«Dietro tutte le cose che crediamo di conoscere bene, se ne nascondono altrettante che non conosciamo per niente. La comprensione non è altro che un insieme di fraintendimenti. Questo è il mio piccolo segreto per conoscere il mondo.»
Haruki Murakami. Uno di quegli autori che o lo adori o ti lascia indifferente.
La ragazza dello Sputnik, Einaudi Edizioni – 2001, traduzione di Giorgio Amitrano, è stato il mio primo Murakami.
Per poterlo apprezzare meglio sarebbe stato perfetto leggere il romanzo in lingua originale. Chi è un minimo appassionato di lingua giapponese saprà, almeno a grandi linee, che questo idioma racchiude in sé un alone di ambiguità, o meglio pare lo esalterebbe. Aimana è il termine con cui viene indicato il significato di ambiguità nella lingua giapponese dove spesso interpretare dialoghi diventa complesso in quanto manca trasparenza di pensiero (in Giappone vige una sorta di correttezza verso l’interlocutore, del quale si tenderebbe a intuire sentimenti e sensazioni e a non essere diretti e chiari del tutto) e si finisce col confondere chi dice cosa, e verso quale direzione un dialogo vuole andare a parare. Mancano, nella lingua giapponese, i verbi riflessivi, e non si usano i pronomi (il significato dell’io può variare, indicare sia il femminile che il maschile a seconda del contesto, così come i generi: femminile e maschile, e il loro singolare e plurale, dipendono sempre dal contesto in cui vengono inseriti) perciò obiettivo di quanto si legge è più quanto si immagina, che quanto realmente si sia voluto far intendere in un dialogo, avendo un po’ tutti provato e intuito le medesime sensazioni, in una sorta di empatia collettiva.
Tutto questo preambolo per dire che nell’idioma giapponese sono racchiuse parvenze di ambiguità e senso dell’indefinito, e la storia in sè rimanda a molte storie.
Nel corso della lettura de La ragazza dello Sputnik mi sono chiesta, pertanto, più volte quanto difficile possa essere stato per il traduttore associare un linguaggio realistico e misurato, al quale noi occidentali siamo avvezzi, all’aspetto irreale insito nella scrittura dell’acclamato autore di fama internazionale. Per quanto Murakami sia molto “occidentalizzato” (è traduttore di numerosi e noti autori americani, e ha viaggiato in più paesi d’Europa) il suo romanzo, nello stile e nei contenuti, mi è sembrato volesse proprio giocare con il senso di aimana applicato alla scrittura.
Nel segno della pecora è stato il primo romanzo pubblicato da Einaudi in Italia di Murakami Haruki
L’autore mi ha da subito trasmesso l’impressione di infischiarsene del noto “show don’t tell”.Il mostrato, nel suo caso, è tutto negli elementi surreali (dai più definiti fantastici o magici). Forse, la sua peculiarità è proprio questa: creare un confine fra il detto e il mostrato, laddove il primo appartiene al mondo reale, e l’altro al surreale. Questo spiegherebbe il passaggio a una seconda parte della storia più “onirica”, dove tutti gli elementi più descrittivi, e spesso prolissi, delle vicende e delle azioni dei protagonisti, si rivelano nello “straordinario”.
«Sumire non si poteva definire una gran bellezza nel senso usuale del termine. Aveva le guance scavate e la bocca un po’ troppo grande. Il naso, piccolo, era leggermente all’insù. La sua espressione era intensa, e aveva un forte senso dell’umorismo, ma non capitava quasi mai che ridesse forte. Era piccola di statura, e anche quando era di buon umore aveva un modo di parlare come se volesse fare a botte.»Dall’inizio della storia
Passando in breve rassegna la trama de La ragazza dello Sputnik, possiamo riassumerla così: ci sono un lui, una lei e l’altra… quest’ultima per lei. Sumire è la ragazza amata dalla voce narrante, un giovane maestro di cui l’autore non svela il nome, il quale viene sempre svegliato nel cuore della notte dalle domande assurde e ossessive all’altro capo del telefono. Sumire, nei suoi calzini spaiati, stipata nella cabina telefonica, non può fare a meno di chiedergli un parere intorno ai suoi dilemmi quotidiani.
Sumire vorrebbe diventare una scrittrice, ma non riesce mai a concludere un suo scritto, e abbandona l’università per dedicarsi esclusivamente al suo sogno. Nel periodo in cui è in fissa con gli autori americani della beat generation conosce Myū, una donna che ha superato la trentina, dalle mani da pianista, unita a un uomo da un legame coniugale ambiguo.
«Myū aveva già sentito nominare Jack Kerouac, e sapeva vagamente che era uno scrittore. Ma non riusciva a ricordare di che tipo.– Kerouac … Kerouac … non c’entrava qualcosa con lo Sputnik? – (…) non è così che chiamavano un gruppo di scrittori di quel periodo? (…) Sai, quei gruppi di scrittori … come in Giappone lo Shirakabaha.Fu a quel punto che Sumire finalmente capí– Beatnik! »Norvegian wood – Einaudi 2013, traduzione di Giorgio Amitrano – è fra i più noti romanzi dell’autore giapponese Murakami Haruki
Di Myū Sumire si innamora immediatamente e, soprattutto, per la prima volta. Confessa di non aver mai provato alcun desiderio carnale se non per lei. Accanto a Sumire, invece, il giovane maestro si strugge di una forte attrazione fisica, senza mai approfittare di lei. Dopo aver conosciuto Myū, le sensazioni mai provate fino a quel momento sconvolgono Sumire, che si rivolge sempre più spesso al suo amico, paziente e fedele. Dal suo canto, il giovane innamorato la ascolta pazientemente e risponde con attenzione ai suoi interrogativi, fino a quando Sumire non parte per un viaggio di lavoro assieme a Myū, ingaggiata da quest’ultima.
Dal viaggio in poi
Myū contatta l’amico maestro di Sumire per ricevere supporto nella ricerca della ragazza, che è improvvisamente scomparsa. A questo punto della narrazione il viaggio rappresenta una sorta di rizoma che porta in superficie lati nascosti dei tre personaggi principali, i quali, pur soggiornando nello stesso luogo, non si ritroveranno mai tutti assieme nello stesso momento. Come dice l’autore, Myū e Sumire sono come due corpi metallici che, da una parte si attraggono, dall’altra si respingono.
Il luogo della narrazione dunque cambia, dal Giappone alla Grecia, entrambi poli di una ricerca della saggezza, la prima libera dal principio aristotelico di non contraddizione, la seconda contaminata dal pensiero scientifico. Dalla caotica città di Tokyo si passa al silenzioso villaggio nei pressi di Rodi, dove il simbolismo lunare e musicale si caricano del loro significato più autentico e al contempo ambivalente: luce/ombra, vita/morte e fertilità/sterilità.«La luce della luna distorceva i suoni, dissolveva i significati e seminava dubbi. Era stata lei a far vedere a Myū l’immagine di un’altra se stessa. Era stata lei a far sparire Sumire. Era stata lei (forse) a eseguire quella musica, e a portarmi fin lì. Davanti a me si apriva un’oscurità senza fondo, dietro di me c’era un mondo pallidamente illuminato.»
Quando il giovane maestro fa ritorno in Giappone, è come se la strana polvere lunare si sia infiltrata nella sua pelle e nei pensieri. È come guidato da una melodia struggente che lo ricopre di malinconia, come se staccarsi “dall’altra parte” in cui ha vissuto per un po’ sia ormai impossibile.
Sumire, l’unica donna di cui il maestro può sentirsi davvero innamorato, è sparita nel nulla e forse comunica con lui da una altra dimensione. Sumire, in giapponese “violetta”, (come si racconta nella storia ha ricevuto quel nome per l’amore di sua mamma per l’opera lirica), racchiude in sé il simbolismo del fiore. Nella tragedia shakespeariana Amleto, prima di morire Ofelia dona delle viole a suo fratello, nella mitologia greca le violette nascono dal sangue versato dalla morte di eroi o divinità. Nella terra greca si consuma la tragedia della scomparsa di Sumire, si spargono i ricordi della sua presenza.
Murakami mostra, nell’assurdità della scomparsa di Sumire, quanto difficile, se non impossibile, sia l’incontro autentico e totale delle anime che, per quanto percepiscano un lontano richiamo fra i loro corpi, non riescono a fondersi fra loro. Al centro della narrazione si possono dunque annoverare l’incomunicabilità e l’impossibile compenetrazione dell’anima degli individui.
«E in quel momento capii. Eravamo state meravigliose compagne di viaggio, ma in fondo non eravamo che solitari aggregati metallici che disegnavano ognuno la propria orbita. In lontananza potremmo anche essere belle a vedersi, come stelle cadenti. Ma in realtà non siamo che prigioniere, ognuna confinata nel proprio spazio, senza la possibilità di andare da nessun’altra parte. Quando le orbite dei nostri satelliti per caso si incrociano, le nostre facce si incontrano. E forse, chissà, anche le nostre anime vengono a contatto. Ma questo non dura che un attimo.»
L’essere umano, sembra voglia dirci l’acclamato autore giapponese più volte citato tra i favoriti al Premio Nobel per la Letteratura, è fatto di corpo e di una sostanza più indefinibile che la stessa scrittura stenta a descrivere, quella parte che sfugge all’umano controllo, alla ragione e, perciò, anche alla parola stessa.
La voce narrante«Una storia, in un certo senso, non appartiene a questo mondo. Per creare una vera storia è necessario un battesimo magico, che riesca a mettere in contatto questo mondo con quell’altro.»Il protagonista maschile del libro non ha un nome, è la voce che racconta, la penna che scrive, il burattinaio che muove i fili delle vite sfuggenti delle due protagoniste femminili.
Sumire scompare «come fumo», Myū vive una surreale esperienza di sdoppiamento, dopo la quale resta per sempre prigioniera del suo corpo che, pur reclamando voluttà, quel desiderio che la sua doppleganger rivela, si pietrifica dinanzi al sentimento amoroso.
Mille piani. Capitalismo e schizofrenia – Edizioni Orthotes, 2017. Traduzione di Giorgio Passerone
Nel saggio Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, scritto a quattro mani dai filosofi francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari, si dice che: «Nel rizoma non ci sono punti o posizioni, come se ne trovano in una struttura, un albero, una radice. Non ci sono che linee.»
Per rizoma, termine preso in prestito dalla botanica, i due autori intendono un modello orizzontale che si oppone a quello arborescente, gerarchizzato, che all’ “è” contrappone il “e… e… e.” Secondo i due autori a esistere non è il soggetto, bensì le sue azioni, legate fra loro da un desiderio del rizoma bloccato. L’essere, dunque, deriva dal divenire. Non esiste, pertanto, determinazione, ma differenziazione.
La filosofia del rizoma di Deleuze ribalta dunque i concetti di Io-Altro, affermando una molteplicità, scevra da leggi dominanti, atemporale e aspaziale.
ConclusioniLa ragazza dello Sputnik è dunque un libro in cui piano soggettivo e piano oggettivo si annullano fra loro. La scomparsa di Sumire è il confine fra le due realtà, oggettiva e soggettiva. Un’anima, quella della confusa e ambigua Sumire, che travalica un limite esistenziale al di qua del quale non riesce, probabilmente, più a percepirsi. Lo stesso accade per Myū nella notte in cui si ritrova sperduta all’interno del Luna Park. Il riflesso lunare la avvolge e la conduce in una dimensione altra, mostrando realtà sepolte ed enigmatiche. Il maestro, a sua volta, torna alla sua realtà cambiato. Vede le cose, le persone, sotto una nuova luce: un bagliore ultraterreno quasi, attraverso il quale la coscienza subisce una mutazione e, al contempo, lo lascia senza parole plausibili, perché la vibrante potenza vitale non si può delimitare o definire, può solo sfiorare e travolgere i nostri umani sensi.
Scheda del libroAutore: Murakami HarukiGenere: NarrativaCasa editrice: Einaudi Super ETPagine: 216
Prezzo: Euro 12,00ISBN: 978-88-06-21670-2Chi è Murakami HarukiNato a Kyoto nel 1949, cresce a Kobe, in Giappone. È autore di molti romanzi, racconti e saggi e ha tradotto in giapponese autori americani come Fitzgerald, Carver, Capote e Salinger. Con La fine del mondo e Il paese delle meraviglie Murakami ha vinto in Giappone il Premio Tanizaki. Tra i libri pubblicati da Einaudi troviamo Dance Dance Dance, La ragazza dello Sputnik, Underground, Tutti i figli di Dio danzano, Norwegian Wood, L’uccello che girava le Viti del Mondo, Kafka sulla spiaggia, After Dark, L’elefante scomparso e altri racconti, L’arte di correre, Nel segno della pecora, I salici ciechi e la donna addormentata, 1Q84, A sud del confine, a ovest del sole, Sonno, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, Uomini senza donne, Prigioniero in biblioteca, Gli assalti alle panetterie, Abbandonare un gatto e Prima persona singolare. Il World Fantasy Award (2006), il Franz Kafka Prize (2006) e il Jerusalem Prize (2009) e il Premio Lattes Grinzane 2019, sezione La Quercia sono alcuni dei prestigiosi ricnoscimenti aggiudicatisi.
Prestare un libro è come consegnare una parte di sè a qualcuno. Solitamente consigliamo libri che ci sono piaciuti, che ci hanno lasciato un segno e che vorremmo possano, in qualche modo, trasmettere a coloro a cui teniamo, pressappoco le stesse sensazioni o insegnamenti che ne abbiamo ricevuto.
Prestiamo libri perché vogliamo bene agli altri, perché pensiamo che un libro possa essere un sostegno.
Quando prestiamo un libro stiamo affidando un piccolo tesoro nelle mani altrui, quasi come fa il padre di una sposa al suo futuro marito, come il medico con la cura per il suo paziente, una mamma con il soffio sulla ferita del suo bambino. Nel momento in cui lo facciamo, siamo certi che il libro verrà custodito con cura, che la persona a cui lo prestiamo presto ce lo restituirà con parole di ringraziamento e uno stato d’animo alleggerito.
E se questo non accade, invece? Se il libro non torna più indietro? Sarà stato uno sbaglio prestarlo? Potremmo decidere che mai più ci fideremo di quella persona perché non ha appezzato il libro o non lo ha ancora letto, nonostante avesse quasi implorato, a te che sei una amante dei libri, un consiglio per stare meglio o semplicemente per evadere dalla realtà.
Ci siamo mai chiesti, invece, se forse il libro non è stato ancora letto, oppure come mai quel libro non è ancora tornato a noi?
Forse era proprio il libro giusto per quella determinata persona. Probabilmente, il libro è ancora nelle sue mani perché non è arrivato il momento perfetto per leggere quelle parole. O, ancora, quella persona lo ha letto il libro, ma inconsciamente ha deciso di trattenerlo a sè perché ne ha ancora bisogno.
Se ci pensiamo bene, i libri sono dei trickster, dei messaggeri di carta che con il loro profumo magico sussurrano alla nostra anima le parole che aspettavamo di sentire. Arrivano, queste parole, proprio nel momento in cui ne abbiamo più bisogno, e se non siamo ancora pronti ad ascoltarle, allora i libri restano ancora con noi ad aspettarci, pazientemente, nel momento in cui saremo davvero pronti.
Nell’Inno ad Hermes attribuito a Omero, si legge:
“gentilmente astuto, predone, guida di mandrie, apportatore di sogni, osservatore notturno, ladro ai cancelli, che fece in fretta a mostrare le sue imprese tra le dee immortali”
La divinità greca svolge il compito di trasportare messaggi, non solo notizie, ma insegnamenti. Nelle fiabe spunta sempre un aiutante che porge un oggetto magico all’eroe per sospingerlo verso la sua impresa. Nella vita, spesso avvengono incontri speciali, ai quali riusciamo ad attribuire un senso solo dopo che quella determinata persona o animale o segnale ci ha lasciato qualcosa, nel bene o nel male. Dopo che tutto è passato, scopriamo di non essere più gli stessi, come un vero eroe ci sentiamo più coraggiosi, saggi, cresciuti.
Ecco perché i libri che non tornano indietro sono il segnale che qualcosa di bello sta per accadere al lettore che lo tiene ancora con sé. E ho imparato ad aspettare che torni a me con il suo profumo ancora più intenso e le pagine più leggere, come il cuore di chi lo ha custodito a lungo nella sua vita.
«Quella mattina, come al solito, la sveglia era suonata alle 6:30. Silvia si era affrettata a vestire Giada e le aveva preparato la colazione.»
Questo è l’incipit de La locanda di Ester di Cinzia Zerba, Edizioni Convalle 2020, un inizio quotidiano e ordinario che molte donne-mamme-lavoratrici conoscono bene: un rituale che ripetono con rigore ogni mattina. Perché Silvia, la protagonista della storia, è una di loro, una delle tante donne che si barcamenano tra ménage familiare e lavorativo, senza mollare mai la presa, di quelle donne perfezioniste che credono di fare sempre la cosa giusta.
Silvia non immagina, però, che quella mattina la vita per lei cambierà rotta. Quella mattina, infatti, al lavoro, che svolge a molti chilometri da casa e che la costringe a fare la pendolare tutti i giorni, riceverà una notizia che le farà crollare il mondo addosso, scardinando tutte le sue certezze. Convocata nell’ufficio del suo direttore, contrariamente alle sue aspettative di un meritato avanzamento di carriera, apprende che lei fa parte di un programma di tagli dell’azienda. Oltre al congedo inaspettato, scoprirà anche che il suo capo ne era già al corrente.
«Aveva fatto moltissimi sacrifici per guadagnarsi la stima dei colleghi, capo e management, lavorando sodo, in ufficio e da casa. La sua dedizione per il lavoro era totale, riteneva che questo fosse il solo modo giusto di fare: con correttezza e serietà. In nome del suo lavoro era arrivata addirittura a trascurare molti aspetti legati alla vita familiare, di cui poi si sarebbe pentita. Non esistevano hobby per lei, perché non ne aveva il tempo: il sabato e la domenica erano interamente dedicati alle faccende domestiche. Ma lei era felice così, perché era orgogliosa del suo lavoro.»
E perdendo il lavoro, dove finisce la felicità di Silvia? Ma, soprattutto, era davvero felicità la sua?
Lungo il suo percorso di affermazione professionale, la nostra protagonista aveva perso l’appoggio del marito Raffaele, discorde sul suo modo di condurre la vita e, soprattutto, aveva trascurato il rapporto con la figlia Giada.
Silvia deve fare i conti anche con la mancanza di solidarietà del mondo femminile nell’ambiente lavorativo, dove contrariamente a quanto auspicato da teorie femministe, non vige ancora una leale sorellanza.
Tutte le certezze acquisite cominciano a crollare per Silvia, rivelandosi per quelle che sono sempre state veramente: una parvenza di perfezione. E quando si cerca di mantenere in perfetto equilibrio la propria vita come le tessere di un domino tenute, immobili, in fila per troppo tempo, arriva un improvviso colpo di vento che fa cadere la prima tessera innestando una reazione a catena.
Silvia si è imposta standard di vita troppo severi, ha investito tutte le sue energie e aspettative nella sfera professionale, perdendo di vista altri aspetti della vita che la circondano. Ma Silvia non intende ancora mollare, fino a quando il corpo non comincia a inviarle strani segnali:
«Una mattina, mentre era seduta alla scrivania, accadde qualcosa di inaspettato: i battiti cardiaci accelerarono e il viso le diventò paonazzo, mentre l’aria non riusciva più a raggiungere i polmoni. Copiose lacrime le segnavano il viso, mentre a bocca aperta cercava disperatamente di incamerare aria, però non riusciva a riempire in alcun modo i polmoni. La testa intanto le girava, mentre con gli occhi chiedeva aiuto a un collega lì accanto.»
È l’inizio di una serie di attacchi di panico, che costringeranno Silvia a ridimensionarsi e a intraprendere un vero e proprio percorso di individuazione. Lungo questo sentiero, Silvia deve rimettere insieme le tessere del mosaico di vita che vuole ricostruire. Le vengono in aiuto i ricordi della sua infanzia: rivede la Silvia bambina nella bottega del nonno Enrico, falegname, un artigiano del fare, un artista paziente, che sa attendere, che impara a gestire e ad apprezzare i tempi lenti della finitura, e in quell’attesa partorisce la bellezza.
In un suo pezzo apparso su La Repubblica, alla fine degli anni ’90, lo scrittore e critico letterario Pietro Citati dichiara colpevole la contemporaneità di aver «sciupato e dissipato l’immenso tesoro di sapienza artigiana, che la civiltà aveva costruito nei secoli.»
Immaginiamo dunque la vita come una materia informe messa nelle nostre mani che dobbiamo forgiare nel migliore dei modi per trarne bellezza. Gli artigiani, in fondo, fanno questo: creano, e mentre creano, imparano ad aspettare. La nostra vita è fatta di attesa di momenti belli e, mentre aspettiamo, qualcosa accade, sempre. Silvia ha corso per troppo tempo e non è riuscita a cogliere la bellezza in fieri dell’opera d’arte che stava costruendo. Si è persa quando ha smesso di aspettare, e la vita ha perso tutta la sua bellezza.
Ma Silvia non è in fondo colpevole di aver preferito la carriera professionale a una vita più casalinga, Silvia rappresenta il modello femminile dell’emancipazione che si scontra con un grosso paradosso che quasi sempre implica questa parola per una donna. Dal latino “emancipatio”, il termine in questione vuol dire rendere libero. La libertà la donna l’ha sempre dovuta conquistare, pagandola a caro prezzo. Silvia paga per la sua ambizione, non si emancipa, ma diventa prigioniera di sé stessa, delle sue angosce di alte performance, di non riuscire a essere mai abbastanza, e alla fine tutto le sfugge di mano.
Simone De Beauvoir, fra le più celebri paladine del movimento femminista, ha asserito che “Non si trasforma la propria vita senza trasformare sé stessi”, e questo lo sanno bene le donne che devono costruire ogni volta la loro vita dalle macerie di una grave perdita.
Silvia fa fatica a recuperare la lentezza nella sua esistenza, anche se reagisce: trova un nuovo impiego, molto più umile, ma resta legata alla sua vita precedente. Ma la vita sa sempre dove condurci, e le tessere del domino per Silvia continuano a correre e a cadere. In una sorta di rewind si ritrova a riscoprire antiche passioni, a praticare sport, a ricomporre i suoi affetti passati, a misurarsi con la perdita importante di sua nonna e a mettersi sulle tracce di una sua antenata: Ester, personaggio avvolto dal mistero.
E nel frattempo Silvia trova una cura: la scrittura.
«E mentre scriveva la sua storia si rendeva conto della potenza della scrittura, che è al tempo stesso svago e terapia. Il dolore che Silvia aveva dentro, pian piano usciva, la sconfitta lavorativa si trasformava a poco a poco in parole sulla pagina.»
E allora Silvia scende nelle cantine buie del suo passato, fruga ancora fra i ricordi e ritrova una storia che le appartiene, persa nel tempo, e che lei saprà ricostruire. Non sarà dunque un caso quello di essersi messa sulle tracce di Ester, considerata agli inizi del Novecento una donna emancipata per quei tempi, che però «non era vista di buon occhio dalla sua famiglia, per il suo carattere determinato e impulsivo, e poi c’era la questione della chiaroveggenza…»
Attraverso Ester, la protagonista della storia che racconta Cinzia Zerba riavvolge i fili del passato per ricomporre una trama che appartiene a tante donne che fanno fatica a vivere completamente la propria esistenza, punite per aver osato troppo, per aver cercato di essere sé stesse. Silvia ritrova la sua dimensione di donna quando si mette in ascolto di una sua più intima identità, guidata da una eco che giunge da lontano e che le permette di spezzare le catene di una prigionia che, non si sa mai come, spesso la vita ci impone.
Scheda del libroAutore: Cinzia ZerbaGenere: NarrativaCasa editrice: Edizioni ConvallePagine: 133
Prezzo: Euro 13,00ISBN: 978-88-85434-62-2Chi è Cinzia ZerbaVive a Voghera con il marito, i due figli, tre gatti e un cane. Ama viaggiare, leggere e scrivere. A partire dal 2014 partecipa a una serie di concorsi letterari, aggiudicandosi menzioni d’onore e ottime posizioni in classifica. Nel 2015 vince la prima edizione del concorso “Dentro l’Amore”, ideata da Stefania Convalle di Edizioni Convalle con il racconto “Stella Novella”. Nel 2016 scrive il racconto “Raja e Samir”, inserito nell’antologia “Storie e Misteri”Primula Editore. Nello stesso anno costituisce il gruppo di lettura scenica Gatto Matto con il quale propone una serie di reading, in particolar modo sulla tematica della violenza sulle donne e degli stereopi di genere. Nel 2017 collabora alla stesura di alcun iracconti contenuto nel libro “Il silenzio delle donne. Il coraggio delle parole” edito sempre da Primula Editore.È membro dell’Associazione C.H.I.A.R.A., Centro antiviolenza di Voghera. “La locanda di Ester” è il suo primo romanzo, pubblicato da Edizioni Convalle nel 2020.
«Due tracce disegnate, una di fianco all’altra, a mano libera, senza limiti spaziali in divenire, possono essere perfettamente parallele oppure divergere, per sempre, lentamente, inesorabilmente; possono, anche, convergere repentinamente o più distanti nello spazio e, in questo caso, incrociarsi in un solo punto, per un solo magico istante. Des viveva solo per quel punto, per quell’istante, per quella magia. Le linee le tracciava istintivamente, senza pensare alle convergenze o alle divergenze. Il tempo e lo spazio avrebbero fatto il resto.»
Quanto partecipa l’uomo, nel corso della sua vita, alle sue decisioni? L’uomo è davvero libero o è predestinato? E se non siamo noi a decidere della nostra vita, allora non ci resta altro che accettare passivamente quanto ci accade? Il fato si abbatte su di noi e allora crediamo di essere puniti, perciò finisce che ci convinciamo di dover restare al nostro posto, di obbedire a un ordine prestabilito. Ma c’è forse una posizione meno estrema di intendere il Destino ed è il concetto greco di dáimōn (solitamente tradotto con demone che deriva probabilmente dal verbo daio, ovvero distribuire). Nella visione di un daimon che guida la nostra vita si ridimensiona l’idea che l’uomo sia sottomesso a una forza più grande, perché il Destino-demone seleziona i suoi interventi, poi lascia che la vita faccia il suo corso. Ed è proprio da questa prospettiva che l’autore Francesco Landi elabora una vicenda sentimentale in cui i protagonisti sono affidati un po’ al caso un po’ alle loro spinte decisionali.
«Cercarti in mille sogni e desideri è il mio vissuto, trovarti nel mio mondo è il mio infinito.»
Trevor, di professione interior design, è un uomo dal cuore appesantito per i numerosi dispiaceri subiti, di natura introversa e riflessiva; Carol è una donna d’affari, che si occupa di catalogare codici e somiglianze dei simboli utilizzati dai brand aziendali, bella ed elegante, disillusa dall’amore, insoddisfatta della sua vita, che in cuor suo forse aspetta ancora che qualcosa possa cambiare. Per lei la svolta arriverà proprio nel momento in cui decide di rompere con il passato.
I due protagonisti saranno coinvolti in un giro di incontri ravvicinati all’interno di una dimensione onirica. Solo chiudendo gli occhi i due possono avere visioni, sentire odori e affinare una certa sensibilità nel percepire quando la vita li avvicina.
La scrittura di Landi è pulita e precisa, quasi l’autore tema di incorrere in sbavature, ma questa sensazione di controllo che arriva al lettore è abilmente bilanciata da una tematica che ha del magico, a conferma del noto assunto “Non si vede che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi” contenuto nel Il piccolo principe, romanzo che all’interno della storia ha una funzione rivelatrice e medianica.
Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry è il libro messaggero di cui parla Francesco Landi in Incroci
Ancorati alla realtà, siamo ciechi davanti ai segnali che ci giungono da una dimensione altra, sordi verso suoni impercettibili, insensibili a essenze che ci circondano. Quando Trevor ricorda il sogno ricorrente della sua vita, una donna che gli cammina accanto che a sua volta cammina accanto a un altro uomo, pensa al profumo della donna, una essenza che tenta di ritrovare quando, in occasione dell’allestimento di uno show room che propone «un percorso attraverso i cinque sensi» all’interno di uno spettacolo multimediale presso l’H5, «Un edificio multipiano di architettura moderna incastonato nella parte antica della città», elabora un software in grado di associare ai profumi più noti l’aroma che i visitatori si portano addosso.
«Si rese conto che la vita era fatta di coincidenze, di momenti in cui può succedere di tutto e altri invece in cui non accade nulla.»
L’autore ci ricorda che siamo circondati da segnali, ma insensibili a recepirli e, qualora lo facessimo, il loro vero significato lo capiremmo solo a disegno compiuto. Ed è proprio nel disegno (dal latino “signum”), che Trevor ricostruisce un certo piano al quale è, in un certo senso, predestinato. Des è un noto tatuatore, dotato di una sopraffina sensibilità: parla con gli occhi e i gesti delle mani, è in grado di cogliere cosa il suo cliente intende disegnarsi, segnarsi, sulla pelle. Gli schizzi che Trevor gli consegna (illustrati direttamente dall’autore) sono i segni che riceve dai suoi sogni. Chi è, allora, realmente Des? Un essere ambivalente e al contempo affascinante, misterioso e sfuggente. È un po’ come un vento che giunge improvviso e cambia spesso direzione e noi ci ritroviamo a essere parte di quel vento, fino a fonderci completamente in esso. Trevor e Carol saranno trascinati in una bufera di sorprendenti indizi. Sarà il vento a far arrivare alla donna un foglietto stropicciato, a condurla verso una libreria dove si ritroverà fra le mani una antica edizione del noto romanzo di Antoine De Saint-Exupéry.
Un disegno dall’ombra – Letteratura Alternativa Edizioni – 2020 è il secondo romanzo di Francesco Landi
Particolare attenzione, all’interno della vicenda, merita la città in cui essa è ambientata, Ersten. L’autore non si sofferma nelle descrizioni dei posti frequentati dai personaggi, ma li rende vividi creando atmosfere, quasi tattili. Le descrizioni sono percezioni per il lettore e Ersten diventa un non-luogo, un punto di incontro a-temporale in cui si fondono molteplici piani temporali ed esistenziali. A questa sovrapposizione si aggancia un sorprendente legame musica-scrittura. Nel romanzo “Incroci” le melodie diventano funzionali allo sbroglio delle vicende. Melodie jazz intervengono a disseminare indizi per ricomporre il mosaico dell’incontro d’amore predestinato, al punto che la sorte dei due protagonisti diventa un vero e proprio destino melodico
«Sempre, aveva visto fondersi due caratteri ben precisi: il cuore e la ragione. Aveva potuto constatare, Des, che solitamente il cuore tende a cercare, mentre la ragione aiuta a trovare.»Incroci di Francesco Landi è un romanzo che coinvolge nel suo intricato e avvincente giro di vite e pone interrogativi su quelli che oggi consideriamo bisogni essenziali, quali il controllo sulle nostre azioni, la frenesia e la smania di successo, che proprio ne Il piccolo principe ritroviamo nei personaggi del re e del mercante, e forse, a pensarci bene, il Serpente potrebbe essere associato a Des, che con il suo intervento permette ai personaggi di cogliere l’importanza delle separazioni e dei dolori vissuti e trovare il coraggio di ricominciare. Perché, in fondo, siamo proprio noi che lasciamo aperta la porta al destino, invitandolo a entrare nella nostra vita.
Scheda del libroAutore: Francesco LandiGenere: NarrativaCasa editrice: Letteratura Alternativa EdizioniPagine: 196
Prezzo: Euro 14,90ISBN: 978-88-94815-75-7Chi è Francesco Landi
Classe 1970, veneziano doc, Francesco Landi è avvocato di professione. Studia musica sin da ragazzino e oggi è compositore e strumentista di chitarra e tromba. Appassionato al jazz di Miles Davis e Chet Baker, ha raccolto le sue più importanti composizioni nel CD “GPF”, inciso nel 2015 e presentato in vari tour nel territorio. Incroci è il suo esordio narrativo, pubblicato nel 2019 da Letteratura Alternativa Edizioni. Il romanzo è stato ammesso al Salone Internazionale del Libro di Francoforte 2019 con la seguente motivazione: “Per la realizzazione plausibile della rappresentazione del gioco del destino che ordisce intrecci e occasioni. L’autore ha dimostrato di saper utilizzare tutti quegli elementi narrativi che concorrono a erigere un ottimo esordio”. Nel 2020 pubblica, sempre per Letteratura Alternativa Edizioni, il suo secondo romanzo, Un disegno dall’ombra.
Ascolta il podcast di “Incroci”
Prima di farsi luce, il mondo era ombra, oscurità. Prima di farsi coscienza, l’inconscio è ombra, inconsapevolezza. Prima di farsi luce, la gioia è ombra, tristezza.
Ed è Carl Gustav Jung, psichiatra svizzero, psicoanalista e soprattutto filosofo, che ci spiega questa dialettica apparentemente ambivalente fra luce e ombra. Egli infatti ha scritto:
“Non c’è luce senza ombre e non c’è pienezza psichica senza imperfezioni. La vita richiede per la sua realizzazione non la perfezione, ma la pienezza. Senza l’imperfezione non c’è né progresso né crescita.”
Siamo soliti pensare che la luce, illuminando, sia cosa buona. In realtà, sostiene la psicologia analitica, troppa luce, coscienza, annienta. Alla consapevolezza si arriva per gradi. L’eroe stesso prima impara a dar da mangiare al drago, e poi lo doma. Ma la consapevolezza non è mai luce assoluta, così come l’ombra non è mai il buio assoluto.
Esiste un tipo particolare di luce che addolcisce, in un certo senso, questo contrasto luce-ombra, ed è il riflesso lunare.
La luce lunare è un passaggio, dal raggio dell’astro diurno alle ombre notturne. Se guardiamo nella notte, quanto viene illuminato riflette più luce.
Il titolo della silloge poetica di Mariella Barbieri “L’ombra è luce”Ctl Editore Livorno ci riconduce proprio a questo viaggio, fuori e dentro di noi, nel passaggio, graduale, dal buio alla luce. Per conoscere dobbiamo prima distruggere quanto appreso, perché non sempre le certezze apprese ci mantengono perennemente in vita, e l’uomo, nel suo vagare in questo esistere, muore e rinasce, cade e si rialza diverse volte.
“Se accettiamo il nostro sé più buio, più deserto, più doloroso” – scrive l’autrice in una nota iniziale del suo libro – “sapremo prenderci cura di noi come un bimbo piccolo che incomincia a camminare e poi cade e poi si rialza, ritenta e cade per sorriderci su e poi sceglie meglio l’appoggio e la via per proseguire.”
Perché arrivano inaspettati i momenti bui, proprio come nell’attuale presente, colpito da una minaccia di piccola entità che ha diffuso, nella sua apparente invisibilità, perdite e panico.
La prima parte della raccolta poetica di Mariella Barbieri si intitola “Passaggi in ombra” ed è dedicata alla fase del primo lockdown, nel 2020, che ha dato vita a un nuovo mondo sospeso, quello che emerge appunto dalle poesie, un mondo dominato da incertezza, solitudine per molti, timori e confusione interiori, dove le ore “scivolano digiune” nei giorni “che nessuno chiama” e dove “c’è uno strappo di luce”.
La città descritta in questi primi componimenti appare deserta, silenziosa e piena di ombre. Lo sguardo si posa sulle strade solitarie, l’orecchio è teso a un silenzio ottundente. Il mondo fuori è scomparso, brulica tutto nei pensieri, nei “crampi di paura”, negli incessanti interrogativi. “La notte calma/interrompe la luce/l’oscura/ il suono di una sirena.”
Restano gli osservatori di un’alba offuscata, che “porta il velo della notte” e in quell’attesa c’è “una cicatrice di vetro/ che è già storia” che colpisce “l’Italia tutta./ i nostri ceppi/stillano lacrime e sangue.”
Ma in questa oscurità, se vogliamo, diventiamo anche più consapevoli, se dall’ombra sappiamo tirar fuori la luce: “Siamo vivi ancora./Siamo qui.”
“Ave/Vergine bella/genitrice di luce/divina madre/di celeste incanto”
Numerose le immagini e le metafore presenti nelle poesie di Mariella Barbieri che si ricongiungono al simbolismo lunare sopra accennato e che rimandano all’archetipo del femminile. La Luna, collegata al mondo femminile, a una forma di energia ricettiva, è sensibilità, serie di emozioni umide. Nella fase matriarcale in cui predominava la venerazione della Grande Madre, le società praticavano il culto della Luna. E quelle di Mariella Barbieri sono immagini che evocano il dualismo spesso racchiuso nel simbolo della Grande Madre:
“La santa e la strega/il miracolo e l’incantesimo”; il carattere tellurico della dea: “l’ira nel mio sangue impazzito”; le linee cave e sinuose dei paesaggi: “sdraiata sulla schiena di una collina”,“anima curva”, “con tanto amore/avrei zappato/al di là di quella collina.”; la fertilità dei campi: “Come le spighe, mosse dal soffio caldo/di un vento insidioso”
Il femminile si fonde dunque alla terra, alla natura: “le farfalle/Sono come me/e io assomiglio a loro”, si fonde al vento, ai sussurri di un mondo arcano, alle acque che nutrono la terra, ai fiori nati dalla terra: “Eccole le rose di Atacama/sono le rose del deserto”.
Sulle ali di farfalla la Mariella donna riprende il volo verso nuove identità, rinnovandosi continuamente, e fra i chicchi di grano del suo “oro Oltrepò” sente crescere nuova vita dentro di sé.
“Come foglie cambio/le mie profonde paure”
Nelle poesie della raccolta “L’ombra è luce”Ctl Editore Livorno il femminile evocato si fa un tutt’uno con la terra madre, con i paesaggi cantati che sono un inno al territorio natìo, in un gioco, apparentemente spontaneo, di richiami ancestrali che emergono dal profondo quando l’anima si pone in ascolto, in sintonia con il cuore e l’intero creato, in una visione panteistica del reale.
“Coltivo l’abbagliante bellezza/naturalità di un insieme/di una continua interezza”
In ultimo, ma non in ordine di importanza, particolare attenzione merita la copertina, che ritrae une delle Vergini stolte della serie di incisioni dell’artista tedesco cinquecentesco Martin Schongauer. L’opera di copertina, una rivisitazione dell’antico, dal titolo “Una vergine folle”, realizzata dall’artista lombarda Miriam Prato, è pregna di simboli: la lampada rovesciata tenuta fra le mani della donna, l’acconciatura disfatta e lo sguardo perso, nei quali si ravvisa una sorta di invito a inoltrarsi nelle ombre per scoprire cosa nascondono certi fantasmi, della mente e dell’anima, per arrivare ad affermare, come fa Mariella Barbieri, che:
“Non c’è ombra senza luce.”
Scheda del libroAutore: Mariella BarbieriGenere: PoesieCasa editrice: Ctl Editore LivornoPagine: 106
Prezzo: Euro 14,00ISBN: 978833872650Immagine di Miriam PratoChi è Mariella BarbieriNasce e vive a Voghera, dove sin da bambina coltiva la sua passione per la poesia. Oggi è odontotecnico e la scrittura non l’ha mai abbandonata, per lei è un’abitudine che trae spesso ispirazione dal territorio natìo. Nel 2013 per Primula Editore, nell’Antologia Il Giallo e gli altri colori esce il suo primo racconto Il glicine. Sempre per Primula Editore seguono nel 2014 e nel 2018 le favole Nel pianeta delle farine esitinte e Ali di vetro. Nell’antologia Favole e fiabe di Historica Edizioni – 2018 è presente il suo racconto Il sole quadrato. Nel 2019 si aggiudica la targa di merito con la poesia Quelle donne come me, poi inserita nell’antologia Buongiorno Alda (Accademia dei Bronzi), mentre nell’edizione successiva arriva finalista con la poesia Cicatrici di vetro. L’ombra è luce è la sua prima silloge poetica pubblicata nel 2021 da Ctl Editori Livorno.
Innovativo, scrutatore dell’inquietudine dell’epoca moderna e attento critico letterario, fra i più grandi poeti mondiali, T. S. Eliot oggi rivive, in tutta la sua umanità filosofica, nel saggio di Daniele Gigli, pubblicato da poche settimane per Edizioni Ares“T. S. Eliot. Nel fuoco del conoscere”.
Mi libro in volo ha deciso di fare quattro chiacchiere con l’autore che, con metodo rigoroso, ha riletto e tradotto i versi eliotiani, interpretando e indagandone la poetica attraverso testi inediti. Ce lo spiega in questa intervista.
Quando si scrive una biografia, in un certo senso l’autore e il personaggio raccontato si fondono in una sola entità. Ringraziandoti per aver accettato di condividere con le tue parole lo spazio del blog dedicato alle interviste agli autori, ti chiedo subito: come definiresti il binomio Daniele/ T. S. Eliot, e da dove nasce l’interesse per questo grande autore e critico letterario?«Penso anch’io, come dici, che indagando su un artista sia quasi inevitabile – ma anche auspicabile – arrivare a una sorta di fusione tra studioso e autore studiato. E con Eliot mi è successo esattamente così, da quando lo lessi seriamente la prima volta nell’estate del 2003. Nel libro, all’inizio, lo racconto: avevo venticinque anni, il mondo mi sembrava una fucina di sofferenza annoiata e, più del timore per il futuro, quello che mi strozzava il fiato era l’assenza di un presente, di un presente qualunque che spazzasse via quel tempo sospeso e d’inazione in cui mi sentivo stretto. Fu in questo stato d’animo che mi capitò tra le mani The Waste Land: a mostrarmi “la paura in un pugno di polvere”, certo, ma anche un cumulo macerie che volevano essere mattoni di una nuova costruzione.»T. S. Eliot. Nel fuoco del conoscere di Daniele Gigli – Edizioni Ares, 2021“Non smettere di esplorare”, recita uno dei versi di T.S. Eliot, parole che potremmo definire in un certo senso manifesto della sua intera poetica. Eliot fu non solo poeta, ma drammaturgo, saggista e critico letterario, che cercò sempre di evolvere la sua scrittura, o meglio la sua ricerca del senso, per lui impossibile da afferrare, in maniera assoluta. La saggezza per lui si perde nella conoscenza, non si ama per la cosa gusta, insomma una verità assoluta per lui sembra non esistere. È proprio così, secondo te?«In un certo senso possiamo dire di sì, a patto di intenderci sul significato di verità e di assoluto. Perché in realtà Eliot dell’esistenza di una verità assoluta – più vera e più buona di quella che l’istinto e la ragione umana ci permettono di abbrancare e dominare – è sempre stato intimamente convinto. E come dici giustamente tu, la sua ricerca filosofica, letteraria e – aggiungerei – religiosa è integralmente e incessantemente una ricerca di senso: la tesi interpretativa che sottende il libro è proprio questa, che ogni passo di Eliot sia un passo alla ricerca di una certezza in questo mondo. Volendo fare un paragone rozzo, possiamo dire che a lui più che luce per vedere interessa una roccia su cui poggiare con sicurezza il piede. Perciò, tornando alla domanda: una verità assoluta c’è, eccome, ed è anche in qualche modo attingibile dall’uomo, ma non è dall’uomo dominabile. Come disse Benedetto XVI in un bellissimo discorso anni fa, “è vero che noi non possediamo la verità, ma è la Verità che ci possiede”. Per Eliot vale qualcosa di analogo: non si cerca per il gusto di cercare, ma per il desiderio di trovare una verità che precede e che aspetta di essere riconosciuta.»Nel suo capolavoro, The Waste land, egli quasi minaccia il lettore dicendo “vi mostrerò la paura”, ovvero una ombra che si aggira dietro l’uomo sempre, perché “il genere umano non può sopportare troppe realtà”. Gli uomini sono definiti “vuoti” in una sua raccolta poetica. È tutto così ineluttabile nella sua poetica, o è possibile scorgere un barlume di speranza/redenzione per il genere umano?«Come ho già accennato prima, Eliot è uno dei più strenui difensori della libertà umana e la sua visione delle cose – tanto più dopo la conversione del ’27, ma è un percorso umano e intellettuale che data pressoché da sempre – è quanto di più distante possa esserci dal determinismo. Quando dice che “tutto il tempo è irredimibile”, come fa in Burnt Norton, o quando parla della storia contemporanea come di un “panorama di futilità e di anarchia”, quando mostra “gli uomini svuotati / gli uomini impagliati”, Eliot mostra delle condizioni storiche ed esistenziali terribili, che tolgono il respiro; ma c’è per lui un dato precedente, che è il libero arbitrio, la dignità inalienabile di ogni singolo uomo. Quel libero arbitrio che impone all’uomo, per quanto ferito dal peccato originale e perciò incapace di compiere un qualunque atto puro, di tendere comunque a purificare sempre, lo dirà nei Quartetti, “il motivo dell’azione”. La speranza c’è, lo mostra la naturale libertà dell’uomo: sarà il suo lavoro di una vita arrivare ad ammettere – e ad accettare – che questa libertà, in sé evidente, deriva da Dio e dalla creaturalità dell’essere umano.»T. S. Eliot è stato un appassionato cultore del nostro sommo poeta Dante, al punto che il suo capolavoro The Waste land può essere considerato, al pari della Commedia, un viaggio nella terra (desolata) umana, partendo dalla descrizione allegorica della città di Londra. Quali altri parallelismi si possono individuare fra le due grandi opere?«In Little Gidding, l’ultimo dei Quartetti, c’è una scena in cui la voce narrante incontra un suo vecchio maestro, il “fantasma composito”, e che ricalca anche strutturalmente il dialogo tra Dante e Brunetto Latini… Ma tu mi chiedi del Waste Land: beh, nel libro avanzo un’ipotesi di traduzione – Il paese guasto, anziché La terra desolata che tutti conosciamo – che prende le mosse proprio dal riferimento evidentissimo al XIV canto dell’Inferno, dove si racconta la nascita dei fiumi infernali: “In mezzo mar siede un paese guasto”… Quello verso Dante comunque non è un debito riscontrabile principalmente in questo o quel passo, ma in un atteggiamento morale, tecnico e intellettuale di fronte alla poesia e alla lingua. È il debito di un allievo verso un maestro, un debito che Eliot definirà “di tipo progressivamente cumulativo”.»T. S. Eliot poeta e T. S. Eliot critico, hai individuato un possibile punto di incontro fra le due dimensioni artistiche?«Sì, questo è assodato, non esisterebbero l’uno senza l’altro. Eliot si avvicina alla critica perché, dopo aver condotto parallelamente l’arte dei versi e un rigoroso studio della filosofia, trova la prima più corrispondente alle proprie esigenze gnoseologiche. D’altro canto, l’esercizio sempre più ampio e puntuale della critica, e dal 1925 l’attività di condirettore editoriale per la Faber & Faber, lo affina nella sua consapevolezza di artigiano dei versi.»T.S. Eliot Poesie a cura di Roberto Sanesi – Bompiani EdizioniSoffermandoci invece sul metodo di lavoro che hai utilizzato per il tuo rigoroso lavoro di ricerca, ti sei affidato ai testi originali in lingua, o hai prediletto delle particolari traduzioni dei testi di T. S. Eliot, che potresti consigliare ai lettori interessati ad approfondire la sua poetica?«Come sempre faccio, mi sono servito dell’edizione Bompiani (ex Sansoni) curata e aggiornata da Roberto Sanesi più volte tra il 1961 e il 2001, oltre che della splendida edizione di The Waste Land che Alessandro Serpieri fece nel 1982. Ma pur confrontandomi con queste edizioni, e con Angiolo Bandinelli che per primo, in Italia, tradusse The Waste Land con Il paese guasto, tutti i testi in prosa e in versi riportati nel libro sono stati nuovamente tradotti da me: parte ex-novo, parte riprendendo e limando traduzioni già uscite in passato per editori minori, come quelle de Gli uomini svuotati (The Hollow Men) e Mercoledì delle Ceneri.»Un biografo è un po’ anche uno storico nel suo lavoro di ricerca. Come sono avvenute le tue ricerche, e quali sono state le scoperte che più ti hanno affascinato nell’indagare la personalità di T. S. Eliot?«Sì, un biografo è un po’ uno storico e io sono uno storico anche di mestiere, visto che per lavoro valorizzo archivi storici, curandone riordini, inventariazioni, trasposizioni on-line, eccetera. Ma questo libro, l’abbiamo detto, è partito da un incontro di anime, perciò il lavoro è stato anzitutto l’occasione di sistematizzare le intuizioni e le scoperte fatte in anni di frequentazione. In questo senso, la scoperta più sorprendente è davvero quella di guardare una persona amata dopo diciassette anni e renderti conto che non hai ancora finito di scoprirla e che il tempo speso con lei non solo ne ha esaurito il mistero, ma lo ha come approfondito. Che poi, se avessimo più coscienza di noi, non sarebbe la cosa più desiderabile in ogni rapporto?»
Con questo profondo interrogativo si conclude la chiacchierata con Daniele Gigli che Mi libro in volo ringrazia per averci fatto conoscere meglio T. S. Eliot.
Nascosta, nel profondo sud dell’Italia, ai molti ancora sconosciuta, c’è una terra, la Lucania che, dietro gli impervi paesaggi di calanchi e arsa vegetazione, cela ettari di campi dorati e vecchie masserie dove giunge l’odore salmastro dello Jonio. Lì, con le spalle ricurve, i visi arsi dal sole e le mani ruvide per il duro lavoro, soggiornavano, nel periodo della mietitura, i mezzadri con le loro famiglie. Insieme, uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine, affrontavano le lunghe e faticose giornate di calura estiva. Fra loro la sedicenne Filomena Lucente, impavida e volenterosa, che trasportava sul suo cavallo i bidoni di gasolio per rifornire il trattore. È lei la protagonista della storia del libro nel libro raccontata da Carmela Bruscella. Filomena Lucente è un personaggio reale, tutt’oggi in vita, che con la sua testimonianza di emigrata al nord infonde coraggio nella comunità femminile contemporanea dell’Astigiano.
Loredana, Simona e Francesca si ritrovano per festeggiare una di loro alla quale donano un libro, la storia di Filomena. Alla lettura delle sue vicende, si alterna la quotidianità delle amiche e Filomena finisce per entrare prepotentemente nelle loro vite, al punto da cambiare il destino di una di loro, invischiata in un enigmatico segreto di famiglia.
Il libro, corredato dalle foto di Filomena Lucente e dei paesaggi lucani, diventa a tratti una sorta di reportage sulla vita dei nostri connazionali che dal sud sono emigrati al nord e la loro storia nasconde un messaggio di determinazione ed emancipazione. Il mestiere intrapreso dalla giovane sposa Filomena negli anni ’70, orgogliosa delle proprie origini e impeccabile donna di famiglia, è quello di camionista, e la cosa suscita non pochi pregiudizi nei suoi colleghi di lavoro. Ma Filomena non demorde e dimostra tutto il suo coraggio e la sua arguzia, meritando rispetto e considerazione dai falsi perbenisti.
Così, ritroviamo Filomena nell’abitacolo del suo mezzo pesante, un Renault rosso fiammante. Alla guida “Il grande volante la faceva sentire padrona della strada che si snodava davanti ai suoi occhi per centinaia di chilometri, il sedile morbido le sembrava una comoda poltrona e il parabrezza era per lei come un televisore.”
Ma Filomena non è sola ad affrontare le vicissitudini quotidiane, può contare sulla presenza amorevole di Canio, marito fedele e innamoratissimo da sempre.
“I suoi comportamenti, del tutto spontanei e naturali, furono molto rivoluzionari per quei tempi. Una svolta dell’emancipazione femminile, quando le donne rivendicavano il diritto di una reale uguaglianza con gli uomini, chiedendo di superare antichi pregiudizi e luoghi comuni che relegavano la donna a ruoli subalterni.”
Con uno stile scorrevole e un linguaggio semplice, l’autrice di CB Filomena tesse una trama dalla scrittura cinematografica, a tratti troppo frettolosa, che offre la testimonianza del riscatto femminile nel momento del boom economico in Italia, la cui eco risuona in un presente spesso dominato da timori e incertezze, per infondere un nuovo coraggio a generazioni paralizzate, che stentano a credere nelle proprie ambizioni.
Scheda del libroAutore: Carmela BruscellaGenere: NarrativaCasa editrice: Letteratura Alternativa EdizioniPagine: 84
Prezzo: Euro 15,90ISBN: 978-88-31468-09-1Chi è Carmela BruscellaDi origini lucane, si diploma in ragioneria e ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione di ragioniere. Negli anni ’80 si trasferisce ad Asti dopo aver vinto un concorso pubblico come funzionaria amministrativa presso il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali – ICQRF Nord-Ovest. È vicepresidente dell’Associazione Culturale Amici della Lucania di Asti. Con il romanzo “Centro Family Time” nel 2015 si aggiudica il il diploma di benemerenza nel 2016 dall’A.I.A.M. – Accademia Internazionale d’Arte Moderna di Roma. È articolista per il periodico trimestrale di informazione culturale “Pagine Lucane”. Per la casa editrice astigiana Letteratura Alternativa ha pubblicato, nel 2020, “CB Filomena” e, nel 2021, la “La donna senza rossetto”
Ascolta il podcast di “CB Filomena”
Con una scrittura a metà strada fra l’automatismo surreale e il flusso di coscienza, la penna di Valeria Bianchi Mian sembra stimolata da una voce antica che chiede ascolto, reclama giustizia e si prende il suo spazio. La psicologa, psicoterapeuta, poetessa e scrittrice Valeria Bianchi Mian con la sua silloge poetica Vit[amor]te Poesie per arcani maggiori compie infatti una vera e propria alchimia del verbo, guidata da un genius loci interiore, dove le parole si mescolano alle immagini, intime e illustrate di suo pugno, tra versioni iconografiche femminili che mostrano una nuova versione del Sé, rovesciata e contemporanea.
“e so
che quando la perfezione si rivelerà
geneticamente dotata d’imprevedibile
io sarò tra quelli
che ridono per ultimi.”
Autore: Valeria Bianchi MianGenere: PoesiaCasa editrice: Miraggi EdizioniPagine: 128
Prezzo: Euro 20,00 E-book:6,49ISBN: 9788833861067 – E-book: 9788833861081
Meditare sui tarocchi, dice l’analista junghiano Claudio Widmann nel suo “Gli arcani della vita. Una lettura psicologica dei tarocchi”, è una attività di ricerca interiore. Più precisamente, egli specifica: “Non si tratta di attribuire significati alle immagini né di esplicitare significati convenzionali attribuiti ad esse, ma di scoprire quali nessi di senso vadano articolando nelle profondità inesplorabili della psiche.”
Attraverso un atto creativo, la poetessa Valeria Bianchi Mian amplifica il senso che le arriva dalle immagini archetipiche dei trionfi, interagendo con esse verso il processo di individuazione che appartiene a ciascun essere umano.
Ne viene fuori, allora, una silloge arcana agli occhi di chi guarda ancora attraverso un velo, una silloge rivelatrice al cuore di chi ha imparato a cogliere l’essenziale. Un vaso di Pandora di miti, riferimenti poetici e alchemici che si apre e illumina il cammino di lettori-viandanti alla scoperta di un nuovo Sé.
E in questo percorso la penna dell’autrice si muove libera e feroce, leggera e tagliente, come microcosmo che lavora, si agita e cammina all’interno di un cerchio più grande che è il macrocosmo di potenti simboli arcaici, di quello che fu, è e sarà, ancora e per sempre.
“Non spezzarmi la parola che ora nasce
da un serpente senza un capo né una coda
da una vergine che al duro fallo approda.”
Il verbo si fa rivelazione nella poetica di Valeria Bianca Mian, scopre sé stesso mentre viene scritto, in un processo magico-alchemico, in una taranta di tele ordite e al contempo districate.
Inizio del viaggio“Come un lupo di Chernobyl/ o la gazza che si spinge/ dal bosco alla periferia/ ladra del tempo futuro/ procedo per tentativi”.
Propaganda, il componimento che apre l’intera raccolta, è dedicato all’Arcano 0, il Matto, che a sua volta apre la serie di tarocchi, immagine che contiene in sé il doppio giullare-folle e, come specifica sempre Widmann, “il genio e la follia dell’artista”.
I primi versi di Vit[amor]te annunciano, appunto, l’approccio rivoluzionario di un modo di stare al mondo, di viandanti che esplorano mete nuove, di anime che tentano alternativi agganci per ricongiungersi all’archè, proprio come “Il folle perso nella folla/ è massa/ tumore della modernità.”
Che poi, il folle chi è se non colui che si pone in ascolto della propria voce? Una voce che giunge da un posto così lontano e così vicino allo stesso tempo, il posto dell’Anima, casa, guscio, caverna.
“libertà per sola andata.”
Gli Amanti, disegno di Valeria Bianchi MianCon l’Arcano I, il Bagatto, comincia il viaggio dell’autrice verso il rifiuto, dell’allontanamento da un luogo presente che tanto ha da dire, ma poco da dare alla sua coscienza:
“Aborro/ il marketing del nulla/ nel Nulla che avanza (…) ed io/ in maschera antigas di pizzo e latex/ induco me stessa al bisogno/ d’indurmi il più possibile al bisogno/ del non aver bisogni. (…) Non posso insegnare/ all’apprendista./ Ho soltanto il sentore del sentimento.”Da Papessa a Imperatrice
Il viaggio dell’Anima in ricerca procede con l’allontanamento da gioghi e autorità, da ipocrite e incomprese spiritualità perché siamo soltanto all’inizio, fra quelle definite immagini regali. (La Papessa, Arcano II)
“Maria Prophetissa/ non può sposare il rosso/ all’oro – nell’ora/ in cui le madri bussano/ alle porte – la morte/ conosce ogni ingresso/ ma non riconosce la propria figlia.”
Il distacco è vitale, da terre matrigne e false certezze. Per partorire la figlia, la madre deve morire.
“Hai fatto uscire un altro/ Dalla tua vagina/Ma ancora non ti capaciti/Del suo miracolo”
E la figlia (L’Imperatrice, Arcano III) che nasce è ancora figlia di sé stessa, non ancora madre, il parto è solo l’inizio di un viaggio che per imparare ad amare ha bisogno di lontananze, carnali e viscerali.
E il figlio (L’Imperatore, Arcano IV) che inizio ha? Diviso fra Eros e Thanatos, muove i passi fra le macerie, verso un destino da rifare, per giungere a quello del padre, il Sé (Il Papa, Arcano V), che qui è detto “nume tutelare”.
“Sarebbe davvero una festa
il volo di una testa
libera dal giogo dei pensieri.
Nume tutelare, non sei aria
ma spirito amato terracqueo.”
Unione e contemplazione
Tra bipolarismi alchemici, rosso/oro, terra/acqua, testa/cuore, piedi/ali, si giunge a una coniunctio amatoria nell’immagine di Teseo e Arianna (Gli Amanti, Arcano VI), fra chiusure e aperture, paura e audacia, sfida e fermata, verso un viaggio trainato (Il Carro, Arcano VII) così definito:
“Amore è carrozzone senza fissa
dimora è azione contraria
ormea, ramoe, eroma
è prendere la tessera
del partito NOI.
Peccato le rughe
ma, se le radici sono tante
io sono l’agave
non monocarpica”
La Forza, illustrazione di Valeria Bianchi Mian
E poi fermarsi, fra le tappe (La Giustizia, Arcano VIII e L’Eremita, Arcano IX), per scoprire la lentezza e il valore del raccoglimento, anche nostalgico, dall’azione alla contemplazione, in uno “Spazio illegale del Sé”, da cui nasce Identità (La Ruota, Arcano X), fra “barlumi di memoria” e “ipotesi” fino a scoprire che “la maturità non è un esame. /È senso della terra.” (La Forza, Arcano XI)
“Ma noi, prima della morte
possiamo leggere tutte le storie
per scrivere la sorte a colori.”
Nascere (scoprirsi) e morire
La poesia allora si fa senso, come negli echi di putrefatio dell’immagine che l’autrice definisce “senza nome”, (La Morte, Arcano XIII) la nera signora morte, e che diffonde quel necessario sentire la fine, quel morire che è anche rinascere, sempre, proprio come un Cristo, ritenuto il “tuo clone”.
E in questo eterno rinascere si frappone l’attesa, lenta, saggia, perchè “La mescolanza sapiente/ di casualità è incrocio/ non causale, crea nessi/ a-causali, sincronicità.” La Morte, illustrazione di Valeria Bianchi MianOmbre, maschere e figure oscure ci aspettano, tremori dinanzi a credenze cadute e negate, ambivalenze di vita e morte, giorno e notte, luce e oscurità. (Le Stelle, Arcano XVII, La Luna, Arcano XVIII, Il Sole, Arcano XIX)
“Aspettando sulla Luna/ lui arriverà presto?/ Aspettando il Sole/ Valeria imbraccia il fucile/ per sparare al Signor Ombra/ nel bel mezzo del prato./ Valeria sulla Luna/ conta le stelle con un cucchiaio/ e semina i semi sulla Terra/ per riempire il tuo piccolo cuore.”
Dagli abissi la Luna aspetta il suo Sole sorgere.
“Oggi sono: è passata quella febbre del femminismo spontaneo F to M/F/ e, nuova Orlando, esco dalle pagine/ della Storia nel corpo che ha vagina/ per scrivere La Quercia su foglia/ tessendo idee”
Con questa sua potente silloge “Vit[amor]te Poesie per arcani maggiori” edita da Miraggi Edizioni, Valeria Bianchi Mian ci insegna come la “lettura” dei tarocchi non è operazione divinatoria, bensì meditativa, esplorativa, ascolto di echi lontane, collettive e atemporali, in un fluire di immagini archetipiche che assumono, di volta in volta, di mano in mano, di cuore in cuore, infiniti significati, consegnandoci poesie cromatiche, di perduti e ritrovati sensi, odori e sapori, poesie che si fanno manifesto alchemico del viaggio che compie l’anima terrestre alla ricerca del suo doppio celeste.
“Il volo e l’albero uniti
per il mio ritorno a casa.”
Chi è Valeria Bianchi Mian:Foto di Maura Banfo
Valeria Bianchi Mian è psicoterapeuta, psicodrammatista e tarotdrammatista – metodo che coniuga lo Psicodramma alle immagini archetipiche nell’arte, utilizzando soprattutto i Tarocchi come mediatori e strumenti espressivi – www.tarotdramma.com. Socia Apragip Psicodramma e Sipsiol Società Italiana di Psicologia Online. È redattrice per Psiconline.it e Oubliette Magazine; speaker per www.radiomorpheus.it. Cura i blog Favolesvelte e Poesie Aeree (micro giornale di versi). Organizza la Rassegna Nazionale di Psicodramma e Sociodramma L’Io e l’Altro. Co-organizza eventi poetici e laboratori di Poetry Therapy per Medicamenta – lingua di donna e altre scritture. Tra i suoi libri: “Favolesvelte” (filastrocche illustrate, Golem Ed.), “Utero in anima” (saggio, Lithos Ed.), “Non è colpa mia” (romanzo noir, Golem Ed.). Con Miraggi Edizioni ha pubblicato “Vit(amor)te. Poesie per arcani maggiori” (22 carte e 44 poesie). Ha curato e illustrato: “Poesie Aeree” (Matisklo Ed.), “Una casa tutta per lei” (Golem Ed.), “Maternità marina” (Terra d’ulivi Ed.). Articoli, poesie e racconti compaiono in antologie cartacee e online. Ha partecipato a numerosi saggi corali di psicologia e filosofia (Alpes Italia).
La foto di copertina è dell’artistaMaura Banfo
Un libro tra le mani di più lettori diventa un forziere che, aperto di volta in volta, rivela tesori sepolti dietro infiniti doppifondi. Quello che leggerete è l’esperimento di due book blogger che si sono confrontate su una storia che, prima di essere recensita, necessita di essere interrogata, perché animata da una voce tanto stra/ordinaria nel panorama letterario nostranoda indurre, dapprima, a una lettura più emozionale (la prima parte scritta da Domizia Moramarco) in modo da giungere a una riflessione critica solo in un secondo momento (la seconda parte scritta da Anna Quatraro).Autore: Carmen PellegrinoGenere: NarrativaCasa editrice: La nave di TeseoPagine: 239
Prezzo: Euro 18,00ISBN: 978-88-346-0518-9Recensione di Domizia Moramarco
Nel suo nuovo romanzo “La felicità degli altri”, pubblicato per La nave di Teseo nel febbraio 2021, Carmen Pellegrino si fa cantastorie dei dolori mitico-ancestrali, storici e umanamente fragili, viaggiando di terra in terra, di memoria in memoria, di cuore in cuore. Fra presenze che sostano nelle zone d’ombra e figure che emergono dalla foschia di indefinite dimensioni temporali, l’autrice narra una storia-non storia che è, al contempo, la storia delle storie, delle anime smarrite fra nembi di dolori e sprazzi di luna, in attesa del riverbero solare. Perché quando l’Anima cerca sé stessa, le stelle si inchinano al suo passaggio.
“Quando l’invisibile abbandona il mondo quotidiano (come fece con Giobbe, lasciandolo afflitto da ogni sorta di disgrazie fisiche e materiali), allora il mondo visibile non può più alimentare la vita, perché la vita non ha più il suo sostegno invisibile.” (James Hillman – Il codice dell’anima)
“Nell’inverno del mio cuore ho desiderato a lungo di essere amata”
Quanto dolore ci portiamo dentro. Un dolore duro come pietra, che si sedimenta tutto intorno al cuore.
A quel dolore diamo una forma, un volto, un nome. E ci cammina accanto, come presenza rassicurante nello psicodramma della vita che insceniamo.
Attori sul palcoscenico, con l’abito di gesso cucito addosso, nulla più ci infrange. E osserviamo la platea, in attesa di uno sguardo. In attesa di essere guardati.
E intanto ripetiamo la nostra parte, insceniamo e immaginiamo. Le immagini sono i fotogrammi che arrivano, confusi, da un passato che crediamo reale. Su questo passato ordiamo il canovaccio del nostro spettacolo.
Dall’origine…
Inizia sempre in un luogo, la nostra storia. In una casa che prima accoglie, poi scaccia via. Siamo gettati nel mondo come feto respinto, con violenza, verso un baratro perturbante. E allora impariamo a proteggerci, in un angolo di mondo uteroso, buio, che rifugge la luce, “una terra dove tanti di noi scolorano.” È il luogo che i più temono, perché impegnati a cercare la luce, come in una tela di Caravaggio:
“La luce nei suoi dipinti, la luce su cui noi ci soffermiamo per indicarne il genio, è un bianco che si afferma per contrasto: se non ci fosse ombra, non lo vedremmo.”
La natura è tutto uno scontro-incontro di opposti, e la coppia Luce-Ombra partecipa di questo conflitto. O ci oscuriamo o ci illuminiamo. Sempre e solo da una parte. Come fa Cloe, nella quale urge l’abisso, e che preferisce essere Anais, la quale si assume “il compito di togliere il genere umano dalle tenebre.” Di salvare i bambini feriti per sempre, con un varco aperto nel cuore nascosto nella dura pietra, da padri assenti e madri Medea. Sono le anime innocenti che dalla vecchia Europa giungono a Gerusalemme in una spedizione di coraggio e speranza e che, arrivati alla vetta del Monte, chiedono a Dio:
“cosa c’entriamo noi?”
Il genere umano, sembra gridarci la storia, o nasce sotto una stella calda e rassicurante, o cresce all’ombra di violenza e incuria. Come sopravvivere a questo dolore, come perdonare chi non ha saputo proteggerci dal buio? E soprattutto, si può amare se non si è stati amati?
L’amore come rifugio, come antidoto alla solitudine, come fuga.
“… l’oscurità, diceva il professor T., è ciò da cui la luce prende origine. Nessun giorno spunterebbe mai, se la notte non preparasse la vita.”Cade la terra di Carmen Pellegrino. Giunti – 2015
Giorno e notte, dunque, si inseguono, ma senza incontrarsi mai. Nel loro perenne sfuggirsi e scontrarsi, c’è infine anche un volersi incontrare. Quando il loro amarsi e odiarsi si dilegua per ricongiungersi, finalmente, l’uno nell’altra. Ma fino a quando non capiranno cosa manca all’uno, e cosa all’altro per ritrovarsi, non si troveranno ancora.
La Luna può credere di essere il sole nella notte e il Sole la luna che illumina la notte. La luna vive di luce riflessa del sole, essa splende nella bassa oscurità, mentre il Sole si innalza, nella luce piena. Fra discese e risalite, la luce si alterna tra le braccia umide della luna e quelle forti del sole, fra abisso e coscienza. È l’altalena sulla quale sale e scende Cloe, a intermittenza, nella sua vita.
“Se solo avessimo il coraggio di fare la posta alle ombre, di coglierne il suono leggerissimo rivolto soltanto a noi.”… al confine
L’oscurità vuole dirci qualcosa, vuole che teniamo gli occhi ben aperti mentre ci immergiamo in essa, solo così il velo potrà calare e rivelare un bianco accecante. Scopriremmo, così, che è nel buio che si nasconde la luce. Ma se non ci riappacifichiamo con la notte, l’alba mai spunterà. Bagnandoci di oscurità, entriamo in una nuova fonte battesimale, risaliamo dopo aver toccato il fondo.
“Chi attinge a quest’amara e salutare fonte, beve la conoscenza dell’Ombra.”
(Carl Gustav Jung, Mysterium coniunctionis)
Tenendo le redini della propria vita, Cloe si illude di poter guidare la biga trainata dalla coppia di cavalli di platonica memoria:
“Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sì e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini, l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso.”
(Platone, Fedro)
Un’altra opposizione, fra cavallo (istinto) buono, e cavallo (desiderio) peccaminoso. Perché trainare a forza verso la contemplazione alta, l’animale che è dentro noi? Perché ammansirlo, esponendolo alla luce, anziché lasciarlo libero di vagare anche nell’oscurità?
L’esperienza degli opposti può condurre l’auriga sulla strada giusta? Potrà Cloe accettare la traccia della sua vita, come una mappa di ferite e dolori? Potrà mai tornare nell’abbraccio delle acque amniotiche di chi l’ha scaraventata nel mondo, senza amore?
“qualche volta il colpo ha un ritorno e becca proprio noi, così si aggiunge ferita a ferita, e finiamo per essere le nostre ferite…”
Accettare il proprio destino è forse la sfida più grande che l’uomo debba affrontare. Un destino che non è fato gratuito, ma è conquista di quella parte di sé che già si è in nuce (o in noce-ghianda come direbbe James Hillman). E Cloe, che si fa Redentrice fra le selve di occhi che interrogano/incolpano, da madri senza utero in un ventre pieno di vita, e da altre che partoriscono senza amore, diventa fatale punto di incontro tra Bene e Male.
Sul precipizio sceglie se, passando per rassegnazioni, sfiducia, rancori, proiezioni, immaginazione, fantasticherie, il suo viaggio nell’ombra potrà renderla l’adulta in grado di provvedere alla bambina che è stata.
Il percorso catartico diventa allora catena umana, dove anime avvezze alle ferite del mondo tendono mani, spesso invisibili come quella del professor T, esperto dell’Estetica delle ombre. E allora in nuovi panni, quelli di Esoluna, Cloe si immerge nel suo dolore, per uscirne come anima purificata, diretta verso una consapevolezza interiore sconosciuta, tracciando un nuovo e possibile cammino. Un cammino che tende all’immaginabile spiegazione al male, perpetrato contro gli innocenti, e una umanità inconsapevole.
“Il fatto è che siamo viandanti nell’oscurità, ogni vita è qualcosa che non si potrà mai afferrare del tutto.”
Poesia ispirata a “La felicità degli altri” di Domizia MoramarcoLa mia Anima fragile
Venne
A mani nude
Vuote
Ferite.
Sanguinava parole.
Incedeva nel fango,
i piedi scorticati,
la scia purulenta dietro di lei.
Non volse lo sguardo indietro.
Sapeva che, se lo avesse fatto, non sarebbe più venuta da me.
Io che l’accoglievo,
ogni volta.
Annusavo il sudore sui suoi capelli.
Aspiravo il sale dalle sue guance.
Così, derelitta e perduta,
lei veniva da me.
Io, la sua ancòra.
Lei, lo strappo da ricucire.
Recensione di Anna Quatraro
L’opera di Carmen Pellegrino condensa nel tempo labirintico e frammentario della memoria una storia (im)personale che offusca i confini del reale e del possibile, trasportando il lettore nella dimensione dell’infranto, nel vuoto senza tempo e nella fragilità che continua a incespicare su di sé, in ragione di un’affezione per le cose spezzate.
Il passato è per Clotilde un luogo senza confini precisi, disseminato di fantasmi selvaggi, dilaniato dal suo centro e sempre più sbilanciato. In un mondo decentrato, il tempo perde la sua consistenza, per diventare abisso e annegamento: la verità e l’amore si zittiscono per far riaffiorare l’imperduto che si rileva frammisto al senso del sacro e nascosto nella crudezza del reale – pur senza accompagnarsi a bieco cinismo e rassegnazione.
Se mi tornassi questa sera accanto di Carmen Pellegrino. Giunti – 2017
Si dispiega così il tempo della caduta, e del peccato originale che non risparmia i bambini, ma li sacrifica senza motivo, per una necessità ultraumana la cui logica balugina appena nell’arco della narrazione. La memoria è un meccanismo onnivoro che trafuga le apparizioni del vero e dell’immaginario, investiga nelle ombre che non hanno il coraggio di rivelarsi a tutto tondo, cerca la pace nel gioco straniante della sottrazione e della fuga.
Cloe vive una voragine: appaiono invece la madre Beatrice, il fratello Emmanuel, il professor T., docente di Estetica dell’ombra a Venezia, il compagno Baldassare, il Generale e Madame, l’amico Jerus, l’infermiera Angela.
Le immagini, come quella di una figurina alla quale da piccola Cloe si appassiona, e di una Venezia schiacciata dalla nebbia – una Venezia fantasmagorica – giocano così un ruolo centrale, fra luce e tenebre, nell’equilibrio che Cloe cerca di ricostruire: si tratta di un’anastilosi, ovvero di un graduale processo di ridefinizione dell’identità, per liberarsi dal timore dell’oscurità:
“Se solo avessimo il coraggio di fare la posta alle ombre, di coglierne il suono leggerissimo rivolto a noi. Se riuscissimo a entrare nella casa chiudendoci la porta alle spalle e poi, armati di grimaldello, aprire le stanze, una ad una….”
L’equilibrio abbozzato da Cloe è un mazzo di interrogativi che si sciolgono di fronte alla responsabilità verso il mondo, alla lacerante assenza di Dio, o al suo semplice disinteresse, i quali tuttavia non impediscono alla protagonista di confrontarsi con il suo mistero. C’è così tanta luce, negli occhi della donna, da annebbiarne la visione: solo il buio, il confronto con la terra, umida e materna, le restituiranno la capacità di vedere, oltre il visibile, nello spettro dell’immateriale, nella consistenza dell’acqua e dell’aria, infine nella distanza impercettibile fra il respiro e la sua assenza.
L’autrice Carmen PellegrinoChi è Carmen Pellegrino
Classe ’77, è una scrittrice e storica. Nel 2008 ha pubblicato il saggio storico sui movimenti collettivi di dissidenza ’68 napoletano. Conflitti sociali e lotte studentesche tra conservatorismo e utopie, mentre è del 2015 il suo esordio narrativo con il romanzo “Cade la terra”Giunti, vincitore del premio Rapallo Carige opera prima e il premo Selezione Campiello. Nel 2017, con il secondo romanzo “Se mi tornassi questa sera accanto”Giunti, si è aggiudicata il premio Dessì. Dedita alla scienza dell’abbandono, indaga i borghi disabitati e le rovine di antichi insediamenti, cercando di far rivivere i luoghi e le loro anime. Scrive per l’inserto letterario La lettura de Il corriere della sera ed è saggista su numerose riviste letterarie. “La felicità degli altri” è il suo nuovo romanzo pubblicato da La nave di Teseo nel febbraio 2021.
L’umorismo è il più eminente meccanismo di difesa.
(Sigmund Freud)
Irriverenti, sarcastici e inclementi, i racconti della raccolta Il fornicaio dell’autore di origini romane Matteo Edoardo Paoloni, Letteratura Alternativi Edizioni – 2020, sono il ritratto fugace di una società contemporanea emotivamente alla deriva, incurante del malessere che affligge l’anima sempre più schiacciata da falsi miti, eteree chimere e inutili pretese.
Tutto questo, dietro un sorriso che amaramente il lettore abbozza, di volta in volta, accumulando, come formiche impazzite, vorticose idee nella sua mente.
Nidi d’amore vuoti che si riempiono di pensieri e di immagini morbose per provare il brivido di sensazioni ormai dimenticate, mancanze colmate con la ricerca di nuovi followers, una fame interiore saziata con acquisti compulsivi e tutorial inconcepibili, insolenza travestita da candida spiritualità, insensibile sfacciataggine dinanzi ai drammi umani.
Tutto questo, dietro uno stile ironico, disambiguo, una punteggiatura spesso arbitraria e attraverso l’uso frequente di antifrasi, che tendono a invertire il disordine sotteso nella morale in un ordine che tiene in vita un teatrino umano dall’equilibrio instabile.
L’autore diventa così la voce fuori campo, l’aedo che scandisce con la sua cetra il ritmo di vicende esistenziali spesso al limite dell’assurdo, mantenendo uno sguardo vigile sul pubblico, nella speranza di illuminare le loro menti.
La goffa risata da clown si trasforma, allora, nel volto pallido e malinconico di un Pierrot infiacchito dal misero presente, dal quale fuggire, nel tentativo di un altrove misterioso che sappia riconsegnare il senso di una esistenza ormai dimenticata.
« … le persone con impulsi suicidi sanno ascoltare musica, così come sanno ascoltare le vibrazioni oscure della vita.»
A introdurre i racconti, citazioni di scrittori, sopra tutti quelle di Pier Paolo Pasolini nel richiamo nostalgico al mondo rurale contadino e la profezia all’esito burrascoso della società di massa sulla cultura, nonché versi di canzoni, dal punk al pop, spie di un desiderio di risveglio, un amo lanciato nel mare di pesci che, prima o poi, abboccheranno (forse) alla giusta lenza.
Scheda del libroAutore: Matteo Edoardo PaoloniGenere: NarrativaCasa editrice: Letteratura Alternativa EdizioniPagine: 110
Prezzo: Euro 14,90ISBN: 978-88-31468-18-3Chi è Matteo Edoardo Paoloni
Classe 1986. Avido lettore di classici, l’incontro fulminante con la scrittura arriva, in giovane età, con Il giovane Holden di Salinger. Da dieci anni risiede a Madrid, dove si è occupato di traduzioni e insegnamento. È copywriter e promotore culturale. Ama i gatti.