sensazioni contrastanti, accarezzato talvolta dalla sensibilità delle parole di Korczak, altre accusato da un piccolo tribunale interiore, domandandosi se il bambino che egli è stato, è stato correttamente ascoltato e se l’adulto che sta diventando è in grado di comprendere le esigenze del bambino che magari ha già accanto e quello che ancora alberga in sé. In conclusione possiamo affermare che lo scritto risulta molto attuale perché, nonostante oggi siano stati sanciti i diritti dei bambini, sappiamo bene che esistono Paesi del mondo in cui l’infanzia viene ancora negata e, paradossalmente proprio presso la società più “civilizzata” si verificano episodi incresciosi che di rispetto verso il bambino hanno ben poco. Non solo, anche nei piccoli gesti di tutti i giorni manifestiamo atteggiamenti poco attenti verso i più piccoli, trascinati dal vortice della frenesia quotidiana che ci porta a volere e a concedere tutto e subito. Queste preziose pagine lanciano un monito molto importante, colpendo come un mea culpa molti genitori ed educatori che cominceranno a riflettere quando, nel momento di voler imporre il rispetto per i grandi, si soffermeranno in primis a rispettare il bambino che hanno di fronte.