“A tutti voi auguro un Natale con pochi regali ma con tutti gli ideali realizzati.”
(Buon Natale, Alda Merini)
“A tutti voi auguro un Natale con pochi regali ma con tutti gli ideali realizzati.”
(Buon Natale, Alda Merini)
Al centro dell’ultimo romanzo di Valerio Varesi c’è proprio un uomo in fuga dalla civiltà, che sceglie di percorrere, per nascondersi, l’impervio e ostile sentiero del ghiacciaio di frontiera, finendo per creare un vero e perturbante confine fra sé e gli altri. Ne ha parlato lo stesso autore di origini parmense presso la Sala Artigiani di Voghera, dialogando con la scrittrice e critica letteraria Patrizia Debicke. Ci vuole coraggio, ai giorni nostri, a scrivere una storia in cui sfuggire “facilmente alla propria parte nel mondo.” Siamo segnati, in fondo, in questa società, e rintracciabili. Ma forse dovremmo chiederci quali tracce lasciamo dietro di noi se ci allontaniamo dalla società. Davvero saremmo così ricercati e indimenticabili? Con uno stile introspettivo e una acuta analisi psicologica, l’eclettico e ormai popolare in Francia giornalista e scrittore di gialli, noto per aver creato il Commissario Soneri nella numerosa serie di libri, poi trasporta in tv, con il suo “Labirinto di ghiaccio” dà vita a un’opera di potente riflessione sociale. Circondato dal ghiaccio, l’uomo in fuga deve imparare a sopravvivere, costruendosi una baracca, conservando le sue prede, elaborando un suo piano di lavoro giornaliero. É facile pensare all’eco di Defoe o di Ruosseau, ma il romanzo di Valeri è difficile da classificare, forse proprio perché il tema del primitivo contemporaneo non può più circondarsi di un’aurea mitica. L’individuo contemporaneo non può sfuggire al progresso, alla tecnologia. Persino il silenzio gli risulta insopportabile, il buio, il dover pensare alla fine della vita. Perché, in fondo, non può sfuggire al vero nemico che porta sempre con, dietro e dentro di sé, ovvero se stesso:“Ho voglia di lottare e conquistare palmo a palmo questa roccia fino a farne un mondo esclusivo in cui riconoscermi. Forse solo allora, ricondotto alla spontaneità di un bimbo che impara, mi spoglierò di tutto e mi calerò come uno speleologo dentro me stesso.”
Italo Calvino, l’autore che non amava le etichette Comincia dopo la Liberazione l’impegno di Italo Calvino come redattore presso la casa editrice Einaudi. È il periodo, come racconta l’autore stesso, in cui dedica più tempo ai libri degli altri che ai suoi. Ed è proprio partendo da questa sua confessione, che il filologo e critico letterario, studioso della lingua italiana Giovanni Tesio, prende in prestito la frase “I libri degli altri” per comporre il volume di lettere, ricevute e inviate fra il 1947 e il 1981 da Calvino, uscito già per Einaudi negli anni ‘90 e oggi ripubblicato nella collana Oscar Mondadori in occasione del centesimo anno della nascita dell’autore di origini liguri. “I libri degli altri” Il testo comprende oltre trecento missive, tra le cinquemila conservate dall’archivio Einaudi, selezionate da Tesio. Calvino si occupava dell’ufficio stampa Einaudi e delle schede editoriali di scrittori, fra i quali compaiono Elio Vittorini, Lalla Romano, Domenico Rea, Angelo Ponsi, Giovanni Arpino, Carlo Cassola, per citarne alcuni. Una preziosa testimonianza per rivivere un momento straordinario della letteratura italiana, per comprendere gli aspetti socio-politici da una prospettiva pienamente culturale.“Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei.”
Partiamo dal mito di Roma, la più grande potenza espansionistica, sfolgorante civiltà del mondo antico che ha affascinato, nei secoli, grandi condottieri e politici, ispirandone l’ideologia. Un mito fatto di grandezza, eroismo e sacralità. Una magnificenza che declina nell’epoca della seconda tetrarchia, durante la quale si accentuano dissidi dinastici che sfociano in inaudite violenze. É questo il momento che sceglie di raccontare Ben Pastor attraverso il personaggio di Elio Sparziano, integerrimo castrense, che difende strenuamente i valori imperiali, ligio come è alle regole e, soprattutto, all’onore. Di origini danubiane, giunge a Sorrentum nel 306 in attesa di essere ricevuto, a Roma, dall’Augusto junior d’Occidente Massenzio, al quale dovrà consegnare un plico ricevuto dall’Augusto d’Oriente Galerio. In questo frangente di tempo, si dedica alla sua attività di ricerche storiche e di guida ai bordelli di lusso, godendo dei piaceri che la città offre.“E queste cose non avvennero mai, ma sono sempre: l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione.”
“Roma sarebbe stata per Elio Sparziano ciò che dava un senso alla sua vita.”
Agli eventi narrati, Ben Pastor sceglie di alternare pagine di appunti di Sparziano, stratagemma che ci consente di cogliere l’evoluzione interiore del protagonista. Durante le sue passeggiate tra i vicoli di Sorrentum, nei pertugi rocciosi che si affacciano sul mare, il militare avvertirà dei sussurri ammalianti, quello delle mostruose creature marine che attiravano i marinai fino a far schiantare le navi sugli scogli. É un richiamo nuovo per lo stoico Sparziano, abituato a osservare la realtà con estrema razionalità. Si affaccia, dunque, nel mare del suo inconscio, Melusina, che in alchimia simboleggia l’anima. Luoghi e personaggi sulla strada di Sparziano si presenteranno come vere e proprie epifanie che faranno incrinare la sua consueta ragionevolezza. “Mentre saliva al passo verso le villette a mezza costa, oltre le quali sorgeva quella che aveva preso in affitto, girandosi indietro fece caso a come, laggiù, il vulcano decapitato dalla grande eruzione somigliasse a un sonnolento ma pericoloso bue di pietra. Eppure ovunque nel golfo si ergevano terrazze sul mare, casette arroccate sulle cime, e, nella fertile pianura, dimore di campagna e fattorie. Impossibile non considerare come, in una stagione mite non dissimile da questa, la stessa pace ambigua avesse regnato su Stabiae, Herculaneum, Pompeii fino alla vigilia del disastro. Lui stesso lo aveva sperimentato in Armenia un anno prima: boati e tremori, scosse e piccoli crolli d’avvertimento non riuscivano a scuotere gli abitanti delle regioni vulcaniche dalla loro inerte abitudine al pericolo. “Ma purtroppo è così anche la grande struttura dell’Impero” si disse governando attento il cavallo. “È così e non se ne accorge nessuno. Si percepiscono scricchiolii, tonfi sordi. Alcuni cedimenti improvvisi possono anche impensierire, ma, dato che non si trasformano subito in qualcosa di grave, il loro ripetersi diviene parte dell’assuefazione.” Rischi, minacce… Da lassù, nel mare che incupiva all’orizzonte, solo gli orli di schiuma e il diverso colore dell’acqua tradivano la presenza di scogli nascosti; proprio ciò su cui contavano le sirene per fare schiantare le navi. Forse, dopo il richiamo fatale, divoravano i resti dei marinai, o li dilaniavano mentre, ancora in vita, si dibattevano tra i flutti presso il relitto.” Cosa accade, dunque, a Sparziano durante il suo soggiorno nella città per antonomasia considerata la casa delle sirene? Queste creature, ben lontane dall’immaginario collettivo novecentesco dalla coda di pesce e lo sguardo ammaliatore, hanno ali da uccello e spaventano i naviganti che, sensibili al loro canto, vengono scagliati con la loro nave contro gli scogli. L’unico a resistere al loro potere di perdizione fu, nell’antichità, Odisseo, eroe astuto ma anche dotato di grande logica e razionalità. Il soldato che crea Ben Pastor con la sua penna è invece l’eroe marziano che subisce una trasformazione interiore di fronte alle manifestazioni delle sirene, rappresenta dunque una versione più acquatica del dio Marte, guerriero e impulsivo, un dio che, fattosi pesce per sfuggire all’inseguimento del gigante Tifone, fugge nelle acque profonde del mare per tramutarsi in pesce. “A Elio venne in mente Nepote, il bizzarro capitano della velocissima Bellatrix, che inseguiva da anni la sua personale creatura marina fino in capo al mondo, senza bisogno di sentirne il richiamo. Il richiamo era già in lui, sotto forma di desiderio. E forse era stato proprio questo, più che l’uso della cera con cui i suoi compagni si erano tappati le orecchie, il segreto del successo di Odisseo nei confronti delle tentatrici. In lui non c’era desiderio di essere sedotto da loro. Voleva tornare a casa – la grande molla del veterano, – non ascoltare le seduzioni delle donne-uccello. Per questo, dopo aver messo al sicuro il suo equipaggio, si era limitato a farsi legare all’albero della nave. Voleva capire fino a che punto la sua nostalgia di Itaca lo avrebbe protetto nei confronti di quanto, negli ultimi molti anni di peregrinazione, l’aveva tenuto lontano dalla patria. Il corpo – certo, il corpo si comporta sempre così – era pronto a cedere e doveva essere assicurato da quelle funi. Ma la mente, no. La mente di Odisseo aveva già deciso di proseguire, di non soccombere. E secondo la leggenda le sirene, sconfitte a casa loro da quel pugno di uomini, ne avevano sofferto al punto da precipitarsi in mare. Era credibile che le sirene si fossero lanciate a capofitto tra i flutti perché Odisseo aveva resistito al loro richiamo? È così che funziona con tali creature? Il loro potere è predicato su un successo considerato immancabile. Se non cedi al mostro, se non credi al mostro, il mostro si autodistrugge e scompare. Se Teseo fosse stato fermamente convinto della non esistenza del Minotauro, forse il Labirinto non avrebbe contenuto alcun orrore per lui. Ma ci credeva, e aveva dovuto combattere la creatura figlia del Toro in un duello mortale per sopravvivere. Tuttora, però, c’erano marinai che temevano le sirene, che offrivano loro sacrifici prima di salpare. E su questa penisola – raccontavano – diversi luoghi si contendevano il primato di avere ospitato per primi un sacello in onore delle ammaliatrici. Quanto a Elio, non temeva le sirene, né in mare né sulla terra. Era curioso riguardo alla loro natura primigenia, precedente a qualsiasi altra considerazione del bene e del male che dèi e semidèi potevano elargire agli uomini.” Ben Pastor procede la sua storia disseminando la trama di numerosi indizi letterari, fino a riproporre una personale versione del grande capolavoro russo “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. “Ascoltare storie di intrighi familiari ha un effetto singolare su di noi, ci fa ripensare alle nostre origini, e ci spinge a riflettere su come le vite dei nostri vecchi abbiano influenzato le nostre.” Elio Sparziano si ritrova invischiato in un feroce parricidio ai danni dell’abbiente commerciante immobiliare greco Teodoro Pelagio. I tre figli, che richiamano nei nomi e nelle caratteristiche fisiche e propensioni i protagonisti del capolavoro dell’autore russo citato, potrebbero essere stati spinti tutti da validi moventi, il che rende più intricata l’indagine. Il mito del padre, a questo punto, si carica di un significato nuovo, che dal singolo si amplia al collettivo. Quanto accade nell’intimità delle singole famiglie patrizie, riflette la condizione complessa e violenta delle famiglie imperiali alla guida del potere, portando alla luce la decadenza morale dell’epoca, così come accadeva nella descrizione della città di Tebe, distrutta, in cui si consuma il parricidio di Edipo. La città di Roma in cui si ritroverà successivamente Elio Sparziano quando verrà finalmente accolto da Massenzio, è segnata da sommosse e dal degrado urbano. Niente a che vedere con la città fastosa tanto glorificata nel passato. A definire Roma un “finimondo” sarà la voluttuosa amante di Sparziano, la Venere venuta dall’oriente, l’astuta imprenditrice che solca i mari sulla nave che porta il nome della Regina delle Amazzoni, Pentesilea. Termuthis, dal pube glabro come l’avorio, sfuggente e audace, smaniosa e indipendente, alla quale Sparziano, in pieno cedimento emotivo di fronte al declino dei valori che lo hanno reso il valoroso soldato a servizio di Roma, chiede: «Che cosa sai delle sirene?» (…) «Ragazzo mio» la sua voce gli giunse vicina e tranquilla. «So che non ti apri quando fai l’amore. Ma a me puoi dire ogni cosa, lo sai. Non di lavoro, quello te lo lascio tutto. Di te.» Non era una risposta alla domanda di Elio sulle sirene, tuttavia quell’invito a rivelare assilli e desideri, e a sperare di risolvere, ottenere, trovare pace, costituiva l’essenza stessa di quelle creature.” “La morte delle sirene” descrive una difficile epoca di passaggio, di grandi stravolgimenti politici e morali. Tetrarchia e caduta degli antichi dei. Muoiono se non ce ne curiamo, ovvero se dimentichiamo che esistono, che loro cantano, e quale canto giunge a noi? Le divinità pagane sono differenti dal dio cristiano che presto li sostituirà, sono rappresentazioni delle manie, dei desideri umani. Elio vive in un momento storico in cui l’uomo comincia a dimenticarsene. Elio crede nei valori solidi morali dell’impero, ha sempre servito con onore Roma, ma si ritrova a vivere in una critica epoca di passaggio, in cui l’individuo si sente smarrito, legato al vecchio ma già proteso al nuovo. I valori di un tempo vengono soppiantati da nuovi che si presentano in un clima fatto di violenze e corruzioni morali. Elio Sparziano è, dunque, un nuovo Ulisse? Schiva il rischio di essere vittima del canto delle sirene o c’è ben altro dietro questa sua resistenza? Incarna l’uomo della modernità, che sente un nuovo richiamo, il grido nietzschiano Dio è morto, un nuovo modo di stare al mondo di fronte alla caduta dei valori saldi e certi. Mantenere il controllo di fronte all’avidità sfrenata e alla sete di potere che investe gli stessi regnanti, non più capi illuminati, filosofi rischia di impedirgli di credere in qualcosa, ormai. In bilico, fra l’ardore della battaglia e lo stallo della paralisi interiore, fra l’azione e la passività, il protagonista di questa nuova e acuta indagine di Ben Pastor, incarna la duplice polarità Fuoco/Acqua: ciò che il fuoco espande, l’acqua allenta, così come esprime l’immagine finale del passaggio che segue: “Qui la stagione continua a essere dolce e piacevole. Sui terreni favoriti dal sole pieno e protetti dai venti, i vignaioli stanno già pigiando l’uva, cantando e agitando rami di salice per aiutarsi nel ritmo. In Egitto questi sono i giorni in cui il Nilo esonda e crea ampie lagune lungo le sue rive; le oasi si trasformano in isole, vengono spazzati via i villaggi di mattoni crudi, annegano parassiti, animali domestici, e a volte anche i loro padroni. Fa bene Thermuthis a venir via adesso. Come il Vesuvio segue le imperscrutabili leggi dei vulcani, così ogni anno il fiume egizio porta fertilità, ma non risparmia nessuno. No. Sopravvivono i coccodrilli, che sferzano le acque melmose in cerca di carne viva o morta. Così fuoco e acqua cancellano l’esistenza, e la ricreano.” Scheda del libro: Autrice: Ben Pastor Genere: Narrativa – Giallo storico Casa editrice: Mondadori Pagine:512 Prezzo: Euro 19,00 ISBN: 9788804753124 Chi è Ben Pastor: nata a Roma da una famiglia di lontana origine ebraica, ma trasferitasi giovanissima negli Stati Uniti dove ha acquisito la cittadinanza, ha insegnato Storia e Scienze sociali presso diverse università americane. Oltre al ciclo dedicato al soldato-detective Martin Bora, è autrice della serie thriller con protagonista Elio Sparziano, storico e investigatore del IV secolo d.C. I suoi romanzi sono pubblicati in quindici paesi.“Poesia cimento di sopravvivenza,
orchestra lieve di simulazione,
che sfida e non uccide, solo elude
pari insidia del perfido avversario”
(Strategia di parole. Giuseppe Porqueddu)
“Ha senso pubblicare un libro che imprigiona la vita di una persona, quando la vita è fluida e si contraddice?” È intervenuto con questo interrogativo il poeta Porqueddu, il quale ha ringraziato Libreria Ticinum Editore per la cura e l’attenzione della pubblicazione, nonché vicinanza all’autore sul piano umano, seguìto da Pietro Bodini che ha sottolineato l’importanza della potenza creativa della poesia, in opposizione all’ideologia del servo-padrone e alla condizione di potere che ne deriva. La poesia di Porqueddu, secondo Bodini, si caratterizza per coerenza e coesione nella scelta di parole raffinate. Il suo stile si può ricondurre all’incontro di tre movimenti: la linea colloquiale con echi a Caproni, nell’elusione di eccessivi estetismi; la lingua novecentesca che rimanda al il simbolismo e al Gruppo dell’Officina guidata Pasolini, e infine nel classicismo, con i richiami a Leopardi e a Petrarca. La poesia di Porqueddu è tutta protesa a trovare modi e forme per realizzare stile e significati, dall’amore per la comunità all’amicizia, fino all’amore per la donna che, a differenza dei poeti del Trecento, emerge nella sua “terrestrità”, dall’espressione fragile e malinconica dalla quale si evincono forti valori familiari.“Amore irrimediabile
che ritorna: sei tu sopra il crinale
inondata di luce, sempreverde
metamorfosi, rosa nel meriggio
di strano autunno, tiepida ossessione
circonfusa d’un aura malinconica.”
(Sul crinale. Giuseppe Porqueddu)
Riprende e allarga il discorso sulla femminilità nelle poesie del poeta, Romana Bianchi evidenziando come lo sguardo che il poeta pone sulla donna nasconde la ricerca del posto tutto per sé, una ricerca continua e difficile in un mondo imperniato di maschile. È un riconoscimento, quello che emerge dai versi, di un essere al mondo femminile diverso, osservato con una consapevolezza nuova.“Quando la mia donna
per infinite ore in solitudine
tra un libro e l’altro di cultura varia
stira ancora lenzuola e fazzoletti
E (seppur femminista) anche camicie da uomo…”
(Quando una donna… Giuseppe Porqueddu)
Guido Conti, autore della quarta di copertina del libro di Porqueddu, che definisce “un’opera matura, ricca di umori, sentimenti e affetti”, ha commentato con sottigliezza e acume lo stile del poeta, dalla scrittura elegante e le immagini personali che descrivono un universo unico e al contempo classicheggiante. Tornando sul tema della memoria e superamento dei limiti femminile, il giornalista Gigi Giudice, presente fra il pubblico, ha ricordato la pittrice vogherese, ex cantante lirica Luisa Pagano, della quale in questi giorni La Stanza Landini ospita un omaggio. Una artista da riscoprire, ancora oggi circondata da un alone di mistero per la sua continua evoluzione pittorica che l’ha resa nel tempo una artista d’avanguardia dallo stile personalissimo. L’autore della raccolta ha emozionato il pubblico con la lettura dei versi della poesia d’amore “Se tu non fossi” dedicata alla sua musa e moglie. Infine, ha ricordato la molteplicità delle tematiche selezionate, come le poesie che riflettono sulla condizione umana politica e religiosa, fra cui la scelta di resistenza esistenziale agli orrori del suo tempo della giovane filosofa ebrea olandese Etty Hillesum, alla quale sono dedicati i versi: “tu credesti in armonia celeste/realizzata entro te/ moristi forte/d’una letizia eroicamente folle/incontro ad Auschwitz: tu sopravvissuta/non in carne ma in spirito/ (…) sei risorta/nella memoria d’intimi diari/e noi leggendo, ripensando a te/torniamo vivi a scrivere altra storia.” Così come la storia la fanno coloro, uomini e donne, che rischiano e muoiono per dignità, coloro che oggi sono ricordati come pietre d’inciampo, titolo di una poesia che Porqueddu chiude così:“Pietre d’inciampo, ma per inciampare
davvero in agnizione senza scampo
di chi fummo e chi siamo: un nuovo campo
da liberare il dì della memoria.”
Ci sono famiglie che sono come tavoli sghembi. Si tengono in piedi per una forza centrifuga apparente, oscillando fra un moto di tenerezza e uno improvviso di spietatezza. Carmine Riccio, detto Uvaspina, e Minuccia sono fratelli, il primo dai lineamenti delicati, con una riccioluta e bruna chioma sul capo che lo fa sembrare un criaturo angelico, l’altra più goffa e dallo sguardo sempre in tempesta. A seguito di un amplesso all’ombra di un bosco, sul muschio accanto a un arbusto di uvaspina con cui sua madre si è punta un dito, il primo è nato con “una voglia a forma di chicco d’uva ma pallida come una luna, sotto l’occhio sinistro” e proprio come la bacca si lascia spremere fino all’ultima goccia dagli altri per alleviare, con il suo succo, il dolore altrui, sua sorella è invece stata concepita a seguito del funerale della nonna paterna ed è uno strummolo, una trottola dal punteruolo affilato pronto a colpire, in balia di un movimento rotatorio impossibile da fermare. In giovane età, entrambi assistono alla Resurrezione della loro madre ogni mercoledì sera. La donna, detta La Spaiata per via della riga in mezzo sulla testa che le taglia “in due il cranio, con la stessa geometria con cui Spaccanapoli divideva la città antica tra nord e sud”, muore nel letto una volta a settimana poiché lasciata sola da Pasquale Riccio, suo marito, che si reca al Circolo nautico di Posillipo, di cui è presidente. I due bambini vegliano al capezzale della madre in attesa del suo risveglio, che avviene puntualmente, non senza prima aver lasciato la prole in preda all’angoscia. “Mammà, ti faccio vedere che non ci vai al cimitero, tu devi stare con noi”, ripete ogni volta, disorientata, Minuccia. La Spaiata un tempo era una “chiagnazzara”, veniva pagata per piangere ai funerali. Sempre pronta a chiagnere e a fottere, a furia di fottere è rimasta fottuta dalla vita. Il suo corpo, pingue, ha assunto movenze fiacche e sgraziate. Si trascina sul palcoscenico della sua vita con indolenza, ma sputa grumi di rabbia addosso al marito che la trascura. Non riesce a opporsi, invece, a sua figlia Minuccia, sempre pronta a scagliarsi contro Uvaspina, al quale la donna lancia sguardi imploranti di sopportazione. E Uvaspina subisce, di notte e di giorno, le angherie di Minuccia, mordendosi la lingua ogniqualvolta non fa attenzione alle parole da dirle. Uvaspina ama studiare e la poesia di Salvatore Di Giacomo, del quale cerca i libri fra le bancarelle a Port’Alba. Ha anche vinto un concorso di scrittura a scuola grazie a un componimento che, una volta mostrato con orgoglio a casa, è stato stropicciato con rabbia da sua sorella. Femminiello è il soprannome con cui Minuccia schernisce continuamente il fratello. Come se non fossero già abbastanza le angherie dei compagni di scuola. Minuccia disturba, punzecchia, ferisce e sfregia Uvaspina, mettendo spietatamente alla prova la capacità del fratello di sottomettersi alla sua perfidia. Uvaspina subisce, trattiene e si lascia spremere tutto. L’acino viene ogni volta stritolato fra le mani della spietata e volubile Minuccia. Uvaspina, a furia di subire, esplode e decide di liberarsi della sua verginità di anima integra e pura. Salvato dalle acque da Antonio, che lo inizierà alle cose dell’amore, Uvaspina conosce una nuova parte di sé, attiva e desiderante, capace di amare intensamente e anche fragile, per paura dell’abbandono. Minuccia resta preda delle sue emozioni più violente, rabbiosa verso il mondo e chiunque mostri di non darle le dovute attenzioni. Uvaspina comincia a capire come muoversi nel mondo, con un passo più deciso, custodendo dentro sé un amore che ha la forma di grotta, nascosto fra le rocce più possenti e che racchiude il calore più misericordioso. “Quando Antonio gli entrava dentro, non ero soltanto la sua carne a riempirlo, ma le storie di regine, le favole della città antica, dolce e maliziosa, le squame di una sirena che gli sorrideva sempre, il mare, i frutti sani e non spremuti. Perché quando Antonio se lo stringeva al petto come un bamboloccio, Uvaspina si sentiva intero: capiva il senso di quella voglia che aveva sotto l’occhio sinistro e che si portava appresso dal giorno in cui la Spaiata l’aveva sgravato.” E mentre nell’immaginario cinematografico l’amore omosessuale è quello che resiste al candore di un sentimento, sostenuto da innocenza e tenacia, nel romanzo di Monica Acito si insozza con gesti brutali e reazioni feroci. Nonostante l’intensità del sentimento, Uvaspina oltraggia con la rabbia l’amore che prova. Ma come sempre il rancore nasconde il più antico bisogno di essere amati, proprio come la città in cui si svolgono le vicende, Napoli-Partenope, colei che sembra una vergine, la città nelle cui acque scorrono sperma e sangue, vita e morte. Ed è proprio nell’apparente dicotomia vita-morte che si sviluppa il legame tra i due fratelli, che richiama quello primordiale fra Caino e Abele. Minuccia e Uvaspina sono legati dal sangue, sono, in fondo, figure speculari. Se nello sguardo di Uvaspina si leggono remore e sottomissione, in quello di Minuccia albergano ferocia e spietatezza. Sono opposti, ma al tempo stesso complementari. Minuccia invidia l’eleganza del fratello, Uvaspina vorrebbe un po’ della tenacia della sorella. E se con i loro occhi, in realtà non facessero altro che cercarsi, esplorarsi e, in fondo, ritrovarsi l’uno nell’altra, senza più respingersi sempre? Uvaspina si sacrifica come fa Abele, Minuccia prova invidia verso il fratello come fa Caino, e si mette sempre in competizione con lui, cercando di ottenere quello che Uvaspina conquista, desiderando, riuscendoci ogni volta, di annientarlo. La scrittura di Uvaspina: La scrittura di Monica Acito è vulcanica, un movimento perturbante dallo stile barocco, che spesso rischia di disturbare il lettore. La sua penna incide, come lo strummolo, scava nella ferita fino a farla sanguinare, senza farsi scuorno. Le parole per Monica Acito sembrano proprio il guizzo improvviso che lampeggia negli occhi di Minuccia e travolge ogni cosa. Le parole sono come lapilli fluorescenti eruttati dal Vesuvio. Chiudiamo gli occhi per non farci accecare e, quando li riapriamo, il cielo si è fatto cenere, la vista è offuscata perché, quello che prima guardavamo illuminato dal sole, adesso ci appare più opaco, insozzato da una verità altra, che porta con sé l’autenticità di un vivere che non vogliamo accettare. Monica Acito denuncia, attraverso la forza delle metafore, l’idillio familiare, svuotandolo della sua immagine nostalgica e mitica. Così come demitizza la città di Napoli con l’uso frequente di ossimori: “Tanti secoli prima, la notte di San Giovanni era molto diversa e faceva cambiare tutto, persino il volto di Partenope. Era come se quella sirena isterica si sedesse col culo sul Monte Somma, quello vicino al Vesuvio: mostrava a tutti il suo profilo delicato, ma anche tutti gli sfoghi e le pustole che le nascevano proprio lì, dove cominciava la cosa. (…) Nel sangue di quella gente non c’era l’Italia, ma il Parnaso, l’Olimpo, le ossa dei santi, gli unguenti delle streghe di Benevento e anche le cosce delle mignotte, e tutto veniva mischiato in un grosso impasto che si calcificava nei lineamenti della gente della Campania. Quell’impasto se lo portavano in faccia come il morbillo o come un peccato, nelle occhiaie e nel labbro inferiore.” Le lenti che l’autrice porge al lettore per guardare la città sono come quelli della piccola Eugenia nel racconto che apre la raccolta di Anna Maria Ortese “Il mare non bagna Napoli”. Lo sguardo innocente è repentinamente soppiantato da una visione truce e lucida. Il sacro e il profano si sovrappongono, la bellezza dell’immagine interiore cozza con quella reale e destabilizza fino alla vertigine. Impossibile non riconoscere dunque gli echi della letteratura nostrana post bellica che di Napoli ha saputo e voluto mostrare gli aspetti più turpi, mescolandoli con un prezioso tocco magico, dalla già citata Ortese fino a Rea, passando per Fabrizia Ramondino. Come i personaggi di Domenico Rea, i protagonisti di Uvaspina sono preda dei loro impulsi più incontrollabili, disinibiti in balìa di un mondo adulto destabilizzato. Ma Uvaspina e Minuccia si compenetrano, con i loro eccessi di calma e ira, fino a modellare un unico paesaggio, composto da acqua e fuoco. Napoli emerge, dunque, come una città multiforme, dall’anima misteriosa, popolata da figure bizzarre e contraddittorie, avvolta in un turbinoso simbolismo metaforico farcito di realismo magico. Monica Acito dà vita a un impasto linguistico, in cui l’italiano si mescola alle forme dialettali che sanno incidere con più efficacia la narrazione e rendere più reali i personaggi. La scrittura di Monica Acito si impone nel panorama della narrativa contemporanea con una espressività tutta sua, verace e mordace. L’autrice osa e mostra la realtà invisibile, facendo di Uvaspina un romanzo poetico. La poesia nel libro è nascosta in ogni riga, perché come intende Martin Heidegger la poesia è la via che “porta alla luce ciò che è nascosto”, rende visibile l’invisibile, così in Uvaspina fra i vicoli più bistrattati di Napoli, maleodoranti e rumorosi, la voracità di affetto dei personaggi si esprime nell’odio e in una collera potenti e ancestrali, che pungono come la scossa provocata dal tocco della medusa sulla pelle della famiglia Riccio. E così come il bruciore dell’ustione poi si placa, così poi torna la frescura, cala il velo di una calma ambigua connaturata all’affetto maldestro, e finisce per avvolgerli tutti. Un accenno al simbolismo di Uvaspina: La poesia di Uvaspina è anche racchiusa nel costante simbolismo delle sottotrame che si contorcono alle file intricate che muovono la trama principale. Napoli è una donna dalle mammelle rigonfie che perde latte e sangue. La Spaiata è unita alla sua Minuccia da un amore viscerale e incondizionato, nonostante subisca i feroci sbalzi d’umore della figlia. “Minuccia, Minuccia sua, nessuno la capiva mai, la sua miniatura, Minuccia del suo grembo, Minuccia delle botte (…) Filomena, Mina, Minuccia, bambina di pietra, che non smetteva mai di abitare il corpo della Spaiata. (…) Spaiata ripeteva il suo nome mille volte nel buio e la bocca le si schiudeva come quella di una carpa fuori dall’acqua, e sentiva il tocco della figlia proprio sull’ombelico, da dove Minuccia era uscita lasciando uno squarcio grande quanto il centro della terra.” A fare da contraltare alla figura della Spaiata, sempre descritta con immagini portentose, è la madre di Antonio: “l’Acquajola era fatta di acqua fresca e sangue sempre nuovo, come quello che si scioglieva al Duomo di Napoli, perché nelle gambe dell’Acquajola c’erano le ferite di tutta Napoli, città mestruata di sangue.” Figure di donne estreme ma anche estremamente fragili nel loro amore verso la prole che le mette in ombra. Ed è quello che infine accade a Minuccia. La trottola finisce di inciampare nel suo stesso filo: il personaggio di Minuccia nell’epilogo subisce. Subisce il suo essere nata donna, con tutti i suoi impeti interiori, vulcanici e irreprensibili, e la sua crudeltà si liquefa ai piedi del Vesuvio, lasciando una impronta rovente nell’animo del lettore, che si riconcilia con l’autrice stessa, la quale nel corso di tutta la narrazione lo ha torturato con una storia dura, aspra, difficile da digerire, ma che lascia il sapore agrodolce al ricordo dei due fratelli che, nel suo immaginario più ancestrale, continuano a lanciarsi occhiate ferine, cariche di un amore incontrollato, sulla riva di una spiaggia. Scheda del libro: Autore: Monica Acito Genere: Narrativa Casa editrice: Bompiani Pagine: 416 Prezzo: Euro 20,00 ISBN: 978-8830109957 Chi è Monica Acito: Classe 1993, è cresciuta in Cilento, tra le gole del Calore e i templi di Paestum. Ha iniziato a scrivere da bambina e fin dall’adolescenza ha collaborato con testate cartacee e online. Dopo la maturità classica si è trasferita nel centro storico di Napoli, tra Forcella e Mezzocannone, e si è specializzata in Filologia moderna presso l’Università Federico II. Nel 2019 è approdata a Torino, dove ha frequentato la Scuola Holden. Nel 2021 ha vinto, tra gli altri, il Premio Calvino per la narrativa breve e i suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste letterarie. È docente di discipline umanistiche presso la scuola secondaria di primo e secondo grado.“Una volta Nisida e Posillipo si erano messi a fare l’amore. Poi per tanti motivi non lo poterono più fare. (…) Cosa ci potevano fare Nisida e Posillipo contro il mare? Contro il vento? Contro tutto quello che li separava? A volte uno non può fare altro che inventarsi un po’ di alleria per campare e trovare qualcosa di buono pure là in mezzo.”
La trama di “In grazia di Dio”: A inizio primavera del 1822, presso il convento in cui l’autrice ambienta gli eventi narrati, giunge il commissario pontificio Alfredo Casadio, affiancato dal suo preposto Dante Graziani, per risolvere il delitto ivi commesso. La più anziana delle consorelle, la novantaquattrenne suor Teresa, è stata infatti ritrovata sgozzata nella sua cella di clausura, dove si era rinchiusa a seguito di un voto. Chi ha avuto accesso alla cella della suora per poter commettere l’efferato omicidio? Il commissario pontificio indaga con zelo la vicenda che si rivela più complessa del previsto a causa del mistero attorno alla figura di Suor Teresa, abile scrivana che aveva contatti con l’esterno solo attraverso la corrispondenza. La vicenda è ambientata dunque all’interno di una comunità di donne, instancabili e fiere lavoratrici, le suore Cappuccine, alle quali nel 1816 era stato affidato il convento. Le suore avevano deciso di farne un educandato per le giovani fanciulle di nobili famiglie. A guidare il convento, la badessa suor Amabile, “una donna bassa e rotonda, con gli occhi azzurri, stretti come capocchie di spillo.” Il commissario pontificio indaga con zelo la vicenda, che si rivela più complessa del previsto a causa del mistero attorno alla figura di Suor Teresa, abile scrivana, mentre l’intrigo si infittisce per la presenza della piccola Allegra Byron. La figura di Alfredo Casadio: L’investigatore creato dalla penna di Cristina Biolcati è un personaggio caratterizzato da una accentuata sensibilità:“La pena che Casadio provò, per quell’esserino fragile e pieno di vita, per quell’angelo biondo che era Allegra Byron, fu immensa. Meglio, era tristezza allo stato puro.” Il costante pensiero ai suoi due figli maschi rivela un’indole premurosa e affabile. Inoltre, emerge più volte in lui una spiccata conoscenza della poesia.“Una fortezza di pietra inespugnabile, a delineare tutto il perimetro, che pareva inghiottire chiunque volesse entrare.”
“Dammi mille baci, e quindi cento.”
Sarà proprio l’indizio poetico dei versi di Catullo a dare una nuova svolta alle ricerche del commissario pontificio e che gli consentirà di sbrogliare la matassa. L’aspetto femminile di “In grazia di Dio”: Nonostante l’arguzia e lo spiccato intuito di Casadio, quella del convento è una comunità femminile solida che si rivela difficile da scalfire. Le suore, sotto il giogo della badessa Amabile, sapranno fare fronte comune, rivelando un aspetto spesso sottovalutato del mondo ecclesiastico, ovvero la possibilità della donna di esercitare il proprio potere oltre le mura della comunità, che invece si limita ad attribuirle un mero ruolo di moglie e nutrice. Ma in questa storia sono proprio le prerogative femminili, come la cura per le faccende quotidiane e il senso di accudimento, a rendere vincenti le protagoniste. È questa, dunque, la peculiarità del giallo scritto da Cristina Biolcati: dietro ogni personaggio del lungo racconto “In grazia di Dio” si celano prospettive interessanti da indagare di carattere etico-sociale. Il luogo sacro in cui avvengono le vicende diventa, paradossalmente, teatro di nefandezze e corruzioni morali, riflessione che rievoca le atmosfere di celebri romanzi dello stesso genere passati alla storia. Scheda del libro: Autore: Cristina Biolcati Genere: Narrativa/Giallo Casa editrice: Todaro Editore – Collana Gechi Pagine: 59 Prezzo: Euro 2,99 ASIN: B0C9JQ5B1T Chi è Cristina Biolcati: di origini ferraresi, è padovana d’adozione. Laureata in lettere, forte lettrice, è autrice di poesie e racconti brevi. Ama, inoltre, gli animali, l’arte e la filosofia. Collabora con alcune riviste online, dove scrive recensioni di libri e articoli letterari. Fra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo: Nessuno è al sicuro (Edizioni Simple, 2013), un saggio sugli attacchi di squalo in Italia dal 1926 a oggi; Ritorna mentre dormo (DrawUp Edizioni, 2013), una silloge poetica; L’ombra di Luca (Leucotea Edizioni, 2014), una raccolta di racconti brevi; Allodole e vento (Pagine srl, 2014), una seconda raccolta di poesie; Balla per me (Youcanprint, 2017), Le congetture di Bonelli (Delos Digital, 2020), un romanzo giallo breve, e i racconti lunghi: Se Robin Hood sapesse (Delos Digital, 2017), Ciclamini al re (Delos Digital 2018), Dove dormono le fate (Delos Digital, 2021), Talia, la figlia del fabbricante di bambole (Delos Digital, 2022) e Gemino (Delos Digital, 2023).Ci sono estati che segnano un confine nella vita, sono le estati in cui cambiamo pelle, quando ci accingiamo a compiere il rito di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Sono i momenti in cui non ci riconosciamo più, sappiamo chi eravamo fino a pochi istanti prima, ma non capiamo chi stiamo diventando. Possiamo sapere chi non vogliamo diventare, pur nella consapevolezza che in fondo esistono catene difficili da spezzare. Restiamo in bilico, sulla soglia, passivi spettatori di un conflitto dilaniante, ma necessario per attraversare il confine. “La siccità” di Guido Conti è in primis un romanzo di formazione. Andrea è un adolescente dei giorni nostri che trascorre l’estate lontano dalla città e dai suoi compagni di scuola, aiutando il padre Pietro e lo zio Secondo nelle incombenze contadine. L’estate che si appresta ad affrontare è una delle più torride del nuovo millennio, durante la quale non piove: la terra ha sete e gli animali, deperiti e affamati, si avvicinano sempre più ai centri abitati; i tassi rivoltano le tombe nel cimitero alla ricerca del fresco; i cinghiali, debilitati, si accasciano nei greti dei fiumi, diventando carcasse per altre bestie; di notte, i lupi urlano impazziti. Succedono strane cose a Montù Beccaria, piccolo centro dell’Oltrepo’ Pavese, dove qualcuno, di notte, infilza teste di volpi mettendole ben in vista, di fronte alla casa del sindaco che, in un momento difficile per il raccolto e le condizioni del territorio, diventa bersaglio di scherno e rabbia da parte dei cittadini, aizzati in particolar modo da Pietro. Nel frattempo, nei pressi dell’abitazione di Andrea, al di là del bosco, nella frazione di Case Ferri, qualcuno è tornato da molto lontano. Si tratta di Bruno, un vecchio scontroso e a tratti sinistro, che compare dinanzi ad Andrea in maniera inaspettata. Attraverso i personaggi di Andrea, Pietro e Bruno, l’autore descrive le tre fasi della vita: fanciullezza, maturità e senilità. Andrea ama la sua terra, si rifugia nei boschi dove può osservare gli animali innocenti, ma allo stesso tempo sente l’urgenza di scappare lontano, fuori dalla provincia dura e brulla, per aprirsi a nuove prospettive di vita. Pietro è radicato alla terra, è parte del conflitto fra terra e destino, lotta per mantenere in vita i raccolti e assicurare un futuro ai luoghi natii. Bruno ha fatto ritorno alla sua terra, dopo essersene allontanato, in un passaggio ciclico che lo ricongiunge al suo Io autentico. Ama la solitudine, la vita agreste e bucolica in compagnia delle api. Dice: “Le api sono intelligenti, capiscono il tuo umore e hanno un’anima. Ti assaggiano.” Quando Andrea incontra Bruno per la prima volta, l’uomo stringe in mano un coltello. É un incontro ambiguo: pur avendone timore, Andrea si sente attratto dalla figura perturbante di Bruno, che con l’arma sembra proprio squarciare il velo che lo divide dalla sua fanciullezza, aprendogli il sentiero verso l’età adulta. Entrambi schivi e solitari, Andrea e Bruno stringono un legame, in cui è ravvisabile la nostalgia per l’età infantile, la comunione con la natura, dove ci si rifugia per sentirsi protetti e dove, infine, ci si stabilisce perché si comprende che quello è l’unico luogo che ci appartiene veramente. Con la sua durezza, l’impetuosità e la freddezza, Pietro irrompe in questo idillio e smuove la coscienza di Andrea, il quale in un primo momento smania di entrare a far parte del mondo adulto, vorrebbe accompagnare il padre e lo zio nelle scorribande notturne nei boschi, dall’altra scopre che forse quel mondo brutale non gli appartiene. “Suo padre non gli aveva mai fatto una carezza, non gli aveva mai detto una parola di lode, era un uomo venuto su dalla terra, e della terra aveva il cuore asciutto e scabro, con tutte le sue crepe.” Quando finalmente li accompagnerà nella battuta di caccia, affronterà il suo il rito di iniziazione. Ma la vista del sangue e la ferocia verso gli animali lo destabilizzeranno, al punto che comincerà a ribellarsi all’autorità paterna. Pietro rappresenta, dunque, la forza conservatrice alla quale si oppone quella propulsiva di Andrea nella dialettica passato-presente, vecchio-nuovo. “La morte è come quando un cane sparisce”, pensò, “si perde. Gira e rigira ma non trova più la strada di casa.” L’estate della grande siccità significherà per Andrea proprio congedarsi dal passato e dalle figure a lui care, attraverso l’incontro con la morte e con le asprezze della vita dei campi. Ad accoglierlo ci saranno le braccia ruvide, ma ben salde, di Madre Natura, la quale dona, toglie, abbandona e insegna, in un divenire ciclico costante e immutabile.“La terra la lavori, ma il cielo non lo domini mai.”
“Piove poco e quando piove, piove male”, commentò Pietro.
“Piove poco perché non avete fede” (…) “ … non c’è scienza che tenga. Non si domina il cielo.”
La figura materna resta in ombra nella storia che racconta Conti, ma al contempo i suoi interventi sono ogni volta decisivi. Elvira racchiude in sé le prerogative femminili più arcaiche: protezione, empatia, sensitività. Si fa custode delle tradizioni, di quelle credenze popolari che si rivelano propiziatorie, come i rami di ulivo da bruciare e le due croci segnate con la scopa prima dell’arrivo del temporale, rito che risparmia dalla grandine i loro campi, dove “il tempo ha girato in maniera strana”.“Questa è diventata terra di nessuno. Sono tutti morti quelli che abitavano queste tre case.”
“La siccità” di Guido Conti è un omaggio all’Oltrepò e alla sua gente che resiste alla trasformazione e all’annientamento che porta con sé la modernità. É un inno al legame autentico che si stabilisce con la terra natìa, nei confronti della natura di verghiana memoria con le sue contraddizioni, tanto malvagia quanto accogliente e protettiva. Come nelle novelle “Vita nei campi,” i sentimenti che guidano i personaggi sono: alacrità, dolore, solitudine, perdita di affetti, rabbia e vendetta verso le ingiustizie sociali. Gli agricoltori lavorano e lottano duramente e, impotenti di fronte alla siccità, soffrono in silenzio. Ma restano e combattono, perché amano la loro terra, dove la natura ha un’anima.Nella nota conclusiva, Guido Conti dichiara di essersi ispirato ai lunghi racconti che compongono la trilogia di Romano Bilenchi, “La siccità” “La miseria”, “Il gelo”, riuniti nel volume “Gli anni impossibili”. Dei racconti riprende molti temi, come l’esplorazione del mondo dell’adolescenza e il conseguente passaggio all’età adulta e la spietatezza della natura che richiama la sterilità sociale, ma a un secolo di distanza Conti si fa portavoce dell’impatto socio-economico che i cambiamenti climatici hanno sulle comunità rurali, quali i disordini sociali e il rischio delle ondate di malcontenti, inducendo a una urgente riflessione etico-morale, prima su tutte la responsabilità delle scelte individuali nei confronti delle generazioni future. Scheda del libro: Autore: Guido Conti Genere: Narrativa Casa editrice: Bompiani Pagine: 192 Prezzo: Euro 17,00 ISBN: 978-8830119307 Chi è Guido Conti: parmigiano, è scrittore, illustratore, editore, saggista e insegnante. Ha vinto il Premio Chiara 1998 per i racconti de Il coccodrillo sull’altare, il Premio Selezione Campiello 1999 per I cieli di vetro, il Premio Hemingway per la critica 2008 con Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore e il Premio Carlo Levi 2013 con Il grande fiume Po. Tra i suoi romanzi, Il tramonto sulla pianura, Le mille bocche della nostra sete e Quando il cielo era il mare e le nuvole balene. Ha scritto e illustrato la saga della cicogna Nilou, tradotta in molti paesi. Come saggista ha pubblicato per Libreria Ticinum Editore Cesare Zavattini a Milano (1929-1939). Letteratura, rotocalchi, radio, fotografia, editoria, fumetti, cinema, pittura e La città d’oro. Parma, la letteratura 1200-2020. Come insegnante ha pubblicato Imparare a scrivere con i grandi. Da oltre vent’anni tiene laboratori di didattica della lettura e della scrittura dalle scuole elementari ai master universitari di comunicazione.“Se la terra soffre, soffriamo anche noi. Se il bosco ha sete anche la nostra anima ha sete. L’aridità è nell’anima delle persone.”