Passerà anche questo Natale

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É passato anche questo Natale. […] giorno dunque di festa, ma, come ogni data singolarmente importante o solenne, giorno di rimpianto per quelli passati. Sentimento strano, ingiusto in me, che sono ancora quasi bambina, che dovrei guardare solo all’ avvenire, fiduciosa, serena! […] Ho paura, e non so di che: non di quello che mi viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi, così anche del tempo che passa resta a noi la traccia.”  (Diari, Antonia Pozzi, 1926)
Diari, Antonia Pozzi
Antonia Pozzi, foto dal sito www.antoniapozzi.it
É il 1926, Antonia Pozzi è una dodicenne che ha iniziato a frequentare il ginnasio, dopo aver avviato la sua carriera scolastica privatamente. Riempie le pagine dei suoi diari con pensieri dai quali emergono una spiccata sensibilità all’introspezione e un incessante interrogarsi sulla vita. Lo testimonia il passaggio sopra citato, dove la giovanissima Antonia riflette sul suo “strano” e “ingiusto” pensare al rimpianto in occasione dei giorni di festa.   Sono i giorni di festa momenti di sospensione interiore, in cui il tempo si ferma, si dilata e ci costringe a pensare. Oppure un palpito prolungato riecheggia in petto fino a serrare il respiro. Qualcosa succede, nei nostri Natali, che ci porta a riflettere. In questi giorni di fine anno molti pensieri ci opprimono. Le notizie di cronaca più recente non possono lasciarci indifferenti. La ferocia delle violenze perpetrate verso le donne e gli animali comprovano una umana imperturbabilità, una vera eclissi del cuore che spiazza e che gela. A Natale si celebra una nascita, un venire alla luce, uscire dalle tenebre. È allora un giorno di confine, nel quale puntiamo i nostri passi verso un nuovo orizzonte, in un cammino circolare che ci riporterà a nuovi varchi. Perché il Natale è un fiotto di luce, la candela accesa nell’attesa che qualcosa arrivi. E a volte quel che arriva può anche farci male. Il circolo di Pickwick di Charles Dickens“E veramente numerosi sono i cuori ai quali il Natale arreca un breve periodo di gioia e di felicità. Quante famiglie, i cui componenti si sono dispersi qua e là lontano, nell’irrequieta lotta per la vita, si trovan riuniti di nuovo e s’incontrano di nuovo a Natale in quella felice compagnia e reciproca buona volontà, che è una così larga fonte di gioia pura e sincera, e così lontana dalle ansie e dalle tristezze del mondo, da essere annoverata, nella credenza religiosa delle nazioni più civili e insieme nelle rudi tradizioni dei più rudi selvaggi, fra le prime gioie della vita futura, largite ai beati e ai felici. Quante vecchie memorie e quante simpatie sopite ridesta il tempo di Natale!” (Il circolo Pickwick – Charles Dickens) Nella stessa pagina sucitata, tratta dai Diari del 1926, l’adolescente Antonia Pozzi riflette: “forse per questa piena di sentimenti, per cui in una giornata soffro e godo ciò che apparentemente si può soffrire e godere in tutta un’esistenza, che rimpiango il passato, che adoro il presente, che non desidero l’avvenire; perché sono contenta di essere io, con i miei difetti e con le mie poche virtù, perché non so se in avvenire potrò ancora essere così.” Così, anche questo Natale passerà, e saremo noi a poter annunciare dove la cometa ci ha condotti col suo lampo di luce.  

Mi libro in volo Alda Merini“A tutti voi auguro un Natale con pochi regali ma con tutti gli ideali realizzati.”

(Buon Natale, Alda Merini)

“Il labirinto di ghiaccio” di Valerio Varesi chiude l’AperiLibro di Voghera

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C’è stato un tempo in cui il mito del primitivo esaltava la penna degli scrittori e li portava ad auspicare il ritorno a quell’età dell’oro dove la vicinanza dell’uomo alla natura celebrava la nostalgia per l’autenticità dell’individuo. Cosa ne è oggi di quel mito, alla luce dei concetti di alienazione sociale? Può, oggi, un uomo isolarsi da tutto e da tutti, e riuscire a ritrovare veramente se stesso? Magari cancellando ogni traccia di sé, circondato da enormi e accecanti distese di ghiaccio?

“Ho voglia di lottare e conquistare palmo a palmo questa roccia fino a farne un mondo esclusivo in cui riconoscermi. Forse solo allora, ricondotto alla spontaneità di un bimbo che impara, mi spoglierò di tutto e mi calerò come uno speleologo dentro me stesso.”

Il labirinto di ghiaccio di Valerio Varesi- Mondadori
Valerio Varesi presso la Sala Artigiani di Voghera presenta “Il labirinto di ghiaccio” – Edizioni Mondadori.
Al centro dell’ultimo romanzo di Valerio Varesi c’è proprio un uomo in fuga dalla civiltà, che sceglie di percorrere, per nascondersi, l’impervio e ostile sentiero del ghiacciaio di frontiera, finendo per creare un vero e perturbante confine fra sé e gli altri. Ne ha parlato lo stesso autore di origini parmense presso la Sala Artigiani di Voghera, dialogando con la scrittrice e critica letteraria Patrizia Debicke.   Ci vuole coraggio, ai giorni nostri, a scrivere una storia in cui sfuggire “facilmente alla propria parte nel mondo.” Siamo segnati, in fondo, in questa società, e rintracciabili. Ma forse dovremmo chiederci quali tracce lasciamo dietro di noi se ci allontaniamo dalla società. Davvero saremmo così ricercati e indimenticabili? Con uno stile introspettivo e una acuta analisi psicologica, l’eclettico e ormai popolare in Francia giornalista e scrittore di gialli, noto per aver creato il Commissario Soneri nella numerosa serie di libri, poi trasporta in tv, con il suo “Labirinto di ghiaccio” dà vita a un’opera di potente riflessione sociale.
Il labirinto di ghiaccio di Valerio Varesi- Mondadori
A sinistra, Elisabetta Balduzzi, libraia e editrice della Libreria Ticinum di Voghera, ideatrice della rassegna letteraria l’AperiLibro del sabato.
Circondato dal ghiaccio, l’uomo in fuga deve imparare a sopravvivere, costruendosi una baracca, conservando le sue prede, elaborando un suo piano di lavoro giornaliero. É facile pensare all’eco di Defoe o di Ruosseau, ma il romanzo di Valeri è difficile da classificare, forse proprio perché il tema del primitivo contemporaneo non può più circondarsi di un’aurea mitica. L’individuo contemporaneo non può sfuggire al progresso, alla tecnologia. Persino il silenzio gli risulta insopportabile, il buio, il dover pensare alla fine della vita. Perché, in fondo, non può sfuggire al vero nemico che porta sempre con, dietro e dentro di sé, ovvero se stesso:

“Non ho rinunciato al mondo. Ho voluto prenderne distanza e adesso mi limito ad ascoltarlo con la radio che ho portato quassù. Lo scopro di volta in volta più insensato e futile. (…) Eppure, certe volte, potrei apparire io un fanciullo che gioca. Assomiglio a un matto che s’è voluto cavare la voglia di un’esperienza estrema. Poi, però, la fatica, la sofferenza e l’ostilità di questo mondo, mi riagganciano a convinzione solide come le rocce. So di avere quello che manca ai miei simili: una sfida primitiva nella quale decifrare con spietatezza se stessi.”

 
Il labirinto di ghiaccio di Valerio Varesi- Mondadori
Valerio Varesi a Voghera incontra i suoi lettori.
Inoltrarsi nel labirinto che crea Valeri in questa nuova storia significa spogliarsi di se stessi per ricostruire un individuo nuovo, che esce dalle sue epoche storiche e si immerge in un presente che è e sempre sarà.  

Giovanni Tesio a Voghera per parlare de “I libri degli altri”, lettere selezionate di Italo Calvino editore.

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“Il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei.”

  Italo Calvino, l’autore che non amava le etichette Comincia dopo la Liberazione l’impegno di Italo Calvino come redattore presso la casa editrice Einaudi. È il periodo, come racconta l’autore stesso, in cui dedica più tempo ai libri degli altri che ai suoi. Ed è proprio partendo da questa sua confessione, che il filologo e critico letterario, studioso della lingua italiana Giovanni Tesio, prende in prestito la frase “I libri degli altri” per comporre il volume di lettere, ricevute e inviate fra il 1947 e il 1981 da Calvino, uscito già per Einaudi negli anni ‘90  e oggi ripubblicato nella collana Oscar Mondadori in occasione del centesimo anno della nascita dell’autore di origini liguri. I libri degli altri di Giovanni Tesio - Oscar Mondadori 2023“I libri degli altri” Il testo comprende oltre trecento missive, tra le cinquemila conservate dall’archivio Einaudi, selezionate da Tesio. Calvino si occupava dell’ufficio stampa Einaudi e delle schede editoriali di scrittori, fra i quali compaiono Elio Vittorini, Lalla Romano, Domenico Rea, Angelo Ponsi, Giovanni Arpino, Carlo Cassola, per citarne alcuni. Una preziosa testimonianza per rivivere un momento straordinario della letteratura italiana, per comprendere gli aspetti socio-politici da una prospettiva pienamente culturale.

Agli autori che si affacciavano alla realtà editoriale, Italo Calvino non risparmiava critiche, con risposte ironiche e maliziose, o consigli pungenti per sottolineare l’importanza di una prosa pulita e levigata.

Italo Calvino, definito da Cesare Pavese “lo scoiattolo della penna” per la sua abilità di saltare di ramo in ramo, la versatilità stilistica e l’audacia sperimentale, non tralasciò mai le tracce del suo impegno politico. Nel dopoguerra collaborò con l’ “Unità” e diresse fino al 1959 il “Notiziario”.
Giovanni Tesio durante la presentazione de “I libri degli altri” – Edizioni Mondadori ,presso la Sala Artigiani di Voghera, incontro coordinato dall’autore parmense Guido Conti, con lui nella foto.
In veste di editore, Calvino emerge come un lavoratore scrupoloso e attento, che si impegna a consegnare ai lettori un prodotto finito, dal quale essi possano, esercitando il pensiero, trarre un messaggio. Calvino fu, dunque, un arguto indagatore del suo tempo, non tralasciò mai la tensione morale dalle quali nascevano le storie su cui lavorava e di cui scriveva. Fiabe italiane di Italo Calvino - MondadoriCalvino e il fiabesco Nella seconda metà degli anni ’50 a Calvino spetta il compito di dirigere i lavori della pubblicazione delle Fiabe italiane, commissionate direttamente da Giulio Einaudi. Un lavoro rigoroso, di immane ricerca e traduzione dal dialetto delle varie regioni, ma anche divertente per lo stesso autore, che definisce le fiabe “come una metafora stessa del lavoro letterario.” Del resto all’autore, a partire dalla sua trilogia degli Antenati, venne affibbiata la definizione di autore fiabesco. A lui verranno assegnate le schede di testi che rientrano nella categoria della favola e della fantascienza. Lezioni americane di Italo Calvino - MondadoriCalvino critico militante Da Torino a Parigi, passando per Roma, Calvino viaggiò a lungo e allargò i confini letterari, continuando a sperimentare generi e stili nuovi, allontanandosi da un primo periodo “impegnato” e, indagando e scrivendo dei libri degli altri, andava a indagare la sua di poetica, dandoci così l’essenziale lezione della funzione esistenziale della letteratura.

“C’è ancora domani” fra voci e volti di donne. Impressioni a caldo sul nuovo film di Paola Cortellesi

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Sguardi di donne. Di madri, figlie, vicine di casa. Occhi lucidi ma pieni di dignità. Perché in quello sguardo c’è sempre speranza, quella che guida le donne durante le tempeste affrontate nella Storia. E l’eco dei loro sogni, desideri e ambizioni si sente nell’incantevole film “C’è ancora domani” che vede per la prima volta Paola Cortellesi alla regia.
In-canta la storia narrata, sussurra le voci delle nostre antenate più recenti, delle protagoniste che popolano i romanzi del Novecento delle autrici per molti decenni dimenticate e che oggi tornano prepotentemente a ripopolare gli scaffali delle librerie. Donne dalle voci discrete ma potenti, perché arrivano fino a noi, oggi. Oggi che la coscienza risvegliata in quelle pagine bussa con urgenza alla porta di creature considerate solamente corpi da fare a pezzi.
E allora ci si chiede, davanti alle scene che passano in un bianco e nero che riflette luci e ombre di un passato che non ci ha mai lasciati, cosa è cambiato da allora? Nell’immediato secondo dopoguerra, quando nella capitale stazionano camionette americane e la popolazione stenta a risollevarsi, ci sono donne che, oltre ad adempiere al ruolo di massaie, si ingegnano in piccoli lavoretti per incrementare il bilancio familiare. Delia è una di loro, una donna di casa additata da marito e suocero come una dal “difetto che risponde troppo”, che subisce ma non crolla perché sta lavorando per un domani nuovo, un domani che può sorgere solo grazie al coraggio di scelte difficili. E quelle decisioni germogliano silenziose, nella r-esistenza interiore.
In Delia si fanno corpo le parole “segrete” scritte con timore nei diari di donne come Valeria Cossati, che nasconde il suo quaderno proibito ai familiari «Michele l’altra sera mi ha sorpreso alzata a tarda ora e ha sospettato forse che scrivessi ad un uomo. Non immaginerebbe mai che ho un diario: gli è più facile credere che io ubbidisca a un sentimento colpevole, piuttosto che riconoscermi capace di pensare»; Jeanne Bornand che nelle sue pagine confessa: “Ma se la nostra lingua è paralizzata, si crea tuttavia tutto un movimento in noi che si esprime in modo alternativo alle parole. È il nostro passo che si fa strascicato, la nostra voce di colpo più tagliente, i nostri sguardi più severi. Sono le porte che sbattiamo. E questa volontà che si solidifica e che ci spinge a contraddirlo sempre, o ci immerge in un mutismo pieno di sottintesi, di rimproveri latenti, non formulati, che di conseguenza proliferano come vegetazione sottomarina, come il muschio nei boschi”, Rina Faccio che dichiara “Accettando l’unione con un essere che m’aveva oppressa e gettata a terra, piccola e senza difesa, avevo creduto di ubbidire alla natura, al mio destino di donna che m’imponesse di riconoscere la mia impotenza a camminar sola.”  O Monique, donna spezzata che, rosa dal tormento per l’infedeltà di suo marito, si trova “disarmata, poiché non avevo mai pensato di avere dei diritti.”, che viene descritta così apertamente dalla figlia minore: “Manchi di difesa, è il tuo solo difetto”. O, ancora, come la figlia (Annie Ernaux), che racconta, nel libro a lei dedicato, di sua madre che non c’è più: “Mi vergognavo della sua maniera brusca di parlare e di comportarsi, tanto più quanto mi accorgevo di somigliarle. Le rimproveravo di essere ciò che io, in procinto di emigrare in un ambiente diverso, cercavo di non sembrare più.”
Ed è proprio dalla frattura generazionale che si apre la possibilità di ascoltare le voci che parlano di un futuro nuovo.
C’è ancora domani per sperare di cambiare una Storia che si reitera, ma è nell’oggi che dobbiamo scegliere come cambiare.
Delia lo fa ascoltando le voci fuori e dentro di sé, calcando la scena della sua vita come in una sequenza di quadri viventi nei quali incarna una massaia che nasce e muore, ma che sa, soprattutto, rinascere dalle ceneri di un passato che non torna più.
   

La morte delle sirene di Ben Pastor

“La morte delle Sirene”, Edizioni Mondadori 2023, ultimo libro della scrittrice italiana naturalizzata statunitense Ben Pastor, è uno di quei libri che ti lascia senza fiato, di quelli che farebbe desiderare al giovane Caulfield di telefonare all’autore ogni volta che gli gira. Ebbene, sabato 21 ho avuto il grande piacere di sedere accanto a Ben Pastor e di dialogare con lei sul suo recente romanzo storico, il sesto volume dedicato al soldato danubiano Elio Sparziano, pseudonimo di uno degli autori dell’Historia Agusta, in particolare della vita dell’imperatore Adriano, nonché fonte preziosa per Marguerite Yourcenar nella redazione del suo più grande capolavoro, “Memorie di Adriano”. Organizzato dalla Libreria Ticinum di Voghera per la rassegna letteraria AperiLibro del sabato, l’incontro si è svolto presso la Sala Artigiani di Via Bidone a Voghera. La scrittrice, laureata in Lettere a indirizzo archeologico a Roma e successivamente docente di Scienze Sociali presso numerose Università degli Stati Uniti, ha incantato il pubblico con sguardo arguto di sirena attraverso la narrazione della Storia di Roma ai tempi della seconda Tetrarchia (306-324 d. C.), soffermandosi sulle implicazioni morali e culturali di un critico momento di passaggio. Il crollo dei valori sovvertì gli equilibri politici che, sempre più a stento l’epoca augustea aveva cercato di mantenere. https://www.antoniodellabianca.it/Al termine della presentazione, un godereccio momento con il brindisi dei vini dell’Azienda Agricola Antonio Dellabianca di Pietra de’ Giorgi (Pv). “La morte delle sirene” di Ben Pastor, fra storia e mito Il libro, frutto come sempre di una infaticabile e appassionata ricerca storica, arriva al lettore con una serie di immagini dalla potenza creativa, sia per le descrizioni dei luoghi che diventano vere e proprie presenze palpitanti più che semplici cornici descrittive, sia per i numerosi riferimenti alla mitologia classica. Ed è proprio attraverso il mito che “La morte delle Sirene” può essere al meglio argomentato, così come si è cercato di fare sabato mattina.
“E queste cose non avvennero mai, ma sono sempre: l’intelligenza le vede tutte assieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione.”
 
Partiamo dal mito di Roma, la più grande potenza espansionistica, sfolgorante civiltà del mondo antico che ha affascinato, nei secoli, grandi condottieri e politici, ispirandone l’ideologia. Un mito fatto di grandezza,  eroismo e sacralità. Una magnificenza che declina nell’epoca della seconda tetrarchia, durante la quale si accentuano dissidi dinastici che sfociano in inaudite violenze. É questo il momento che sceglie di raccontare Ben Pastor attraverso il personaggio di Elio Sparziano, integerrimo castrense, che difende strenuamente i valori imperiali, ligio come è alle regole e, soprattutto, all’onore. Di origini danubiane, giunge a Sorrentum nel 306 in attesa di essere ricevuto, a Roma, dall’Augusto junior d’Occidente Massenzio, al quale dovrà consegnare un plico ricevuto dall’Augusto d’Oriente Galerio. In questo frangente di tempo, si dedica alla sua attività di ricerche storiche e di guida ai bordelli di lusso, godendo dei piaceri che la città offre.

“Roma sarebbe stata per Elio Sparziano ciò che dava un senso alla sua vita.”

La morte delle sirene di Ben Pastor, Mondadori 2023
Ben Pastor, autrice de “La morte delle sirene” Mondadori, 2023.
Agli eventi narrati, Ben Pastor sceglie di alternare pagine di appunti di Sparziano, stratagemma che ci consente di cogliere l’evoluzione interiore del protagonista. Durante le sue passeggiate tra i vicoli di Sorrentum, nei pertugi rocciosi che si affacciano sul mare, il militare avvertirà dei sussurri ammalianti, quello delle mostruose creature marine che attiravano i marinai fino a far schiantare le navi sugli scogli. É un richiamo nuovo per lo stoico Sparziano, abituato a osservare la realtà con estrema razionalità. Si affaccia, dunque, nel mare del suo inconscio, Melusina, che in alchimia simboleggia l’anima. Luoghi e personaggi sulla strada di Sparziano si presenteranno come vere e proprie epifanie che faranno incrinare la sua consueta ragionevolezza. “Mentre saliva al passo verso le villette a mezza costa, oltre le quali sorgeva quella che aveva preso in affitto, girandosi indietro fece caso a come, laggiù, il vulcano decapitato dalla grande eruzione somigliasse a un sonnolento ma pericoloso bue di pietra. Eppure ovunque nel golfo si ergevano terrazze sul mare, casette arroccate sulle cime, e, nella fertile pianura, dimore di campagna e fattorie. Impossibile non considerare come, in una stagione mite non dissimile da questa, la stessa pace ambigua avesse regnato su Stabiae, Herculaneum, Pompeii fino alla vigilia del disastro. Lui stesso lo aveva sperimentato in Armenia un anno prima: boati e tremori, scosse e piccoli crolli d’avvertimento non riuscivano a scuotere gli abitanti delle regioni vulcaniche dalla loro inerte abitudine al pericolo. “Ma purtroppo è così anche la grande struttura dell’Impero” si disse governando attento il cavallo. “È così e non se ne accorge nessuno. Si percepiscono scricchiolii, tonfi sordi. Alcuni cedimenti improvvisi possono anche impensierire, ma, dato che non si trasformano subito in qualcosa di grave, il loro ripetersi diviene parte dell’assuefazione.” Rischi, minacce… Da lassù, nel mare che incupiva all’orizzonte, solo gli orli di schiuma e il diverso colore dell’acqua tradivano la presenza di scogli nascosti; proprio ciò su cui contavano le sirene per fare schiantare le navi. Forse, dopo il richiamo fatale, divoravano i resti dei marinai, o li dilaniavano mentre, ancora in vita, si dibattevano tra i flutti presso il relitto.” Cosa accade, dunque, a Sparziano durante il suo soggiorno nella città per antonomasia considerata la casa delle sirene? Queste creature, ben lontane dall’immaginario collettivo novecentesco dalla coda di pesce e lo sguardo ammaliatore, hanno ali da uccello e spaventano i naviganti che, sensibili al loro canto, vengono scagliati con la loro nave contro gli scogli. L’unico a resistere al loro potere di perdizione fu, nell’antichità, Odisseo, eroe astuto ma anche dotato di grande logica e razionalità.
Sala degli Artigiani, Voghera. Da sinistra: la libraia di Libreria Ticinum Elisabetta Balduzzi, la moderatrice Domizia Moramarco e l’autrice Ben Pastor.
Il soldato che crea Ben Pastor con la sua penna è invece l’eroe marziano che subisce una trasformazione interiore di fronte alle manifestazioni delle sirene, rappresenta dunque una versione più acquatica del dio Marte, guerriero e impulsivo, un dio che, fattosi pesce per sfuggire all’inseguimento del gigante Tifone, fugge nelle acque profonde del mare per tramutarsi in pesce. “A Elio venne in mente Nepote, il bizzarro capitano della velocissima Bellatrix, che inseguiva da anni la sua personale creatura marina fino in capo al mondo, senza bisogno di sentirne il richiamo. Il richiamo era già in lui, sotto forma di desiderio. E forse era stato proprio questo, più che l’uso della cera con cui i suoi compagni si erano tappati le orecchie, il segreto del successo di Odisseo nei confronti delle tentatrici. In lui non c’era desiderio di essere sedotto da loro. Voleva tornare a casa – la grande molla del veterano, – non ascoltare le seduzioni delle donne-uccello. Per questo, dopo aver messo al sicuro il suo equipaggio, si era limitato a farsi legare all’albero della nave. Voleva capire fino a che punto la sua nostalgia di Itaca lo avrebbe protetto nei confronti di quanto, negli ultimi molti anni di peregrinazione, l’aveva tenuto lontano dalla patria. Il corpo – certo, il corpo si comporta sempre così – era pronto a cedere e doveva essere assicurato da quelle funi. Ma la mente, no. La mente di Odisseo aveva già deciso di proseguire, di non soccombere. E secondo la leggenda le sirene, sconfitte a casa loro da quel pugno di uomini, ne avevano sofferto al punto da precipitarsi in mare. Era credibile che le sirene si fossero lanciate a capofitto tra i flutti perché Odisseo aveva resistito al loro richiamo? È così che funziona con tali creature? Il loro potere è predicato su un successo considerato immancabile. Se non cedi al mostro, se non credi al mostro, il mostro si autodistrugge e scompare. Se Teseo fosse stato fermamente convinto della non esistenza del Minotauro, forse il Labirinto non avrebbe contenuto alcun orrore per lui. Ma ci credeva, e aveva dovuto combattere la creatura figlia del Toro in un duello mortale per sopravvivere. Tuttora, però, c’erano marinai che temevano le sirene, che offrivano loro sacrifici prima di salpare. E su questa penisola – raccontavano – diversi luoghi si contendevano il primato di avere ospitato per primi un sacello in onore delle ammaliatrici. Quanto a Elio, non temeva le sirene, né in mare né sulla terra. Era curioso riguardo alla loro natura primigenia, precedente a qualsiasi altra considerazione del bene e del male che dèi e semidèi potevano elargire agli uomini.” Ben Pastor procede la sua storia disseminando la trama di numerosi indizi letterari, fino a riproporre una personale versione del grande capolavoro russo “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. “Ascoltare storie di intrighi familiari ha un effetto singolare su di noi, ci fa ripensare alle nostre origini, e ci spinge a riflettere su come le vite dei nostri vecchi abbiano influenzato le nostre.” Elio Sparziano si ritrova invischiato in un feroce parricidio ai danni dell’abbiente commerciante immobiliare greco Teodoro Pelagio. I tre figli, che richiamano nei nomi e nelle caratteristiche fisiche e propensioni i protagonisti del capolavoro dell’autore russo citato, potrebbero essere stati spinti tutti da validi moventi, il che rende più intricata l’indagine. Il mito del padre, a questo punto, si carica di un significato nuovo, che dal singolo si amplia al collettivo. Quanto accade nell’intimità delle singole famiglie patrizie, riflette la condizione complessa e violenta delle famiglie imperiali alla guida del potere, portando alla luce la decadenza morale dell’epoca, così come accadeva nella descrizione della città di Tebe, distrutta, in cui si consuma il parricidio di Edipo. La città di Roma in cui si ritroverà successivamente Elio Sparziano quando verrà finalmente accolto da Massenzio, è segnata da sommosse e dal degrado urbano. Niente a che vedere con la città fastosa tanto glorificata nel passato. A definire Roma un “finimondo” sarà la voluttuosa amante di Sparziano, la Venere venuta dall’oriente, l’astuta imprenditrice che solca i mari sulla nave che porta il nome della Regina delle Amazzoni, Pentesilea. Termuthis, dal pube glabro come l’avorio, sfuggente e audace, smaniosa e indipendente, alla quale Sparziano, in pieno cedimento emotivo di fronte al declino dei valori che lo hanno reso il valoroso soldato a servizio di Roma, chiede: «Che cosa sai delle sirene?» (…) «Ragazzo mio» la sua voce gli giunse vicina e tranquilla. «So che non ti apri quando fai l’amore. Ma a me puoi dire ogni cosa, lo sai. Non di lavoro, quello te lo lascio tutto. Di te.» Non era una risposta alla domanda di Elio sulle sirene, tuttavia quell’invito a rivelare assilli e desideri, e a sperare di risolvere, ottenere, trovare pace, costituiva l’essenza stessa di quelle creature.”
La morte delle sirene di Ben Pastor, Mondadori 2023.
A destra la scrittrice Patrizia Debicke, anche lei presente all’AperiLibro del sabato del 21 ottobre a Voghera.
“La morte delle sirene” descrive una difficile epoca di passaggio, di grandi stravolgimenti politici e morali. Tetrarchia e caduta degli antichi dei. Muoiono se non ce ne curiamo, ovvero se dimentichiamo che esistono, che loro cantano, e quale canto giunge a noi? Le divinità pagane sono differenti dal dio cristiano che presto li sostituirà, sono rappresentazioni delle manie, dei desideri umani. Elio vive in un momento storico in cui l’uomo comincia a dimenticarsene. Elio crede nei valori solidi morali dell’impero, ha sempre servito con onore Roma, ma si ritrova a vivere in una critica epoca di passaggio, in cui l’individuo si sente smarrito, legato al vecchio ma già proteso al nuovo. I valori di un tempo vengono soppiantati da nuovi che si presentano in un clima fatto di violenze e corruzioni morali. Elio Sparziano è, dunque, un nuovo Ulisse? Schiva il rischio di essere vittima del canto delle sirene o c’è ben altro dietro questa sua resistenza? Incarna l’uomo della modernità, che sente un nuovo richiamo, il grido nietzschiano Dio è morto, un nuovo modo di stare al mondo di fronte alla caduta dei valori saldi e certi. Mantenere il controllo di fronte all’avidità sfrenata e alla sete di potere che investe gli stessi regnanti, non più capi illuminati, filosofi rischia di impedirgli di credere in qualcosa, ormai. In bilico, fra l’ardore della battaglia e lo stallo della paralisi interiore, fra l’azione e la passività, il protagonista di questa nuova e acuta indagine di Ben Pastor, incarna la duplice polarità Fuoco/Acqua: ciò che il fuoco espande, l’acqua allenta, così come esprime l’immagine finale del passaggio che segue: “Qui la stagione continua a essere dolce e piacevole. Sui terreni favoriti dal sole pieno e protetti dai venti, i vignaioli stanno già pigiando l’uva, cantando e agitando rami di salice per aiutarsi nel ritmo. In Egitto questi sono i giorni in cui il Nilo esonda e crea ampie lagune lungo le sue rive; le oasi si trasformano in isole, vengono spazzati via i villaggi di mattoni crudi, annegano parassiti, animali domestici, e a volte anche i loro padroni. Fa bene Thermuthis a venir via adesso. Come il Vesuvio segue le imperscrutabili leggi dei vulcani, così ogni anno il fiume egizio porta fertilità, ma non risparmia nessuno. No. Sopravvivono i coccodrilli, che sferzano le acque melmose in cerca di carne viva o morta. Così fuoco e acqua cancellano l’esistenza, e la ricreano.” Scheda del libro: La morte delle sirene di Ben Pastor, Mondadori 2023Autrice: Ben Pastor Genere: Narrativa – Giallo storico Casa editrice: Mondadori Pagine:512 Prezzo: Euro 19,00 ISBN: ‎ 9788804753124   Chi è Ben Pastor: La morte delle sirene di Ben Pastor, Mondadori 2023 nata a Roma da una famiglia di lontana origine ebraica, ma trasferitasi giovanissima negli Stati Uniti dove ha acquisito la cittadinanza, ha insegnato Storia e Scienze sociali presso diverse università americane. Oltre al ciclo dedicato al soldato-detective Martin Bora, è autrice della serie thriller con protagonista Elio Sparziano, storico e investigatore del IV secolo d.C. I suoi romanzi sono pubblicati in quindici paesi.  

Presentato il libro di poesie di Giuseppe Porqueddu – Libreria Ticinum Editore, Collana La Stanza Landini

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Per la Rassegna VogherAutori, la casa Editrice Libreria Ticinum ha presentato, sabato 7 ottobre presso la Biblioteca Civica Ricottiana, la silloge poetica del poeta vogherese di adozione Giuseppe Porqueddu. A dialogare con l’autore, la politica Romana Bianchi, il Dirigente, Provveditore e Ispettore a riposo Pietro Bodini e lo scrittore Guido Conti, autore della quarta di copertina del libro di Porqueddu.
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
La libraia e editrice Elisabetta Balduzzi.
Ha aperto l’incontro la libraia e editrice Elisabetta Balduzzi, che ha posto l’attenzione sull’importanza della poesia, oggi ancora relegata a genere di nicchia per molti editori, seguìta da un intervento di Matteo Landini, il fondatore dello spazio artistico dell’Associazione culturale “La Stanza Landini” sorto nel cuore di Voghera, dove giovani artisti espongono le proprie opere a favore di azioni benefiche per la comunità. Dall’iniziativa, nella primavera 2023, è nata l’omonima collana, senza scopi commerciali, di Libreria Ticinum Editore che si propone di divulgare opere di qualità di Voghera e dell’Oltrepò, i cui ricavati di vendita vengono devoluti al finanziamento di progetti di solidarietà per l’educazione dei bambini in Italia e all’estero.  
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
Matteo Landini, fondatore della Stanza Landini a Voghera.

“Poesia cimento di sopravvivenza,

orchestra lieve di simulazione,

che sfida e non uccide, solo elude

pari insidia del perfido avversario”

(Strategia di parole. Giuseppe Porqueddu)

   
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
Il poeta vogherese di adozione Giuseppe Porqueddu.
“Ha senso pubblicare un libro che imprigiona la vita di una persona, quando la vita è fluida e si contraddice?” È intervenuto con questo interrogativo il poeta Porqueddu, il quale ha ringraziato Libreria Ticinum Editore per la cura e l’attenzione della pubblicazione, nonché vicinanza all’autore sul piano umano, seguìto da Pietro Bodini che ha sottolineato l’importanza della potenza creativa della poesia, in opposizione all’ideologia del servo-padrone e alla condizione di potere che ne deriva. La poesia di Porqueddu, secondo Bodini, si caratterizza per coerenza e coesione nella scelta di parole raffinate. Il suo stile si può ricondurre all’incontro di tre movimenti: la linea colloquiale con echi a Caproni, nell’elusione di eccessivi estetismi; la lingua novecentesca che rimanda al il simbolismo e al Gruppo dell’Officina guidata Pasolini, e infine nel classicismo, con i richiami a Leopardi e a Petrarca. La poesia di Porqueddu è tutta protesa a trovare modi e forme per realizzare stile e significati, dall’amore per la comunità all’amicizia, fino all’amore per la donna che, a differenza dei poeti del Trecento, emerge nella sua “terrestrità”, dall’espressione fragile e malinconica dalla quale si evincono forti valori familiari.
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
Pietro Bodini, Dirigente, Provveditore e Ispettore a riposo.
 

“Amore irrimediabile

che ritorna: sei tu sopra il crinale

inondata di luce, sempreverde

metamorfosi, rosa nel meriggio

di strano autunno, tiepida ossessione

circonfusa d’un aura malinconica.”

(Sul crinale. Giuseppe Porqueddu)

 
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
La politica e ex-docente Romana Bianchi.
Riprende e allarga il discorso sulla femminilità nelle poesie del poeta, Romana Bianchi evidenziando come lo sguardo che il poeta pone sulla donna nasconde la ricerca del posto tutto per sé, una ricerca continua e  difficile in un mondo imperniato di maschile. È un riconoscimento, quello che emerge dai versi, di un essere al mondo femminile diverso, osservato con una consapevolezza nuova.  

“Quando la mia donna

per infinite ore in solitudine

tra un libro e l’altro di cultura varia

                                          stira ancora lenzuola e fazzoletti

                                      E (seppur femminista) anche camicie da uomo…”

                                   (Quando una donna… Giuseppe Porqueddu)

 
Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023.
Lo scrittore Guido Conti.
Guido Conti, autore della quarta di copertina del libro di Porqueddu, che definisce “un’opera matura, ricca di umori, sentimenti e affetti”, ha commentato con sottigliezza e acume lo stile del poeta, dalla scrittura elegante e le immagini personali che descrivono un universo unico e al contempo classicheggiante. Tornando sul tema della memoria e superamento dei limiti femminile, il giornalista Gigi Giudice, presente fra il pubblico, ha ricordato la pittrice vogherese, ex cantante lirica Luisa Pagano, della quale in questi giorni La Stanza Landini ospita un omaggio. Una artista da riscoprire, ancora oggi circondata da un alone di mistero per la sua continua evoluzione pittorica che l’ha resa nel tempo una artista d’avanguardia dallo stile personalissimo. Strategia di parole di Giuseppe Porqueddu . Libreria Ticinum Editore 2023. L’autore della raccolta ha emozionato il pubblico con la lettura dei versi della poesia d’amore “Se tu non fossi” dedicata alla sua musa e moglie. Infine, ha ricordato la molteplicità delle tematiche selezionate, come le poesie che riflettono sulla condizione umana politica e religiosa, fra cui la scelta di resistenza esistenziale agli orrori del suo tempo della giovane filosofa ebrea olandese Etty Hillesum, alla quale sono dedicati i versi: “tu credesti in armonia celeste/realizzata entro te/ moristi forte/d’una letizia eroicamente folle/incontro ad  Auschwitz: tu sopravvissuta/non in carne ma in spirito/ (…) sei risorta/nella memoria d’intimi diari/e noi leggendo, ripensando a te/torniamo vivi a scrivere altra storia.” Così come la storia la fanno coloro, uomini e donne, che rischiano e muoiono per dignità, coloro che oggi sono ricordati come pietre d’inciampo, titolo di una poesia che Porqueddu chiude così:
“Pietre d’inciampo, ma per inciampare
davvero in agnizione senza scampo
di chi fummo e chi siamo: un nuovo campo
da liberare il dì della memoria.”

Uvaspina di Monica Acito

“Una volta Nisida e Posillipo si erano messi a fare l’amore. Poi per tanti motivi non lo poterono più fare. (…) Cosa ci potevano fare Nisida e Posillipo contro il mare? Contro il vento? Contro tutto quello che li separava? A volte uno non può fare altro che inventarsi un po’ di alleria per campare e trovare qualcosa di buono pure là in mezzo.”
Ci sono famiglie che sono come tavoli sghembi. Si tengono in piedi per una forza centrifuga apparente, oscillando fra un moto di tenerezza e uno improvviso di spietatezza. Carmine Riccio, detto Uvaspina, e Minuccia sono fratelli, il primo dai lineamenti delicati, con una riccioluta e bruna chioma sul capo che lo fa sembrare un criaturo angelico, l’altra più goffa e dallo sguardo sempre in tempesta. A seguito  di un amplesso all’ombra di un bosco, sul muschio accanto a un arbusto di uvaspina con cui sua madre si è punta un dito, il primo è nato con “una voglia a forma di chicco d’uva ma pallida come una luna, sotto l’occhio sinistro” e proprio come la bacca si lascia spremere fino all’ultima goccia dagli altri per alleviare, con il suo succo, il dolore altrui, sua sorella è invece stata concepita a seguito del funerale della nonna paterna ed è uno strummolo, una trottola dal punteruolo affilato pronto a colpire, in balia di un movimento rotatorio impossibile da fermare. In giovane età, entrambi assistono alla Resurrezione della loro madre ogni mercoledì sera. La donna, detta La Spaiata per via della riga in mezzo sulla testa che le taglia “in due il cranio, con la stessa geometria con cui Spaccanapoli divideva la città antica tra nord e sud”, muore nel letto una volta a settimana poiché lasciata sola da Pasquale Riccio, suo marito, che si reca al Circolo nautico di Posillipo, di cui è presidente. I due bambini vegliano al capezzale della madre in attesa del suo risveglio, che avviene puntualmente, non senza prima aver lasciato la prole in preda all’angoscia. “Mammà, ti faccio vedere che non ci vai al cimitero, tu devi stare con noi”, ripete ogni volta, disorientata, Minuccia. La Spaiata un tempo era una “chiagnazzara”, veniva pagata per piangere ai funerali. Sempre pronta a chiagnere e a fottere, a furia di fottere è rimasta fottuta dalla vita. Il suo corpo, pingue, ha assunto movenze fiacche e sgraziate. Si trascina sul palcoscenico della sua vita con indolenza, ma sputa grumi di rabbia addosso al marito che la trascura. Non riesce a opporsi, invece, a sua figlia Minuccia, sempre pronta a scagliarsi contro Uvaspina, al quale la donna lancia sguardi imploranti di sopportazione. E Uvaspina subisce, di notte e di giorno, le angherie di Minuccia, mordendosi la lingua ogniqualvolta non fa attenzione alle parole da dirle.
Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023
“A Port’Alba Uvaspina poteva osservare chiunque: i ragazzi del liceo che cercavano libri per le ricerche di scuola, le maestre, i preti e alcuni bambini che facevano pietà come i cagnolini ciechi appena nati.”
Uvaspina ama studiare e la poesia di Salvatore Di Giacomo, del quale cerca i libri fra le bancarelle a Port’Alba. Ha anche vinto un concorso di scrittura a scuola grazie a un componimento che, una volta mostrato con orgoglio a casa, è stato stropicciato con rabbia da sua sorella. Femminiello è il soprannome con cui Minuccia schernisce continuamente il fratello. Come se non fossero già abbastanza le angherie dei compagni di scuola. Minuccia disturba, punzecchia, ferisce e sfregia Uvaspina, mettendo spietatamente alla prova la capacità del fratello di sottomettersi alla sua perfidia. Uvaspina subisce, trattiene e si lascia spremere tutto. L’acino viene ogni volta stritolato fra le mani della spietata e volubile Minuccia. Uvaspina, a furia di subire, esplode e decide di liberarsi della sua verginità di anima integra e pura. Salvato dalle acque da Antonio, che lo inizierà alle cose dell’amore, Uvaspina conosce una nuova parte di sé, attiva e desiderante, capace di amare intensamente e anche fragile, per paura dell’abbandono. Minuccia resta preda delle sue emozioni più violente, rabbiosa verso il mondo e chiunque mostri di non darle le dovute attenzioni. Uvaspina comincia a capire come muoversi nel mondo, con un passo più deciso, custodendo dentro sé un amore che ha la forma di grotta, nascosto fra le rocce più possenti e che racchiude il calore più misericordioso. “Quando Antonio gli entrava dentro, non ero soltanto la sua carne a riempirlo, ma le storie di regine, le favole della città antica, dolce e maliziosa, le squame di una sirena che gli sorrideva sempre, il mare, i frutti sani e non spremuti. Perché quando Antonio se lo stringeva al petto come un bamboloccio, Uvaspina si sentiva intero: capiva il senso di quella voglia che aveva sotto l’occhio sinistro e che si portava appresso dal giorno in cui la Spaiata l’aveva sgravato.”
Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023
“L’acqua, che lambiva tutto, non corrodeva e non scavava Palazzo Donn’Anna: sembrava, piuttosto, che gli ridesse intorno. Chissà se lì dentro ci poteva entrare: forse quel luogo era solo per i principi, le principesse e per quelli che non erano lui.”
E mentre nell’immaginario cinematografico l’amore omosessuale è quello che resiste al candore di un sentimento, sostenuto da innocenza e tenacia, nel romanzo di Monica Acito si insozza con gesti brutali e reazioni feroci. Nonostante l’intensità del sentimento, Uvaspina oltraggia con la rabbia l’amore che prova. Ma come sempre il rancore nasconde il più antico bisogno di essere amati, proprio come la città in cui si svolgono le vicende, Napoli-Partenope, colei che sembra una vergine, la città nelle cui acque scorrono sperma e sangue, vita e morte. Ed è proprio nell’apparente dicotomia vita-morte che si sviluppa il legame tra i due fratelli, che richiama quello primordiale fra Caino e Abele. Minuccia e Uvaspina sono legati dal sangue, sono, in fondo, figure speculari. Se nello sguardo di Uvaspina si leggono remore e sottomissione, in quello di Minuccia albergano ferocia e spietatezza. Sono opposti, ma al tempo stesso complementari. Minuccia invidia l’eleganza del fratello, Uvaspina vorrebbe un po’ della tenacia della sorella. E se con i loro occhi, in realtà non facessero altro che cercarsi, esplorarsi e, in fondo, ritrovarsi l’uno nell’altra, senza più respingersi sempre? Uvaspina si sacrifica come fa Abele, Minuccia prova invidia verso il fratello come fa Caino, e si mette sempre in competizione con lui, cercando di ottenere quello che Uvaspina conquista, desiderando, riuscendoci ogni volta, di annientarlo. La scrittura di Uvaspina: La scrittura di Monica Acito è vulcanica, un movimento perturbante dallo stile barocco, che spesso rischia di disturbare il lettore. La sua penna incide, come lo strummolo, scava nella ferita fino a farla sanguinare, senza farsi scuorno. Le parole per Monica Acito sembrano proprio il guizzo improvviso che lampeggia negli occhi di Minuccia e travolge ogni cosa. Le parole sono come lapilli fluorescenti eruttati dal Vesuvio. Chiudiamo gli occhi per non farci accecare e, quando li riapriamo, il cielo si è fatto cenere, la vista è offuscata perché, quello che prima guardavamo illuminato dal sole, adesso ci appare più opaco, insozzato da una verità altra, che porta con sé l’autenticità di un vivere che non vogliamo accettare. Monica Acito denuncia, attraverso la forza delle metafore, l’idillio familiare, svuotandolo della sua immagine nostalgica e mitica. Così come demitizza la città di Napoli con l’uso frequente di ossimori: “Tanti secoli prima, la notte di San Giovanni era molto diversa e faceva cambiare tutto, persino il volto di Partenope. Era come se quella sirena isterica si sedesse col culo sul Monte Somma, quello vicino al Vesuvio: mostrava a tutti il suo profilo delicato, ma anche tutti gli sfoghi e le pustole che le nascevano proprio lì, dove cominciava la cosa. (…) Nel sangue di quella gente non c’era l’Italia, ma il Parnaso, l’Olimpo, le ossa dei santi, gli unguenti delle streghe di Benevento e anche le cosce delle mignotte, e tutto veniva mischiato in un grosso impasto che si calcificava nei lineamenti della gente della Campania. Quell’impasto se lo portavano in faccia come il morbillo o come un peccato, nelle occhiaie e nel labbro inferiore.”
Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023
“Le vecchie case napoletane puzzavano sempre di sangue: sangue masticato, sangue jettato, sangue raggrumato, sangue delle bestemmie e sangue liquefatto dentro il sugo di pomodoro della domenica.”
Le lenti che l’autrice porge al lettore per guardare la città sono come quelli della piccola Eugenia nel racconto che apre la raccolta di Anna Maria Ortese “Il mare non bagna Napoli”. Lo sguardo innocente è repentinamente soppiantato da una visione truce e lucida. Il sacro e il profano si sovrappongono, la bellezza dell’immagine interiore cozza con quella reale e destabilizza fino alla vertigine. Impossibile non riconoscere dunque gli echi della letteratura nostrana post bellica che di Napoli ha saputo e voluto mostrare gli aspetti più turpi, mescolandoli con un prezioso tocco magico, dalla già citata Ortese fino a Rea, passando per Fabrizia Ramondino. Come i personaggi di Domenico Rea, i protagonisti di Uvaspina sono preda dei loro impulsi più incontrollabili, disinibiti in balìa di un mondo adulto destabilizzato. Ma Uvaspina e Minuccia si compenetrano, con i loro eccessi di calma e ira, fino a modellare un unico paesaggio, composto da acqua e fuoco. Napoli emerge, dunque, come una città multiforme, dall’anima misteriosa, popolata da figure bizzarre e contraddittorie, avvolta in un turbinoso simbolismo metaforico farcito di realismo magico. Monica Acito dà vita a un impasto linguistico, in cui l’italiano si mescola alle forme dialettali che sanno incidere con più efficacia la narrazione e rendere più reali i personaggi. La scrittura di Monica Acito si impone nel panorama della narrativa contemporanea con una espressività tutta sua, verace e mordace. L’autrice osa e mostra la realtà invisibile, facendo di Uvaspina un romanzo poetico.
Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023
“La Napoli di Antonio era splendente come certe piante di mare che si vedevano attraverso l’acqua trasparente, non puzzava come la Napoli da cui veniva la Spaiata, dove c’era odore di fogna e pesce avariato. No, non c’era manco odore di fumo che sentiva a Chiaia, il fumo di Merit che impregnava le tende di stoffa pesantee che aveva fatto diventare grigi i soffitti.”
La poesia nel libro è nascosta in ogni riga, perché come intende Martin Heidegger la poesia è la via che “porta alla luce ciò che è nascosto”, rende visibile l’invisibile, così in Uvaspina fra i vicoli più bistrattati di Napoli, maleodoranti e rumorosi, la voracità di affetto dei personaggi si esprime nell’odio e in una collera potenti e ancestrali, che pungono come la scossa provocata dal tocco della medusa sulla pelle della famiglia Riccio. E così come il bruciore dell’ustione poi si placa, così poi torna la frescura, cala il velo di una calma ambigua connaturata all’affetto maldestro, e finisce per avvolgerli tutti. Un accenno al simbolismo di Uvaspina: La poesia di Uvaspina è anche racchiusa nel costante simbolismo delle sottotrame che si contorcono alle file intricate che muovono la trama principale. Napoli è una donna dalle mammelle rigonfie che perde latte e sangue. La Spaiata è unita alla sua Minuccia da un amore viscerale e incondizionato, nonostante subisca i feroci sbalzi d’umore della figlia. “Minuccia, Minuccia sua, nessuno la capiva mai, la sua miniatura, Minuccia del suo grembo, Minuccia delle botte (…) Filomena, Mina, Minuccia, bambina di pietra, che non smetteva mai di abitare il corpo della Spaiata. (…) Spaiata ripeteva il suo nome mille volte nel buio e la bocca le si schiudeva come quella di una carpa fuori dall’acqua, e sentiva il tocco della figlia proprio sull’ombelico, da dove Minuccia era uscita lasciando uno squarcio grande quanto il centro della terra.” A fare da contraltare alla figura della Spaiata, sempre descritta con immagini portentose, è la madre di Antonio: “l’Acquajola era fatta di acqua fresca e sangue sempre nuovo, come quello che si scioglieva al Duomo di Napoli, perché nelle gambe dell’Acquajola c’erano le ferite di tutta Napoli, città mestruata di sangue.” Figure di donne estreme ma anche estremamente fragili nel loro amore verso la prole che le mette in ombra. Ed è quello che infine accade a Minuccia. La trottola finisce di inciampare nel suo stesso filo: il personaggio di Minuccia nell’epilogo subisce. Subisce il suo essere nata donna, con tutti i suoi impeti interiori, vulcanici e irreprensibili, e la sua crudeltà si liquefa ai piedi del Vesuvio, lasciando una impronta rovente nell’animo del lettore, che si riconcilia con l’autrice stessa, la quale nel corso di tutta la narrazione lo ha torturato con una storia dura, aspra, difficile da digerire, ma che lascia il sapore agrodolce al ricordo dei due fratelli che, nel suo immaginario più ancestrale, continuano a lanciarsi occhiate ferine, cariche di un amore incontrollato, sulla riva di una spiaggia. Scheda del libro: Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023Autore: Monica Acito Genere: Narrativa Casa editrice: Bompiani Pagine: 416 Prezzo: Euro 20,00 ISBN: ‎ 978-8830109957   Chi è Monica Acito: Uvaspina di Monica Acito - Bompiani, 2023Classe 1993, è cresciuta in Cilento, tra le gole del Calore e i templi di Paestum. Ha iniziato a scrivere da bambina e fin dall’adolescenza ha collaborato con testate cartacee e online. Dopo la maturità classica si è trasferita nel centro storico di Napoli, tra Forcella e Mezzocannone, e si è specializzata in Filologia moderna presso l’Università Federico II. Nel 2019 è approdata a Torino, dove ha frequentato la Scuola Holden. Nel 2021 ha vinto, tra gli altri, il Premio Calvino per la narrativa breve e i suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste letterarie. È docente di discipline umanistiche presso la scuola secondaria di primo e secondo grado.  

In grazia di Dio di Cristina Biolcati

Le mura dei conventi nascondono misteri, nascondono persone, nascondono inimmaginabili misfatti. I conventi sono luoghi sacri, da sacro, parola indoeuropea che significa separato, e i luoghi di culto sono appunto divisi dai luoghi profani in cui si svolge la vita quotidiana, sono dunque un “altrove” guidato da proprie leggi, luoghi in un certo senso segreti, fino a diventare ostili, ambivalenti, dominati da luci e ombre. Esistono mondi, dunque, nei luoghi sacri, sconosciuti e perturbanti, così come è duplice la polarità del sentimento religioso, in cui coesistono un aspetto terribile e uno affascinante, tremore e stupore. Ed è la parola poetica, così come l’esperienza mistica, che meglio si avvicina al mistero dell’esistenza di cui si fa esperienza attraverso il sacro.
 "In grazia di Dio" di Cristina Biolcati - Todaro Editore, Collana Gechi, 2023
La piccola Allegra Byron in un ritratto del 1800.
La storia che ci consegna Cristina Biolcati è un giallo deduttivo storico coinvolgente, non solo per l’intrigo che si nasconde all’interno di un luogo sacro, ma anche per l’omaggio alla poesia attraverso celebri versi latini e una figura spesso dimenticata dalla storia: Allegra Byron. Nel 1822 il convento di San Giovanni a Bagnocavallo, nei pressi di Ravenna, ospita, fra le educande di famiglie benestanti, la giovane e innocente Allegra Byron, figlia del celebre poeta inglese George Gordon Byron, nata da una sua relazione con Claire Clairmont, imparentata con Mary Shelley. Byron riconobbe la bambina, ma poi, nel 1821, decise di affidarla alle suore Cappuccine del convento di San Giovanni a Bagnocavallo. La storia della piccola Allegra è caduta nell’oblio troppe volte, così come passano in silenzio le vite delle numerose donne rinchiuse nei conventi. Cristina Biolcati ce le restituisce attraverso un cameo dai tratti delicati e al contempo malinconici.
“Una fortezza di pietra inespugnabile, a delineare tutto il perimetro, che pareva inghiottire chiunque volesse entrare.”
L'ex-convento San Giovanni. Bagnocavallo - Ravenna
L’ex-convento San Giovanni. Bagnocavallo – Ravenna
La trama di “In grazia di Dio”: A inizio primavera del 1822, presso il convento in cui l’autrice ambienta gli eventi narrati, giunge il commissario pontificio Alfredo Casadio, affiancato dal suo preposto Dante Graziani, per risolvere il delitto ivi commesso. La più anziana delle consorelle, la novantaquattrenne suor Teresa, è stata infatti ritrovata sgozzata nella sua cella di clausura, dove si era rinchiusa a seguito di un voto. Chi ha avuto accesso alla cella della suora per poter commettere l’efferato omicidio? Il commissario pontificio indaga con zelo la vicenda che si rivela più complessa del previsto a causa del mistero attorno alla figura di Suor Teresa, abile scrivana che aveva contatti con l’esterno solo attraverso la corrispondenza. La vicenda è ambientata dunque all’interno di una comunità di donne, instancabili e fiere lavoratrici, le suore Cappuccine, alle quali nel 1816 era stato affidato il convento. Le suore avevano deciso di farne un educandato per le giovani fanciulle di nobili famiglie. A guidare il convento, la badessa suor Amabile, “una donna bassa e rotonda, con gli occhi azzurri, stretti come capocchie di spillo.” Il commissario pontificio indaga con zelo la vicenda, che si rivela più complessa del previsto a causa del mistero attorno alla figura di Suor Teresa, abile scrivana, mentre l’intrigo si infittisce per la presenza della piccola Allegra Byron. La figura di Alfredo Casadio: L’investigatore creato dalla penna di Cristina Biolcati è un personaggio caratterizzato da una accentuata sensibilità:“La pena che Casadio provò, per quell’esserino fragile e pieno di vita, per quell’angelo biondo che era Allegra Byron, fu immensa. Meglio, era tristezza allo stato puro.” Il costante pensiero ai suoi due figli maschi rivela un’indole premurosa e affabile. Inoltre, emerge più volte in lui una spiccata conoscenza della poesia.

“Dammi mille baci, e quindi cento.”

Sarà proprio l’indizio poetico dei versi di Catullo a dare una nuova svolta alle ricerche del commissario pontificio e che gli consentirà di sbrogliare la matassa. L’aspetto femminile di “In grazia di Dio”: Nonostante l’arguzia e lo spiccato intuito di Casadio, quella del convento è una comunità femminile solida che si rivela difficile da scalfire. Le suore, sotto il giogo della badessa Amabile, sapranno fare fronte comune, rivelando un aspetto spesso sottovalutato del mondo ecclesiastico, ovvero la possibilità della donna di esercitare il proprio potere oltre le mura della comunità, che invece si limita ad attribuirle un mero ruolo di moglie e nutrice. Ma in questa storia sono proprio le prerogative femminili, come la cura per le faccende quotidiane e il senso di accudimento, a rendere vincenti le protagoniste. È questa, dunque, la peculiarità del giallo scritto da Cristina Biolcati: dietro ogni personaggio del lungo racconto “In grazia di Dio” si celano prospettive interessanti da indagare di carattere etico-sociale. Il luogo sacro in cui avvengono le vicende diventa, paradossalmente, teatro di nefandezze e corruzioni morali, riflessione che rievoca le atmosfere di celebri romanzi dello stesso genere passati alla storia. Scheda del libro: "In grazia di Dio" Todaro Editore, Collana Gechi, 2023 Autore: Cristina Biolcati Genere: Narrativa/Giallo Casa editrice: Todaro Editore – Collana Gechi Pagine: 59 Prezzo: Euro 2,99 ASIN: ‎ B0C9JQ5B1T   Chi è Cristina Biolcati: Cristina Biolcati, autrice di "In grazia di Dio" Todaro Editore, Collana Gechi, 2023 di origini ferraresi, è  padovana d’adozione. Laureata in lettere, forte lettrice, è autrice di poesie e racconti brevi. Ama, inoltre, gli animali, l’arte e la filosofia. Collabora con alcune riviste online, dove scrive recensioni di libri e articoli letterari. Fra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo: Nessuno è al sicuro (Edizioni Simple, 2013), un saggio sugli attacchi di squalo in Italia dal 1926 a oggi; Ritorna mentre dormo (DrawUp Edizioni, 2013), una silloge poetica; L’ombra di Luca (Leucotea Edizioni, 2014), una raccolta di racconti brevi; Allodole e vento (Pagine srl, 2014), una seconda raccolta di poesie; Balla per me (Youcanprint, 2017), Le congetture di Bonelli (Delos Digital, 2020), un romanzo giallo breve, e i racconti lunghi: Se Robin Hood sapesse (Delos Digital, 2017), Ciclamini al re (Delos Digital 2018), Dove dormono le fate (Delos Digital, 2021), Talia, la figlia del fabbricante di bambole (Delos Digital, 2022) e Gemino (Delos Digital, 2023).  

La siccità di Guido Conti

“La terra la lavori, ma il cielo non lo domini mai.”

Ci sono estati che segnano un confine nella vita, sono le estati in cui cambiamo pelle, quando ci accingiamo a compiere il rito di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Sono i momenti in cui non ci riconosciamo più, sappiamo chi eravamo fino a pochi istanti prima, ma non capiamo chi stiamo diventando. Possiamo sapere chi non vogliamo diventare, pur nella consapevolezza che in fondo esistono catene difficili da spezzare. Restiamo in bilico, sulla soglia, passivi spettatori di un conflitto dilaniante, ma necessario per attraversare il confine. “La siccità” di Guido Conti è in primis un romanzo di formazione. Andrea è un adolescente dei giorni nostri che trascorre l’estate lontano dalla città e dai suoi compagni di scuola, aiutando il padre Pietro e lo zio Secondo nelle incombenze contadine. L’estate che si appresta ad affrontare è una delle più torride del nuovo millennio, durante la quale non piove: la terra ha sete e gli animali, deperiti e affamati, si avvicinano sempre più ai centri abitati; i tassi rivoltano le tombe nel cimitero alla ricerca del fresco; i cinghiali, debilitati, si accasciano nei greti dei fiumi, diventando carcasse per altre bestie; di notte, i lupi urlano impazziti. Succedono strane cose a Montù Beccaria, piccolo centro dell’Oltrepo’ Pavese, dove qualcuno, di notte, infilza teste di volpi mettendole ben in vista, di fronte alla casa del sindaco che, in un momento difficile per il raccolto e le condizioni del territorio, diventa bersaglio di scherno e rabbia da parte dei cittadini, aizzati in particolar modo da Pietro. Nel frattempo, nei pressi dell’abitazione di Andrea, al di là del bosco, nella frazione di Case Ferri, qualcuno è tornato da molto lontano. Si tratta di Bruno, un vecchio scontroso e a tratti sinistro, che compare dinanzi ad Andrea in maniera inaspettata. Attraverso i personaggi di Andrea, Pietro e Bruno, l’autore descrive le tre fasi della vita: fanciullezza, maturità e senilità. Andrea ama la sua terra, si rifugia nei boschi dove può osservare gli animali innocenti, ma allo stesso tempo sente l’urgenza di scappare lontano, fuori dalla provincia dura e brulla, per aprirsi a nuove prospettive di vita. Pietro è radicato alla terra, è parte del conflitto fra terra e destino, lotta per mantenere in vita i raccolti e assicurare un futuro ai luoghi natii. Bruno ha fatto ritorno alla sua terra, dopo essersene allontanato, in un passaggio ciclico che lo ricongiunge al suo Io autentico. Ama la solitudine, la vita agreste e bucolica in compagnia delle api. Dice: “Le api sono intelligenti, capiscono il tuo umore e hanno un’anima. Ti assaggiano.”
La siccità di Guido Conti - Bompiani, 2023
Oltrepò Pavese
Quando Andrea incontra Bruno per la prima volta, l’uomo stringe in mano un coltello. É un incontro ambiguo: pur avendone timore, Andrea si sente attratto dalla figura perturbante di Bruno, che con l’arma sembra proprio squarciare il velo che lo divide dalla sua fanciullezza, aprendogli il sentiero verso l’età adulta. Entrambi schivi e solitari, Andrea e Bruno stringono un legame, in cui è ravvisabile la nostalgia per l’età infantile, la comunione con la natura, dove ci si rifugia per sentirsi protetti e dove, infine, ci si stabilisce perché si comprende che quello è l’unico luogo che ci appartiene veramente. Con la sua durezza, l’impetuosità e la freddezza, Pietro irrompe in questo idillio e smuove la coscienza di Andrea, il quale in un primo momento smania di entrare a far parte del mondo adulto, vorrebbe accompagnare il padre e lo zio nelle scorribande notturne nei boschi, dall’altra scopre che forse quel mondo brutale non gli appartiene. “Suo padre non gli aveva mai fatto una carezza, non gli aveva mai detto una parola di lode, era un uomo venuto su dalla terra, e della terra aveva il cuore asciutto e scabro, con tutte le sue crepe.”
Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore di Guido Conti, Premio Hemingway 2008
Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore di Guido Conti, Premio Hemingway 2008
Quando finalmente li accompagnerà nella battuta di caccia, affronterà il suo il rito di iniziazione. Ma la vista del sangue e la ferocia verso gli animali lo destabilizzeranno, al punto che comincerà a ribellarsi all’autorità paterna. Pietro rappresenta, dunque, la forza conservatrice alla quale si oppone quella propulsiva di Andrea nella dialettica passato-presente, vecchio-nuovo. “La morte è come quando un cane sparisce”, pensò, “si perde. Gira e rigira ma non trova più la strada di casa.” L’estate della grande siccità significherà per Andrea proprio congedarsi dal passato e dalle figure a lui care, attraverso l’incontro con la morte e con le asprezze della vita dei campi. Ad accoglierlo ci saranno le braccia ruvide, ma ben salde, di Madre Natura, la quale dona, toglie, abbandona e insegna, in un divenire ciclico costante e immutabile.  

“Piove poco e quando piove, piove male”, commentò Pietro.

“Piove poco perché non avete fede” (…) “ … non c’è scienza che tenga. Non si domina il cielo.”

Il grande fiume Po di Guido Conti - Giunti 2020
Il grande fiume Po di Guido Conti – Giunti 2020. Premio Carlo Levi 2013.
La figura materna resta in ombra nella storia che racconta Conti, ma al contempo i suoi interventi sono ogni volta decisivi. Elvira racchiude in sé le prerogative femminili più arcaiche: protezione, empatia, sensitività. Si fa custode delle tradizioni, di quelle credenze popolari che si rivelano propiziatorie, come i rami di ulivo da bruciare e le due croci segnate con la scopa prima dell’arrivo del temporale, rito che risparmia dalla grandine i loro campi, dove “il tempo ha girato in maniera strana”.

“Questa è diventata terra di nessuno. Sono tutti morti quelli che abitavano queste tre case.”

“La siccità” di Guido Conti è un omaggio all’Oltrepò e alla sua gente che resiste alla trasformazione e all’annientamento che porta con sé la modernità. É un inno al legame autentico che si stabilisce con la terra natìa, nei confronti della natura di verghiana memoria con le sue contraddizioni, tanto malvagia quanto accogliente e protettiva. Come nelle novelle “Vita nei campi,” i sentimenti che guidano i personaggi sono: alacrità, dolore, solitudine, perdita di affetti, rabbia e vendetta verso le ingiustizie sociali. Gli agricoltori lavorano e lottano duramente e, impotenti di fronte alla siccità, soffrono in silenzio. Ma restano e combattono, perché amano la loro terra, dove la natura ha un’anima.

“Se la terra soffre, soffriamo anche noi. Se il bosco ha sete anche la nostra anima ha sete. L’aridità è nell’anima delle persone.”

Nella nota conclusiva, Guido Conti dichiara di essersi ispirato ai lunghi racconti che compongono la trilogia di Romano Bilenchi, “La siccità” “La miseria”, “Il gelo”, riuniti nel volume “Gli anni impossibili”. Dei racconti riprende molti temi, come l’esplorazione del mondo dell’adolescenza e il conseguente passaggio all’età adulta e la spietatezza della natura che richiama la sterilità sociale, ma a un secolo di distanza Conti si fa portavoce dell’impatto socio-economico che i cambiamenti climatici hanno sulle comunità rurali, quali i disordini sociali e il rischio delle ondate di malcontenti, inducendo a una urgente riflessione etico-morale, prima su tutte la responsabilità delle scelte individuali nei confronti delle generazioni future. Scheda del libro: La siccità di Guido Conti. Bompiani, 2023Autore: Guido Conti Genere: Narrativa Casa editrice: Bompiani Pagine: 192 Prezzo: Euro 17,00 ISBN: ‎ 978-8830119307   Guido Conti, scrittoreLa siccità, Bompiani 2023Chi è Guido Conti: parmigiano, è scrittore, illustratore, editore, saggista e insegnante. Ha vinto il Premio Chiara 1998 per i racconti de Il coccodrillo sull’altare, il Premio Selezione Campiello 1999 per I cieli di vetro, il Premio Hemingway per la critica 2008 con Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore e il Premio Carlo Levi 2013 con Il grande fiume Po. Tra i suoi romanzi, Il tramonto sulla pianura, Le mille bocche della nostra sete e Quando il cielo era il mare e le nuvole balene. Ha scritto e illustrato la saga della cicogna Nilou, tradotta in molti paesi. Come saggista ha pubblicato per Libreria Ticinum Editore Cesare Zavattini a Milano (1929-1939). Letteratura, rotocalchi, radio, fotografia, editoria, fumetti, cinema, pittura e La città d’oro. Parma, la letteratura 1200-2020. Come insegnante ha pubblicato Imparare a scrivere con i grandi. Da oltre vent’anni tiene laboratori di didattica della lettura e della scrittura dalle scuole elementari ai master universitari di comunicazione.

Intervista ai vincitori della prima edizione del Premio Letterario Città di Asti

Con una cerimonia all’insegna dell’arte e dell’amore per la cultura, si è conclusa, a fine gennaio presso i locali di Letteratura Alternativa Edizioni & Asti Art Gallery, la Prima Edizione del Premio Letterario Città di Asti. Durante la serata finale, che ha visto i quattro vincitori, uno per ciascuna sezione prevista (narrativa edita, narrativa inedita, poesia edita e poesia inedita) premiati dai giurati (l’artista e scrittore Pablo Toussaint; lo scrittore, fotografo e critico d’arte Roberto Portinari; il musicista e scrittore Francesco Landi; la book blogger e autrice Domizia Moramarco, e il Presidente Romina Tondo, Editore di Letteratura Alternativa Edizioni) il pubblico ha assistito alle esibizioni dell’ospite d’onore, il cantautore e musicista italiano Andrea Crimi. Di seguito, l’intervista ai vincitori delle quattro sezioni. ANDREA BLOISE, Primo Classificato nella sezione Narrativa edita Con “Storie di Lui” – La Caravella Editrice, Andrea Bloise ci parla di un uomo alla scoperta di se stesso, Lui, nella vita di tutti i giorni. Un uomo dal mondo interiore complesso e versatile che, tra riferimenti musicali, a ritmo scanzonato, e peripezie quotidiane di ordinaria frustrazione, affronta il presente accanto a Lei, punto fermo e imprescindibile. La narrazione, dal ritmo veloce e il tono ironico, rimbalza fra l’immediatezza del presente e la presa di coscienza di sé, mezzo con cui il protagonista si presenta al mondo. Ci racconti, in poche parole, chi è Andrea Bloise e cosa significa per te scrivere? «Salernitano di 37 anni, sono nato ufficialmente ad Agropoli, porta del Cilento, vivo da sempre a Salerno. Qui, a parte un anno e mezzo trascorsi a Roma tra il 2011 e il 2012, ho studiato, sono cresciuto e mi sono laureato in Semiotica del Teatro (triennale) e Comparazione mediale (magistrale). Tra la città di Arechi II e la località cilentana in cui sono venuto alla luce, ho sin qui costruito la mia vita tra le parole, il mare, le assi del palcoscenico e il tifo per la Salernitana. È difficile inquadrarmi con una sola etichetta: sono un attore e regista teatrale con ormai 20 anni di esperienza sulle spalle, sono un web designer, un copywriter, un correttore di bozze e un editor letterario. L’elemento che collega saldamente tutte queste mie attività e gli studi è sicuramente la parola, sia parlata che scritta. Sembra, dunque, una conseguenza naturale quella di essere diventato anche autore, un’ennesima sfaccettatura artistica nella quale trova più facile sfogo la mia personalità. Mentre in Teatro sono al servizio di un carattere, di un regista e di un drammaturgo, con la scrittura, paradossalmente, il velo cade, parole e pagine sono l’emanazione più diretta della mia essenza. Scrivere è, per me, un atto faticoso, ma, proprio per questo, una volta compiuto, è fonte di enorme gratificazione. Ci tengo a piacere prima a me stesso, altrimenti non rendo pubblico. Riconoscimenti e approvazione sono, poi, il suggello necessario, come gli applausi al termine di uno spettacolo teatrale.»  Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura? «Sono, innanzitutto, un lettore pessimo! Frammento, abbandono, riprendo, cambio, non sono costante. Ma, se un autore mi convince e intercetta il mio gusto, lo seguo. È il caso di Antonio Manzini, inventore di Rocco Schiavone, e Nick Hornby: del primo apprezzo e condivido la descrizione degli istanti, del secondo l’ironia e la qualità analitica delle relazioni. Di entrambi mi piace la profondità di scandaglio dell’essere umano, tanto nel pensiero razionale quanto nell’intimo più istintivo. Sono, poi, molto influenzato dal Teatro, come attore e regista mi sono confrontato, e spero di continuare ancora, con drammaturgie e personaggi di grande spessore, testi e battute che lasciano il segno in chi, poi, è destinato a riproporli in scena.» La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione? «La programmazione in testa c’è, ma, praticamente, scrivo quando sento di volerlo fare. L’ispirazione è un valore fondamentale della mia scrittura e l’intuito è centrale nel mio comporre, in quanto basato molto sulle associazioni di idee, sugli accostamenti di sensazioni a concetti e sui giochi di parole, tutti meccanismi mentali creativi caratterizzati da improvvisazione e intuito. Poi, però, la scelta dei termini è largamente soppesata.» Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti? «“Storie di Lui” è sia un libro con una narrazione che prosegue diacronicamente, con uno sviluppo di fatti e personaggi che avanza e matura dalla prima all’ultima pagina (e anche oltre, chissà…), sia un testo a episodi, ciascuno che si apre e chiude con una stessa parola, espressione o concetto, leggibile da solo o insieme agli altri. Ed è proprio così che è nato, a episodi: alcuni come appuntamenti settimanali, seguendo la pratica di esercizio scrittorio social, altri come momento di bisogno privato di portare avanti e a compimento il tutto, col chiaro intento di pubblicare.» Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto? «Il desiderio di partecipare per vincere era presente in me sin dal momento dell’iscrizione, non ne faccio mistero. Non tanto per volontà di primeggiare – non sono per niente un competitivo – quanto, piuttosto, per necessità di conferme e sprone a proseguire lungo questo percorso. Ho altri progetti narrativi e un premio, in questo esatto momento, è una spinta forte a portarli avanti. La motivazione che ha accompagnato il riconoscimento mi ha fatto decisamente piacere. Questo primo premio ha, inoltre, un valore affettivo particolare. Non mi è stato possibile essere presente alla cerimonia di premiazione per via del ricovero in ospedale di mio padre avvenuto nei giorni immediatamente precedenti e la notizia della vittoria è stata l’ultima cosa che gli ho comunicato, seppur ormai in rianimazione, prima della sua definitiva scomparsa lo scorso 13 febbraio. Credo di averlo comunque reso contento e soddisfatto di me.» DAVIDE GRITTANI, Secondo Classificato nella sezione Narrativa edita Con “La bambina dagli occhi d’oliva” – Arkadia Edizioni, Davide Grittani ci consegna una storia che spiazza, travolge e inquieta, in un crescendo emotivo che disgrega certezze e valori. “La bambina dagli occhi d’oliva” è il racconto perturbante della violazione dell’innocenza infantile, ma non solo, attraverso  una narrazione lucida, ma mai spietata, che  indaga le zone d’ombra dei luoghi familiari in cui si annidano pericoli e violenza più impensabili. Una scrittura immersiva e sensoriale che rapisce e rovescia ogni punto di riferimento al quale nella vita cerchiamo di ancorarci per non crollare. La storia narrata è un omaggio a Dolores O’Riordan, leader dei Cranberries. Ci racconti, in poche parole, chi è Davide Grittani e cosa significa per te scrivere? «Sono uno scrittore e giornalista, nato nel 1970. Mi occupo da sempre di scrittura, che ho sempre vissuto come un’urgenza personale. Scrivo sotto indignazione, nel senso che la scrittura per me rappresenta innanzi tutto un atto etico, nobilissimo, un atto fortemente identitario, attraverso cui conoscere a fondo una persona (un autore), ciò che pensa, ciò in cui crede, e ovviamente come scrive, che rispetto possiede della lingua, del suo impiego, delle sue straordinarie potenzialità. Ecco perché il più grande tradimento della scrittura per me è coinciso con l’accoglimento dello spettacolo e della televisione come “metri di paragone”, la letteratura che si misura con altri generi di intrattenimento – producendo solo gialli, triller scadentissimi, noir e altro materiale di trascurabile qualità – rappresenta a mio parere il più grande tradimento della letteratura intesa come “missione umana”, appendice testamentaria del libero pensiero.» Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura? «Non sono un grande lettore, non nel senso numerico del termine. Leggo 45/50 libri l’anno. Ma spesso li chiudo prima della trentesima pagina, quando un libro non ha niente da dire lo capisci dalle prime 7/10 righe. Basta leggere Il più grande criminale di Roma è stato amico mio di Aurelio Picca (Bompiani, 2020) per capire che da una certa visceralità, totalità, ampiezza, la scrittura non può prescindere. La scrittura è un gesto eroico, la lettura un gesto volontario. Farsi del male, per l’appunto volontariamente, con libri orribili, pur di portarli a termine, non ha alcun senso.» La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione? «É un atto etico, come detto prima. Prima di scrivere un romanzo, bisognerebbe fermarsi a riflettere per qualche mese sulla sua effettiva utilità, con grande approccio critico e soprattutto con grande coscienza. Che senso ha quello che vorremmo scrivere? Ce n’è davvero bisogno? Che impronta potrebbe lasciare il suo passaggio? Ecco, se tutti i miei colleghi si fermassero a riflettere un po’ di più su queste domande, in Italia avremmo la metà dei 73.000 libri che invece ogni anno vengono pubblicati, danneggiando un settore già in profonda crisi, illudendo i lettori di una presunta qualità che invece è solo supponenza. Per fortuna esiste ancora un sottobosco, il sottobosco dei piccoli editori che producono cose bellissime, spesso sconosciute ai più.» Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti? «Dal racconto della genesi di Profondo rosso, consegnatomi direttamente e personalmente dal maestro Dario Argento. Sotto le carte da parati dei nostri appartamenti ci sono messaggi criptati e confessioni segrete molto interessanti, perché raccontano di noi – anche delle nostre cose peggiori, delle più abiette – senza censure, senza pudori, senza convenienze di sorta. Ci si abbandona alla purezza dei muri, le pareti custodiscono da sempre la forma di comunicazione catacombale più antica nella storia dell’umanità. Ecco com’è nato La bambina dagli occhi d’oliva, un romanzo che non parla di pedofilia ma delle nostre responsabilità verso i bambini.» Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto? «Sono davvero felice del secondo posto al premio Città di Asti, che viene dopo diverse finali in altrettanti concorsi (ben sette) e dopo la vittoria al premio Alda Merini 2022 e dopo la vittoria al premio Città di Siena 2022. La bambina dagli occhi d’oliva è un romanzo che mi ha dato enormi soddisfazioni, ma anche molto dolore. Scrivere di quegli argomenti lascia senza pelle, senza difese. Ecco perché per il nuovo romanzo – prima di scrivere il quale mi sono chiesto molto approfonditamente se servisse o meno 😉 – ho scelto di intraprendere la strada dell’ironia, la musa più sfuggente e più intelligente di cui dispone il genere umano.» MARCO AVONTO, Terzo Classificato nella sezione Narrativa edita Con “Gli irredenti” – Morellini Editore, attraverso una scrittura immersiva e asciutta, Marco Avonto ci presenta un romanzo corale le cui voci narrano di degrado sociale e condizioni precarie ai margini di una immaginaria cittadina della provincia piemontese, alle quali i personaggi sembrano condannati da sempre e per sempre. Le loro vite (s)corrono sul filo di un rasoio già insanguinato. Con un linguaggio crudo e diretto, la narrazione procede nei dialoghi serrati che accelerano il ritmo in un crescendo della tensione che travolge e coinvolge il lettore, facendolo sentire spettatore attivo della messa in scena drammatica e realistica di uno spietato scontro generazionale della fine degli anni ’90, in una Italia di periferia abbandonata a se stessa.   Ci racconti, in poche parole, chi è Marco Avonto e cosa significa per te scrivere? «Scrivere rappresenta per me il modo per raccontare le storie e le vite dei personaggi che si susseguono nella mia mente. Raccontare storie è una cosa che mi è sempre piaciuto, fin da bambino, quando inventavo nuovi episodi delle saghe dei personaggi dei miei fumetti preferiti.» Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura? «Penso che ci sia una forte influenza di un certo tipo di letteratura americana nel mio stile, in particolare quella del Novecento; e se da un lato sento fortissima la fascinazione delle ambientazioni southern gothic dei romanzi di Faulkner o dei racconti di Flannery O’Connor, ho sempre amato e per certi versi ho trovato molte consonanze tra la scrittura asciutta, diretta e precisa dei minimalisti, Carver sopra tutti. Penso che nel tempo (ho iniziato a scrivere da ragazzo, ma “Gli Irredenti” è la mia prima opera pubblicata) la mia voce di narratore abbia incorporato elementi di questi grandi maestri che mi hanno ispirato fino a diventare, nel bene e nel male, quella di oggi: e tuttavia, visto che la stesura del romanzo ha richiesto un po’ più di un paio d’anni, ho trovato variazioni ed evoluzioni dello stile dalle prime stesure alle ultime revisioni. Il che mi conforta, perché significa che come tutte le cose vive anche lo stile cambia e si evolve.» La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione? «Seguo la regola del “20% ispirazione, 80% traspirazione”. Ossia l’idea, il nocciolo della storia, o magari anche solo una immagine o una sequenza (sia essa quella di apertura o un’altra, potenzialmente anche quella finale), possono colpirmi in un qualsiasi momento della giornata (o magari di notte, visto che soffro periodicamente di insonnia). Dopodiché applico, o cerco di applicare, un “metodo”, o per usare le tue parole, un “rituale”: tutte le sere devo scrivere almeno una pagina di materiale, e se proprio non riesco a produrre alcunché di nuovo, correggo e rivedo quello che ho fatto fino al giorno prima.» Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti? «L’idea mi è nata osservando (e per un certo periodo della mia vita) vivendo in un paesino di provincia, fortunatamente più ridente e meno cupo di quello che ho descritto nel romanzo. In effetti penso che il vero protagonista del mio romanzo sia il luogo, o meglio il non-luogo, che permea di sé tutte le storie, con i personaggi che in realtà da protagonisti diventano comprimari. E’ il luogo, è il contesto, che mi affascina. Mi sono immaginato un evento che sconvolge un insieme di esistenze ad un tempo torpide e torbide, e ho voluto provare a raccontare come le vite di questi “irredenti” ne siano toccate e che cosa ne derivi. E ho voluto provare a descrivere un luogo in cui, per citare i versi di una canzone rock dei Blackberry Smoke che trovo molto appropriata, “tutto sembra uguale, eppure non è più lo stesso”». Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto? «La partecipazione al concorso è stata una bella emozione: ma non quanto ricevere la comunicazione che ero entrato a far parte della sestina finalista del Premio, ovviamente. E ancora di più quando ho sentito il “maestro di cerimonie” che mi invitava ad andare a ritirare il premio per il terzo classificato! É sempre una sensazione bellissima quella di vedere il proverbiale frutto del proprio sudore che viene apprezzato… E tale è stata l’emozione sul momento che stavo ritornando a posto senza aver ritirato la statuetta!» ANTONELLA DE BEI, Prima Classificata nella sezione Narrativa inedita Con il suo romanzo inedito “Controvento”, Antonella De Bei narra la vicenda di un intenso legame fraterno che si sdipana su un duplice piano temporale: passato e presente, con un cambio di registro repentino, passando da un linguaggio più immersivo a uno più immediato e colloquiale. Il romanzo trova il suo punto di forza nell’impatto emotivo che emerge dal consolidato legame fraterno e nel riscatto di una maternità di cui viene svelata una innata ambiguità, oscillando fra inaspettate crudeltà e affrancamento dai luoghi più comuni che da sempre intrappolano il mito della maternità. Ci racconti, in poche parole, chi è Antonella De Bei e cosa significa per te scrivere? «Sono un’ex insegnante, appassionata alla scrittura da circa una quindicina d’anni, da quando una brutta ernia del disco mi ha costretta a letto per mesi. Cosa significa per me scrivere? Non riesco ad associare il verbo “scrivere” al coinvolgimento emotivo nella narrazione di un romanzo: si scrive una mail per una richiesta più o meno formale, o la lista della spesa prima di recarsi al supermercato. Per un romanzo opterei piuttosto per RACCONTARE ESPRIMENDO: un infinito più un gerundio che calzano alla perfezione, come un abito aderente prima di mettere su chili!» Che tipo di lettrice sei e quali autori influenzano la tua scrittura? «Quando insegnavo Italiano alla scuola primaria, ero solita ripetere ai genitori: “Non importa la tipologia di libri scelti dai vostri figli, l’importante è che leggano. All’inizio vanno benissimo anche le etichette delle bottiglie dell’acqua!” Ecco, le mie letture sono un po’così, investono una sfera molto variegata. Se dovessi pensare a un’autrice che mi piace in particolare, direi Mazzantini. Ho adorato il suo “Venuto al mondo”.» La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da un’improvvisa ispirazione? «La scrittura per me è un richiamo. Passano giorni interi senza che mi sieda al computer in cerca d’ispirazione, poi d’improvviso, come una ventata d’aria buona in faccia, mi prende il desiderio impellente di buttar giù pensieri che evochino le mie emozioni. Le parole, eruttate alla rinfusa dal vulcano che mi ribolle dentro, vengono poi coccolate, lisciate con cura, sistemate in file ordinate per due, per ripulirle dal caos iniziale in cui hanno avuto modo d’essere.» Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti? «Il romanzo si articola in due momenti ben distinti: “Oggi…” riferito al presente, e “Ieri…”, basato sui ricordi di Antò e Giò, i due fratelli protagonisti. Per quanto riguarda “Ieri”, che descrive le violenze subite dai due personaggi durante l’infanzia, è frutto della mia esperienza come insegnante, e in particolare al momento in cui decisi d’espormi in prima persona, denunciando l’abuso sessuale di un padre nei riguardi della propria bambina. Purtroppo i servizi sociali preposti non riuscirono allora a interrompere quella spirale di violenza, e la mia alunna, dopo un breve allontanamento dalla famiglia naturale, tornò a essere vittima del carnefice che l’aveva messa al mondo. Il silenzioso grido d’aiuto di Claudia ha lasciato un solco profondo dentro di me. E solo oggi, attraverso le pagine di un romanzo, ho avuto occasione di dar voce a una bimba che ormai è donna e madre ma che, a differenza dei protagonisti di “Controvento”, non ha ottenuto alcun riscatto. Perché Claudia oggi è un’alcolizzata cronica, che si trascina da un ricovero all’altro per allucinanti crisi d’aggressività, in cui riversa la rabbia anche sui suoi stessi figli. Per fortuna il libro ha anche una parte decisamente più leggera, riferita al presente: l’unica fonte d’ispirazione è stata la nascita tanto attesa di Lorenzo, il mio Bollicino!» Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto? «Ho partecipato a diversi premi letterari, classificandomi per tre volte al primo posto. Ma la selezione al premio di Asti è arrivata in un momento particolarmente problematico della mia vita, che mi ha impedito di presenziare alla serata di premiazione. E abbattuta mi davo già per sconfitta, quando di primo mattino ho ricevuto una mail, la quale mi informava che il mio romanzo era risultato vincitore. È stato uno spiraglio di luce che mi ha dato forza nuova, una linfa vitale che mi sta sostenendo tuttora!» PLACIDO DI STEFANO, Secondo Classificato nella sezione Narrativa inedita Con “Apnea”, Placido Di Stefano narra di un uomo in fuga con sua figlia, dopo la separazione dalla moglie. Il romanzo è un viaggio che prosegue su plurimi binari, quelli del passato e del presente, a più voci, quella del padre e della figlia, e che ripercorre tutte le tappe di un amore, dal fulgore al tramonto, passando per l’importante punto di snodo che è la genitorialità. Apnea porta alla luce la crisi di una coppia contemporanea alle prese con la gestione del lavoro, la famiglia e il desiderio/necessità di avere tutto sotto controllo, che disorienta e atterrisce sino a far crollare il mito della famiglia (sempre) felice. Ci racconti, in poche parole, chi è Placido Di Stefano e cosa significa per te scrivere? «Placido Di Stefano è un siciliano trapiantato nel milanese. Diplomato in scrittura drammaturgica presso la Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano “Paolo Grassi”, ha vinto ed è stato selezionato in diversi concorsi letterari con racconti di vario genere (nei primi anni 2000). Tra il 2007 e il 2015 ha pubblicato due romanzi con la casa editrice peQuod di Ancona, entrambi finalisti in importanti premi nazionali. Negli stessi anni è stato a un passo dalla Mondadori. Per quanto riguarda il suo rapporto con la scrittura, a volte ha la sensazione di essere inseguito dalle parole, altre volte invece, è lui stesso a inseguire le parole. Questo gioco, apparentemente privo di senso e meramente metafisico, prende una sua forma nel momento in cui una storia si concretizza sulla carta.» Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura? «Sono il classico lettore da quattro/cinque libri sul comodino. Due nello zaino del lavoro. Uno in macchina. Due in ufficio. I miei autori di riferimento son parecchi. Vista l’età (52 anni), posso dividere le mie passioni in ere. Era autori americani del novecento (Lost Generation, Beat Generation, H. Miller, J. Fante, C. Bukowski). Era russi (Dostoevskij e Tolstoj su tutti). Era francesi (in particolare Flaubert e Hugo, ma anche i poeti maledetti). Poi gli austriaci Thomas Bernhard e Peter Handke. Più recentemente posso citare autori americani contemporanei quali DeLillo, D.W. Wallace, McCarthy. Tra gli italiani: Pasolini, Calvino, Balestrini, Tondelli, Fenoglio. Tra i contemporanei italiani: Genna, Nove, Trevisan. Comunque, se devo citare tre autori che mi hanno forgiato (soprattutto all’inizio del mio percorso): Kafka, Beckett, Céline.» La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione? «Visto che per vivere faccio altro (ovvio), la scrittura per me è un rituale, ovvero un ritaglio quotidiano necessario. Sono un pendolare che dalla provincia si sposta nella grande metropoli (Milano). Tutte le mattine, appena salgo sul treno, scrivo per mezz’ora. Lo stesso al ritorno. La sera, dopo aver messo a letto i bambini (ho due figli di 9 e 11 anni), scrivo per un’altra oretta. In pausa pranzo invece, approfitto del tempo libero per leggere.» Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti? «“Apnea”, il romanzo che ha partecipato al Premio Città di Asti, ha avuto una gestazione piuttosto lunga. È il mio quarto romanzo scritto (per la cronaca, sono arrivato al sesto). In origine aveva un altro titolo e una struttura diversa, pur mantenendo lo stesso plot. È passato al vaglio di qualche agente letterario. Ha subito tagli. Rivisitazioni. Editing. Finché, dopo qualche anno, è arrivato alla sua stesura definitiva. L’idea nasce da un articolo di cronaca (un padre separato che porta via con sé la figlia). La prima bozza era sotto forma di racconto breve. Poi ci ho mescolato vicende personali sotto forma di fiction e nel tempo il manoscritto si è trasformato nel romanzo attuale.» Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto? «Ho pubblicato il primo romanzo nel 2007. Il secondo nel 2015. Non sono mai stato abile nelle pubbliche relazioni. A un certo punto, nonostante il curriculum, ho avuto difficoltà a trovare una casa editrice. Poi mettiamoci anche la vita di tutti i giorni, la famiglia, e via discorrendo, ho perso i contatti e non sono riuscito a ripristinarli. Nel frattempo il mondo è cambiato. Anche i riferimenti sono cambiati. Ho pronto diverso materiale. Per capire se è materiale pubblicabile (ovvero coerente, ben scritto, etc.), invio i diversi lavori ai concorsi letterari. Nell’ultimo anno ho raggiunto cinque finali con tre romanzi inediti diversi. Quando raggiungo una finale, penso di aver fatto un buon lavoro. E il Premio Città di Asti con la gratificante motivazione della giuria, me lo ha confermato in modo ulteriore.» DIEGO BALDASSARRE, Primo Classificato nella sezione Poesia edita Nella silloge poetica “6090” (SessantaNovanta) – Il Convivio Edizioni, scorrono frammenti di vita quotidiana che confluiscono nella riflessione esistenziale di un uomo che cresce e si interroga dinanzi al passare del tempo. Nei versi di Baldassarre si coglie l’urgenza di affidarsi al potere salvifico della poesia, risposta al vivere veloce e confuso contemporaneo. Ci racconti, in poche parole, chi è Diego Baldassarre e cosa significa per te scrivere? «Sono nato a Roma nel 1969 e, dopo aver girato l’Italia da nord a Sud, da circa 20 anni risiedo tra le accoglienti colline sopra Pistoia. Alterno l’insegnamento alle scuole superiori con la libera professione di Agronomo.Scrivo poesie dall’età di 12-13 anni. Ho sempre filtrato il mondo attorno a me attraverso la poesia ed è stata, per lunghissimo tempo, una passione privata. Praticamente non ho pubblicato nulla prima dei 40 anni e l’ho fatto su pressione di amici che avevano letto i miei scritti. Se non scrivo per troppo tempo mi sento nervoso, come se cercassi qualcosa che non riesco ad afferrare e che però sento indispensabile per l’equilibrio interiore. In sostanza scrivere, per me, è una necessità.» Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura? «Direi che come lettore sono piuttosto onnivoro. Leggo romanzi, saggi scientifici, ogni tanto fumetti e molta poesia. Solitamente, leggo contemporaneamente un libro di prosa e uno di poesia. La mia scrittura poetica non credo che sia influenzata dall’autore che sto leggendo in quel momento o da quello che ho letto poco prima. Leggere poesia, in realtà, consente di calarmi in una atmosfera interiore che a sua volta stimola il pensiero poetico. Il mio “pantheon” sarebbe sterminato ma alcuni poeti hanno influenzato il mio modo di percepire la scrittura poetica più di altri. Il primo, incontrato alle medie, è stato senza dubbio Giacomo Leopardi; poi, al liceo, Eugenio Montale ed infine, in età adulta, Valerio Magrelli. Ognuno di loro, a suo modo, ha influito enormemente sul mio modo di concepire la poesia.» La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione? «Come scritto prima, per me scrivere è una necessità ma il percorso creativo non è quasi mai lineare. Sicuramente una poesia nasce da una intuizione, spesso da un solo verso da cui iniziare. Dopo, però, segue una fase di gestazione che in genere dura fintanto che la poesia non viene pubblicata. Quando non ho l’ispirazione per una nuova poesia, mi dedico alla limatura di quelle già scritte. Per cui probabilmente è un rituale preceduto da un gesto istintivo.» Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti? «“6090(SessantaNovanta)” è un libro nato durante un periodo della mia vita in cui non ero soddisfatto di quanto facevo. La sua gestazione è durata circa 3 anni durante i quali ho cercato di evadere, come il protagonista, da una situazione di blocco esistenziale. Contemporaneamente ho portato avanti una ricerca sull’utilizzo del verso, sulla sua sonorità e sul suo posizionamento nella pagina scritta. Quando ho terminato di assemblare il libro e ho dovuto cercare il titolo, ho pensato che il numero del cartellino che dovevo timbrare ogni giorno sul luogo di lavoro fosse quello adatto. Il libro è stato poi premiato in un concorso organizzato dalla casa editrice “Il Convivio” e successivamente pubblicato. Nello stesso periodo anche la mia situazione personale è voltata al meglio, avverando l’auspicio di evasione contenuto nel libro. Quando si dice che letteratura e vita si intrecciano.» Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto? «Ho partecipato quasi per caso al concorso. Ho degli amici a Canelli e quando ho visto la pubblicità del concorso ho pensato a loro e mi sono iscritto. Il destino sceglie sempre strade contorte per attuare i suoi progetti. Prima di rispondere alla seconda parte della domanda devo premettere che questo libro è tra quelli che mi hanno dato maggiori soddisfazioni, avendo ottenuto quattro podi e molte menzioni. Però non aveva mai ottenuto un primo premio. Quindi l’annuncio di aver vinto Il “Premio Letterario Città di Asti” mi ha riempito di infinita gioia. Soprattutto per il libro. L’unico profondo dispiacere è stato quello di aver avuto la notizia per telefono da un mio amico che sono stato costretto a delegare. Sfortunatamente mi risultava impossibile conciliare gli impegni di lavoro con la data della premiazione. Dal vivo penso che l’emozione sarebbe stata ancora maggiore. Comunque, dopo la notizia, ho brindato in famiglia con un ottimo spumante di Asti.» FRANCO FILICE, Secondo Classificato nella sezione Poesia edita La silloge poetica “La neve in tasca” – Oedipus Edizioni, racconta in versi esperienze di vita, di fusione di radici, personali e letterarie, che da valori di stabilità diventano al contempo strumento di apertura e allontanamento dai luoghi rassicuranti e familiari. È così che il poeta, con un pugno di neve in tasca che si scioglie a ogni suo passo, evapora nei suoi versi, fra rarefatte caligini, una sapienza acquisita che lo innalza in un volo sempre più leggero, vagando con i suoi occhi meravigliati “in una galassia remota/ che riluce di altri colori.” Ci racconti, in poche parole, chi è Franco Filice e cosa significa per te scrivere? «Scrivere per me è uscire dalla comfort zone della vita quotidiana con tutta la sua routine e le sue prevedibilità ed esplorare nuovi mondi e nuovi modi di essere. Insomma cercare di travalicare l’orizzonte. L’approccio alla scrittura mi è stato facilitato dal mestiere che faccio, il traduttore letterario, che è una forma di “scrittura per conto terzi”.» Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura? «Nella mia vita sono stato e sono tuttora un lettore onnivoro. Da laureato in Germanistica ho evidentemente privilegiato la lettura di lingua tedesca, appassionandomi in particolare a Kafka e Brecht. Ma penso che la mia scrittura sia debitrice non solo ad altre letterature, come quella russa, per esempio, a Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Majakovskij, per quanto riguarda la poesia, a Dostoevskij e Gogol nell’ambito della narrativa. Va da sé che sono un appassionato della letteratura italiana del Novecento in particolare: Calvino, Pasolini, Pavese, Ungaretti, Montale, Moravia… Un autore che ho apprezzato incondizionatamente è sicuramente Fernando Pessoa rispetto al quale avverto una chiara affinità legata alle tematiche esistenziali. Ma la mia scrittura è frutto anche di passioni extra letterarie che ho coltivato negli anni: dal cantautorato genovese (De Andrè, Tenco…), passando per i testi e le musiche delle Orme e del Banco del Mutuo Soccorso per arrivare alla malinconica poesia cinematografica di un Angelopoulos o di un Kiarostami.» La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione? «Per me la scrittura scaturisce da un’improvvisa ispirazione. Mi capita talvolta di svegliarmi di notte con un’immagine, una visione, una parola, un aggettivo particolarmente pregnante. In questi casi afferro subito lo smartphone per non perdere l’ispirazione del momento, prendo un appunto vocale e il giorno dopo procedo alla stesura.»  Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti? «Ho partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti perché istintivamente mi ha ispirato. Non saprei spiegare razionalmente perché. Forse perché è la città di Paolo ConteCome hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto? «Purtroppo non ho potuto partecipare di persona al concorso, neanche alla cerimonia conclusiva, e me ne rammarico. Il riconoscimento ottenuto per me è molto importante perché finora è il più prestigioso riconoscimento che la mia raccolta poetica “La neve in tasca” abbia ottenuto. Di questo sono naturalmente molto grato alla giuria per averne riconosciuto il valore letterarioROBERTO CASATI, Terzo Classificato nella sezione Poesia edita “Appunti e carte ritrovate” – Guido Miano Editore, è il canto moderno dell’uomo messo a nudo dinanzi alla forza penetrante e conturbante di Eros, di una potenza che spiazza, confonde, ma sempre attira a sé. Al centro il cuore del poeta, scosso dai tumulti di onde ora violente ora quiete, da quel mal d’amore (di vita) che coglie nel mare sconfinato in tempesta, dove il cuore ogni volta si perde come quando il poeta confessa: “non resta che amarti (…) adesso che vorrei, più di prima, / accarezzare il profilo delle isole / e accompagnarti verso il naufragio…” Ci racconti, in poche parole, chi è Roberto Casati e cosa significa per te scrivere? «Mi sono interessato da sempre di poesia, pur non avendo fatto un percorso scolastico che prevedesse studi classici. Sono un informatico della prima ora, quelli per intenderci che avevano il dominio assoluto sulle parole “elaborazione dati” e che in azienda venivano visti come degli stregoni. Detto questo mi è sempre piaciuto scrivere, ho iniziato con piccoli racconti e quasi subito sono passato alla poesia. Scrivere è un’esigenza, anche quando per circa quindici anni non ho pubblicato, ho sempre scritto, o forse cercato di scrivere cose che non sempre mi hanno soddisfatto.» Che tipo di lettore sei e quali autori influenzano la tua scrittura? «Sono un lettore appassionato, negli ultimi anni sto veramente leggendo molto, opere di autori affermati e riconosciuti ma anche molte opere di autori conosciuti solo nella ristretta cerchia dei cultori di poesia. Nel tempo gli autori che più mi hanno influenzato sono stati certamente Cesare Pavese e Pablo Neruda, personaggi con poetica molto distante una dall’altra ma egualmente importanti e fondamentali nella mia ricerca. Tra gli autori contemporanei Paolo Ruffilli è quello che più mi ha influenzato nel modo di scrivere che per me deve essere il più asciutto possibile. Sono d’accordo con lui quando dice che la poesia è l’arte del togliere, arrivando alla concisione senza per questo sconfinare in un anacronistico ermetismo.» La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione? «La scrittura poetica per me è atto che partendo dall’ispirazione (uno sguardo, un evento, una frase letta, un sentimento che prende il sopravvento) richiede poi un rituale fatto di applicazione, ricerca, lavoro di approfondimento, definizione, ricerca del verso e nel verso delle singole parole. A volte è anche fatica.» Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti? «Ci arrivo ma prima racconto un po’ la mia storia. Nel 1984 ho pubblicato il mio primo libro “Amore e disamore”, il cui inedito è stato premiato con una segnalazione l’anno precedente da una giuria presieduta da Carlo Bo (Premio Spiaggia di velluto), critico di fama nazionale e che Giorgio Barberi Squarotti e Franco Piccinelli hanno considerato favorevolmente. Nel 1986 è uscita la raccolta “Roma e Alessandra” per le Edizioni Tracce di Pescara, il cui inedito è stato segnalato a Roma da una giuria presieduta da Maria Luisa Spaziani, avendo in seguito vari riconoscimenti. Incoraggiato da Paolo Ruffilli, poeta e critico dei più conosciuti, ai tempi direttore editoriale delle Edizioni del Leone, ho pubblicato la trilogia del viaggio composta da “Coincidenze massime” (1988), “Ipotesi di fuga” (1992) e “In navigazione per Capo Horn” (1999), che hanno ottenuto unanime consenso di critica. Negli anni 2000 ho pubblicato alcuni testi in antologie e della mia opera si è interessato soprattutto Guido Miano Editore, proponendomi nel 2016 una raccolta antologica delle mie opere con note critiche pubblicata con il titolo “Carte di viaggio”. E arriviamo a parlare di “Appunti e carte ritrovate” pubblicato ad ottobre 2020 da Guido Miano Editore. Questa raccolta è frutto di una ricerca di parole, frasi, pensieri scritti in più di 30 anni (tra il 1988 e il 2020). Ricerca fatta nel periodo di lockdown di marzo/aprile dello scorso anno, quando quella situazione ha colpito profondamente la nostra anima e mi ha spinto a fermarmi, riprendendo pensieri e parole, fino a renderle più profondamente grezze, forti da colpire il cuore. Questa raccolta rimarca il senso della mia ricerca poetica che si racchiude tutta nel “viaggio”. Viaggio che è soprattutto interno, viaggio dell’anima nell’anima, fatto di emozioni, carezze e segreti tutti da svelare alla donna amata.» Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto? «Quando ho trovato sul web il bando relativo al Premio Città di Asti ero un po’ restio a partecipare, perché la prima edizione di solito si porta dietro un parterre di partecipanti non particolarmente qualificati, magari qualche problema organizzativo, forse una cerimonia finale che non è particolarmente seguita. Poi ho deciso per la partecipazione e devo dire che nessuna delle mie remore si è dimostrata fondata. I partecipanti erano di primo livello, l’organizzazione è stata perfetta e la partecipazione all’evento finale è stata ottima. Per quanto mi riguarda, personalmente sono felice del riconoscimento che ho ricevuto, perché mi ha dato conferma che il mio ritorno alla pubblicazione aveva un senso, che quello che avevo da dire e che ho pubblicato ha avuto un seguito. Il libro ha ricevuto una dozzina di premi da podio e una trentina tra segnalazioni e menzioni. Molte sono le recensioni pubblicate su varie riviste e blog letterari, tra questi segnalo “Menabò online”.»  ELEONORA ROSSI, Prima Classificata nella sezione Poesia inedita   L’inedita silloge “Testamento del mare” presenta una poetica dallo slancio emotivo dotato di essenzialità espressiva che si avvale di immagini vivide, marine, estive, al confine dell’autunno, metafore di una esistenza fugace, dal moto incontenibile, così come recita un verso: “prova tu/a essere/un mare/senza onde.”   Ci racconti, in poche parole, chi è Eleonora Rossi e cosa significa per te scrivere? «La scrittura per me è una lacrima: scioglie i nodi interiori, libera. La scrittura è la mia voce senza filtri, corpo e anima insieme. Sono arrivata alla parola poetica dopo diverse esperienze di scrittura, dal giornalismo al saggio critico, e ho constatato come il linguaggio razionale, da solo, mostri un limite: non riesce a spiegare quello che si può unicamente sentire.» Che tipo di lettrice sei e quali autori influenzano la tua scrittura? «Tra i poeti che sono entrati a far parte della mia biblioteca interiore metterei al primo posto Giuseppe Ungaretti e accanto a lui Giovanni Pascoli, Antonia Pozzi, Eugenio Montale, Corrado Govoni, Salvatore Quasimodo. Sono voci poetiche nelle quali sento verità, capacità di mettersi a nudo e di testimoniare. I loro versi sono inattaccabili. Tra i narratori ho sempre amato Tolstoj e Dostoevskij, la loro capacità di scavare nell’animo umano e di raccontare l’indicibile; per la stessa ragione ammiro scrittrici coraggiose come Delphine De Vigan.» La scrittura per te è un rituale o un gesto istintivo che nasce da una improvvisa ispirazione? «Per me scrivere è un gesto istintivo, naturale, una sorta di reazione ‘a pelle’. Mi piace stare in ascolto e porto sempre con me un taccuino, perché le parole mi vengono incontro, a volte scivolano senza preavviso in una giornata incolore, illuminandola. Se non le trascrivo immediatamente, sono perdute.» Come è nata e come si è sviluppata l’idea dell’opera con cui hai partecipato alla prima edizione del Premio Città di Asti? «Ho composto Testamento del mare a partire dal 2020, in un periodo che non potrò scordare perché credo che la pandemia abbia messo alla prova ognuno di noi. In quei mesi ho perso mia madre e da lì a poco una delle mie amiche del cuore, Isa, alla quale ho dedicato la silloge. Testamento del mare è un discorso aperto con l’esistenza, con l’infinito. Il mare diventa una persona da ascoltare, alla quale chiedere risposte; sulla linea dell’orizzonte la schiera degli ombrelloni chiusi sono «puntati in fila a giustiziare il cielo», come un plotone d’esecuzione. Perché in questa silloge ho tentato di raccontare l’inquietudine del vivere, il destino di ogni essere mortale, ma al tempo stesso l’anelito a lasciare una traccia, sia essa soltanto una parola o un battito nel cuore di chi abbiamo amato. Il Testamento del mare è scritto su pagine di terra, la terra che mi è madre: le mie radici sono piantate nella pianura ferrarese, tra zolle allattate dalla nebbia. Il libro è una sorta di invito a scoprire nel vuoto la pienezza del vivere; a imparare dalle onde e dalla nebbia la legge dell’universo: l’impermanenza. Molti dei componimenti sono una riflessione sulla morte, che quando ci sfiora ha il potere di farci amare ogni minuscola fibra della vita: dal respiro all’intima felicità di “abitare una lacrima”.» Come hai vissuto la partecipazione al concorso e cosa ha rappresentato per te il riconoscimento ottenuto? «Il 29 gennaio 2023 resterà per me una giornata indimenticabile: ero partita con poche aspettative perché essere tra i sei finalisti per me rappresentava già un traguardo. La cerimonia è stata magnifica, grazie alla giuria appassionata e alla voce unica del cantautore Andrea Crimi. Un’atmosfera di attesa e di trepidazione che per me si è rivelata un crescendo (e poi un cortocircuito) di emozioni: il mio nome è stato pronunciato per ultimo, alla fine della premiazione, e non sono riuscita a trattenere le lacrime per la gioia. Il premio è stata anche l’occasione per conoscere Asti, che non avevo mai visitato, una città raccolta, preziosa, una perla di arte e di cultura. Il riconoscimento ottenuto per me è davvero importante: una giuria di professionisti ha creduto nelle mie parole e ha scelto di pubblicarle. Sono profondamente grata per questo premio, che mi onora e dà un profondo valore al mio scrivere.» Per la fine dell’anno è prevista la pubblicazione da parte di Letteratura Alternativa Edizioni di una antologia contenenti i brani della sestina dei finalisti della Prima Edizione del Premio Letterario Città di Asti.