La divinità greca svolge il compito di trasportare messaggi, non solo notizie, ma insegnamenti. Nelle fiabe spunta sempre un aiutante che porge un oggetto magico all’eroe per sospingerlo verso la sua impresa. Nella vita, spesso avvengono incontri speciali, ai quali riusciamo ad attribuire un senso solo dopo che quella determinata persona o animale o segnale ci ha lasciato qualcosa, nel bene o nel male. Dopo che tutto è passato, scopriamo di non essere più gli stessi, come un vero eroe ci sentiamo più coraggiosi, saggi, cresciuti. Ecco perché i libri che non tornano indietro sono il segnale che qualcosa di bello sta per accadere al lettore che lo tiene ancora con sé. E ho imparato ad aspettare che torni a me con il suo profumo ancora più intenso e le pagine più leggere, come il cuore di chi lo ha custodito a lungo nella sua vita.“gentilmente astuto, predone, guida di mandrie, apportatore di sogni, osservatore notturno, ladro ai cancelli, che fece in fretta a mostrare le sue imprese tra le dee immortali”
Dove vanno a finire i libri che prestiamo?
La locanda di Ester di Cinzia Zerba
Questo è l’incipit de La locanda di Ester di Cinzia Zerba, Edizioni Convalle 2020, un inizio quotidiano e ordinario che molte donne-mamme-lavoratrici conoscono bene: un rituale che ripetono con rigore ogni mattina. Perché Silvia, la protagonista della storia, è una di loro, una delle tante donne che si barcamenano tra ménage familiare e lavorativo, senza mollare mai la presa, di quelle donne perfezioniste che credono di fare sempre la cosa giusta. Silvia non immagina, però, che quella mattina la vita per lei cambierà rotta. Quella mattina, infatti, al lavoro, che svolge a molti chilometri da casa e che la costringe a fare la pendolare tutti i giorni, riceverà una notizia che le farà crollare il mondo addosso, scardinando tutte le sue certezze. Convocata nell’ufficio del suo direttore, contrariamente alle sue aspettative di un meritato avanzamento di carriera, apprende che lei fa parte di un programma di tagli dell’azienda. Oltre al congedo inaspettato, scoprirà anche che il suo capo ne era già al corrente. «Aveva fatto moltissimi sacrifici per guadagnarsi la stima dei colleghi, capo e management, lavorando sodo, in ufficio e da casa. La sua dedizione per il lavoro era totale, riteneva che questo fosse il solo modo giusto di fare: con correttezza e serietà. In nome del suo lavoro era arrivata addirittura a trascurare molti aspetti legati alla vita familiare, di cui poi si sarebbe pentita. Non esistevano hobby per lei, perché non ne aveva il tempo: il sabato e la domenica erano interamente dedicati alle faccende domestiche. Ma lei era felice così, perché era orgogliosa del suo lavoro.» E perdendo il lavoro, dove finisce la felicità di Silvia? Ma, soprattutto, era davvero felicità la sua? Lungo il suo percorso di affermazione professionale, la nostra protagonista aveva perso l’appoggio del marito Raffaele, discorde sul suo modo di condurre la vita e, soprattutto, aveva trascurato il rapporto con la figlia Giada. Silvia deve fare i conti anche con la mancanza di solidarietà del mondo femminile nell’ambiente lavorativo, dove contrariamente a quanto auspicato da teorie femministe, non vige ancora una leale sorellanza. Tutte le certezze acquisite cominciano a crollare per Silvia, rivelandosi per quelle che sono sempre state veramente: una parvenza di perfezione. E quando si cerca di mantenere in perfetto equilibrio la propria vita come le tessere di un domino tenute, immobili, in fila per troppo tempo, arriva un improvviso colpo di vento che fa cadere la prima tessera innestando una reazione a catena. Silvia si è imposta standard di vita troppo severi, ha investito tutte le sue energie e aspettative nella sfera professionale, perdendo di vista altri aspetti della vita che la circondano. Ma Silvia non intende ancora mollare, fino a quando il corpo non comincia a inviarle strani segnali: «Una mattina, mentre era seduta alla scrivania, accadde qualcosa di inaspettato: i battiti cardiaci accelerarono e il viso le diventò paonazzo, mentre l’aria non riusciva più a raggiungere i polmoni. Copiose lacrime le segnavano il viso, mentre a bocca aperta cercava disperatamente di incamerare aria, però non riusciva a riempire in alcun modo i polmoni. La testa intanto le girava, mentre con gli occhi chiedeva aiuto a un collega lì accanto.» È l’inizio di una serie di attacchi di panico, che costringeranno Silvia a ridimensionarsi e a intraprendere un vero e proprio percorso di individuazione. Lungo questo sentiero, Silvia deve rimettere insieme le tessere del mosaico di vita che vuole ricostruire. Le vengono in aiuto i ricordi della sua infanzia: rivede la Silvia bambina nella bottega del nonno Enrico, falegname, un artigiano del fare, un artista paziente, che sa attendere, che impara a gestire e ad apprezzare i tempi lenti della finitura, e in quell’attesa partorisce la bellezza. In un suo pezzo apparso su La Repubblica, alla fine degli anni ’90, lo scrittore e critico letterario Pietro Citati dichiara colpevole la contemporaneità di aver «sciupato e dissipato l’immenso tesoro di sapienza artigiana, che la civiltà aveva costruito nei secoli.» Immaginiamo dunque la vita come una materia informe messa nelle nostre mani che dobbiamo forgiare nel migliore dei modi per trarne bellezza. Gli artigiani, in fondo, fanno questo: creano, e mentre creano, imparano ad aspettare. La nostra vita è fatta di attesa di momenti belli e, mentre aspettiamo, qualcosa accade, sempre. Silvia ha corso per troppo tempo e non è riuscita a cogliere la bellezza in fieri dell’opera d’arte che stava costruendo. Si è persa quando ha smesso di aspettare, e la vita ha perso tutta la sua bellezza. Ma Silvia non è in fondo colpevole di aver preferito la carriera professionale a una vita più casalinga, Silvia rappresenta il modello femminile dell’emancipazione che si scontra con un grosso paradosso che quasi sempre implica questa parola per una donna. Dal latino “emancipatio”, il termine in questione vuol dire rendere libero. La libertà la donna l’ha sempre dovuta conquistare, pagandola a caro prezzo. Silvia paga per la sua ambizione, non si emancipa, ma diventa prigioniera di sé stessa, delle sue angosce di alte performance, di non riuscire a essere mai abbastanza, e alla fine tutto le sfugge di mano. Simone De Beauvoir, fra le più celebri paladine del movimento femminista, ha asserito che “Non si trasforma la propria vita senza trasformare sé stessi”, e questo lo sanno bene le donne che devono costruire ogni volta la loro vita dalle macerie di una grave perdita. Silvia fa fatica a recuperare la lentezza nella sua esistenza, anche se reagisce: trova un nuovo impiego, molto più umile, ma resta legata alla sua vita precedente. Ma la vita sa sempre dove condurci, e le tessere del domino per Silvia continuano a correre e a cadere. In una sorta di rewind si ritrova a riscoprire antiche passioni, a praticare sport, a ricomporre i suoi affetti passati, a misurarsi con la perdita importante di sua nonna e a mettersi sulle tracce di una sua antenata: Ester, personaggio avvolto dal mistero. E nel frattempo Silvia trova una cura: la scrittura.«Quella mattina, come al solito, la sveglia era suonata alle 6:30. Silvia si era affrettata a vestire Giada e le aveva preparato la colazione.»
«E mentre scriveva la sua storia si rendeva conto della potenza della scrittura, che è al tempo stesso svago e terapia. Il dolore che Silvia aveva dentro, pian piano usciva, la sconfitta lavorativa si trasformava a poco a poco in parole sulla pagina.»
E allora Silvia scende nelle cantine buie del suo passato, fruga ancora fra i ricordi e ritrova una storia che le appartiene, persa nel tempo, e che lei saprà ricostruire. Non sarà dunque un caso quello di essersi messa sulle tracce di Ester, considerata agli inizi del Novecento una donna emancipata per quei tempi, che però «non era vista di buon occhio dalla sua famiglia, per il suo carattere determinato e impulsivo, e poi c’era la questione della chiaroveggenza…» Attraverso Ester, la protagonista della storia che racconta Cinzia Zerba riavvolge i fili del passato per ricomporre una trama che appartiene a tante donne che fanno fatica a vivere completamente la propria esistenza, punite per aver osato troppo, per aver cercato di essere sé stesse. Silvia ritrova la sua dimensione di donna quando si mette in ascolto di una sua più intima identità, guidata da una eco che giunge da lontano e che le permette di spezzare le catene di una prigionia che, non si sa mai come, spesso la vita ci impone. Scheda del libro Autore: Cinzia Zerba Genere: Narrativa Casa editrice: Edizioni Convalle Pagine: 133 Prezzo: Euro 13,00 ISBN: 978-88-85434-62-2 Chi è Cinzia Zerba Vive a Voghera con il marito, i due figli, tre gatti e un cane. Ama viaggiare, leggere e scrivere. A partire dal 2014 partecipa a una serie di concorsi letterari, aggiudicandosi menzioni d’onore e ottime posizioni in classifica. Nel 2015 vince la prima edizione del concorso “Dentro l’Amore”, ideata da Stefania Convalle di Edizioni Convalle con il racconto “Stella Novella”. Nel 2016 scrive il racconto “Raja e Samir”, inserito nell’antologia “Storie e Misteri” Primula Editore. Nello stesso anno costituisce il gruppo di lettura scenica Gatto Matto con il quale propone una serie di reading, in particolar modo sulla tematica della violenza sulle donne e degli stereopi di genere. Nel 2017 collabora alla stesura di alcun iracconti contenuto nel libro “Il silenzio delle donne. Il coraggio delle parole” edito sempre da Primula Editore.È membro dell’Associazione C.H.I.A.R.A., Centro antiviolenza di Voghera. “La locanda di Ester” è il suo primo romanzo, pubblicato da Edizioni Convalle nel 2020.Incroci di Francesco Landi
«Cercarti in mille sogni e desideri è il mio vissuto, trovarti nel mio mondo è il mio infinito.»
Trevor, di professione interior design, è un uomo dal cuore appesantito per i numerosi dispiaceri subiti, di natura introversa e riflessiva; Carol è una donna d’affari, che si occupa di catalogare codici e somiglianze dei simboli utilizzati dai brand aziendali, bella ed elegante, disillusa dall’amore, insoddisfatta della sua vita, che in cuor suo forse aspetta ancora che qualcosa possa cambiare. Per lei la svolta arriverà proprio nel momento in cui decide di rompere con il passato. I due protagonisti saranno coinvolti in un giro di incontri ravvicinati all’interno di una dimensione onirica. Solo chiudendo gli occhi i due possono avere visioni, sentire odori e affinare una certa sensibilità nel percepire quando la vita li avvicina. La scrittura di Landi è pulita e precisa, quasi l’autore tema di incorrere in sbavature, ma questa sensazione di controllo che arriva al lettore è abilmente bilanciata da una tematica che ha del magico, a conferma del noto assunto “Non si vede che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi” contenuto nel Il piccolo principe, romanzo che all’interno della storia ha una funzione rivelatrice e medianica. Ancorati alla realtà, siamo ciechi davanti ai segnali che ci giungono da una dimensione altra, sordi verso suoni impercettibili, insensibili a essenze che ci circondano. Quando Trevor ricorda il sogno ricorrente della sua vita, una donna che gli cammina accanto che a sua volta cammina accanto a un altro uomo, pensa al profumo della donna, una essenza che tenta di ritrovare quando, in occasione dell’allestimento di uno show room che propone «un percorso attraverso i cinque sensi» all’interno di uno spettacolo multimediale presso l’H5, «Un edificio multipiano di architettura moderna incastonato nella parte antica della città», elabora un software in grado di associare ai profumi più noti l’aroma che i visitatori si portano addosso. «Si rese conto che la vita era fatta di coincidenze, di momenti in cui può succedere di tutto e altri invece in cui non accade nulla.» L’autore ci ricorda che siamo circondati da segnali, ma insensibili a recepirli e, qualora lo facessimo, il loro vero significato lo capiremmo solo a disegno compiuto. Ed è proprio nel disegno (dal latino “signum”), che Trevor ricostruisce un certo piano al quale è, in un certo senso, predestinato. Des è un noto tatuatore, dotato di una sopraffina sensibilità: parla con gli occhi e i gesti delle mani, è in grado di cogliere cosa il suo cliente intende disegnarsi, segnarsi, sulla pelle. Gli schizzi che Trevor gli consegna (illustrati direttamente dall’autore) sono i segni che riceve dai suoi sogni. Chi è, allora, realmente Des? Un essere ambivalente e al contempo affascinante, misterioso e sfuggente. È un po’ come un vento che giunge improvviso e cambia spesso direzione e noi ci ritroviamo a essere parte di quel vento, fino a fonderci completamente in esso. Trevor e Carol saranno trascinati in una bufera di sorprendenti indizi. Sarà il vento a far arrivare alla donna un foglietto stropicciato, a condurla verso una libreria dove si ritroverà fra le mani una antica edizione del noto romanzo di Antoine De Saint-Exupéry. Particolare attenzione, all’interno della vicenda, merita la città in cui essa è ambientata, Ersten. L’autore non si sofferma nelle descrizioni dei posti frequentati dai personaggi, ma li rende vividi creando atmosfere, quasi tattili. Le descrizioni sono percezioni per il lettore e Ersten diventa un non-luogo, un punto di incontro a-temporale in cui si fondono molteplici piani temporali ed esistenziali. A questa sovrapposizione si aggancia un sorprendente legame musica-scrittura. Nel romanzo “Incroci” le melodie diventano funzionali allo sbroglio delle vicende. Melodie jazz intervengono a disseminare indizi per ricomporre il mosaico dell’incontro d’amore predestinato, al punto che la sorte dei due protagonisti diventa un vero e proprio destino melodico «Sempre, aveva visto fondersi due caratteri ben precisi: il cuore e la ragione. Aveva potuto constatare, Des, che solitamente il cuore tende a cercare, mentre la ragione aiuta a trovare.» Incroci di Francesco Landi è un romanzo che coinvolge nel suo intricato e avvincente giro di vite e pone interrogativi su quelli che oggi consideriamo bisogni essenziali, quali il controllo sulle nostre azioni, la frenesia e la smania di successo, che proprio ne Il piccolo principe ritroviamo nei personaggi del re e del mercante, e forse, a pensarci bene, il Serpente potrebbe essere associato a Des, che con il suo intervento permette ai personaggi di cogliere l’importanza delle separazioni e dei dolori vissuti e trovare il coraggio di ricominciare. Perché, in fondo, siamo proprio noi che lasciamo aperta la porta al destino, invitandolo a entrare nella nostra vita. Scheda del libro Autore: Francesco Landi Genere: Narrativa Casa editrice: Letteratura Alternativa Edizioni Pagine: 196 Prezzo: Euro 14,90 ISBN: 978-88-94815-75-7 Chi è Francesco Landi Classe 1970, veneziano doc, Francesco Landi è avvocato di professione. Studia musica sin da ragazzino e oggi è compositore e strumentista di chitarra e tromba. Appassionato al jazz di Miles Davis e Chet Baker, ha raccolto le sue più importanti composizioni nel CD “GPF”, inciso nel 2015 e presentato in vari tour nel territorio. Incroci è il suo esordio narrativo, pubblicato nel 2019 da Letteratura Alternativa Edizioni. Il romanzo è stato ammesso al Salone Internazionale del Libro di Francoforte 2019 con la seguente motivazione: “Per la realizzazione plausibile della rappresentazione del gioco del destino che ordisce intrecci e occasioni. L’autore ha dimostrato di saper utilizzare tutti quegli elementi narrativi che concorrono a erigere un ottimo esordio”. Nel 2020 pubblica, sempre per Letteratura Alternativa Edizioni, il suo secondo romanzo, Un disegno dall’ombra. Ascolta il podcast di “Incroci”Intervista a Daniele Gigli, autore di “T. S. Eliot – Nel fuoco del conoscere”
CB Filomena di Carmela Bruscella
Con uno stile scorrevole e un linguaggio semplice, l’autrice di CB Filomena tesse una trama dalla scrittura cinematografica, a tratti troppo frettolosa, che offre la testimonianza del riscatto femminile nel momento del boom economico in Italia, la cui eco risuona in un presente spesso dominato da timori e incertezze, per infondere un nuovo coraggio a generazioni paralizzate, che stentano a credere nelle proprie ambizioni. Scheda del libro Autore: Carmela Bruscella Genere: Narrativa Casa editrice: Letteratura Alternativa Edizioni Pagine: 84 Prezzo: Euro 15,90 ISBN: 978-88-31468-09-1 Chi è Carmela Bruscella Di origini lucane, si diploma in ragioneria e ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione di ragioniere. Negli anni ’80 si trasferisce ad Asti dopo aver vinto un concorso pubblico come funzionaria amministrativa presso il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali – ICQRF Nord-Ovest. È vicepresidente dell’Associazione Culturale Amici della Lucania di Asti. Con il romanzo “Centro Family Time” nel 2015 si aggiudica il il diploma di benemerenza nel 2016 dall’A.I.A.M. – Accademia Internazionale d’Arte Moderna di Roma. È articolista per il periodico trimestrale di informazione culturale “Pagine Lucane”. Per la casa editrice astigiana Letteratura Alternativa ha pubblicato, nel 2020, “CB Filomena” e, nel 2021, la “La donna senza rossetto” Ascolta il podcast di “CB Filomena”“I suoi comportamenti, del tutto spontanei e naturali, furono molto rivoluzionari per quei tempi. Una svolta dell’emancipazione femminile, quando le donne rivendicavano il diritto di una reale uguaglianza con gli uomini, chiedendo di superare antichi pregiudizi e luoghi comuni che relegavano la donna a ruoli subalterni.”
Vit[amor]te – Poesie per arcani maggiori di Valeria Bianchi Mian
“e so
che quando la perfezione si rivelerà
geneticamente dotata d’imprevedibile
io sarò tra quelli
che ridono per ultimi.”
Autore: Valeria Bianchi Mian Genere: Poesia Casa editrice: Miraggi Edizioni Pagine: 128 Prezzo: Euro 20,00 E-book:6,49 ISBN: 9788833861067 – E-book: 9788833861081 Meditare sui tarocchi, dice l’analista junghiano Claudio Widmann nel suo “Gli arcani della vita. Una lettura psicologica dei tarocchi”, è una attività di ricerca interiore. Più precisamente, egli specifica: “Non si tratta di attribuire significati alle immagini né di esplicitare significati convenzionali attribuiti ad esse, ma di scoprire quali nessi di senso vadano articolando nelle profondità inesplorabili della psiche.” Attraverso un atto creativo, la poetessa Valeria Bianchi Mian amplifica il senso che le arriva dalle immagini archetipiche dei trionfi, interagendo con esse verso il processo di individuazione che appartiene a ciascun essere umano. Ne viene fuori, allora, una silloge arcana agli occhi di chi guarda ancora attraverso un velo, una silloge rivelatrice al cuore di chi ha imparato a cogliere l’essenziale. Un vaso di Pandora di miti, riferimenti poetici e alchemici che si apre e illumina il cammino di lettori-viandanti alla scoperta di un nuovo Sé. E in questo percorso la penna dell’autrice si muove libera e feroce, leggera e tagliente, come microcosmo che lavora, si agita e cammina all’interno di un cerchio più grande che è il macrocosmo di potenti simboli arcaici, di quello che fu, è e sarà, ancora e per sempre.“Non spezzarmi la parola che ora nasce
da un serpente senza un capo né una coda
da una vergine che al duro fallo approda.”
Il verbo si fa rivelazione nella poetica di Valeria Bianca Mian, scopre sé stesso mentre viene scritto, in un processo magico-alchemico, in una taranta di tele ordite e al contempo districate. Inizio del viaggio “Come un lupo di Chernobyl/ o la gazza che si spinge/ dal bosco alla periferia/ ladra del tempo futuro/ procedo per tentativi”. Propaganda, il componimento che apre l’intera raccolta, è dedicato all’Arcano 0, il Matto, che a sua volta apre la serie di tarocchi, immagine che contiene in sé il doppio giullare-folle e, come specifica sempre Widmann, “il genio e la follia dell’artista”. I primi versi di Vit[amor]te annunciano, appunto, l’approccio rivoluzionario di un modo di stare al mondo, di viandanti che esplorano mete nuove, di anime che tentano alternativi agganci per ricongiungersi all’archè, proprio come “Il folle perso nella folla/ è massa/ tumore della modernità.” Che poi, il folle chi è se non colui che si pone in ascolto della propria voce? Una voce che giunge da un posto così lontano e così vicino allo stesso tempo, il posto dell’Anima, casa, guscio, caverna.“libertà per sola andata.”
Con l’Arcano I, il Bagatto, comincia il viaggio dell’autrice verso il rifiuto, dell’allontanamento da un luogo presente che tanto ha da dire, ma poco da dare alla sua coscienza: “Aborro/ il marketing del nulla/ nel Nulla che avanza (…) ed io/ in maschera antigas di pizzo e latex/ induco me stessa al bisogno/ d’indurmi il più possibile al bisogno/ del non aver bisogni. (…) Non posso insegnare/ all’apprendista./ Ho soltanto il sentore del sentimento.” Da Papessa a Imperatrice Il viaggio dell’Anima in ricerca procede con l’allontanamento da gioghi e autorità, da ipocrite e incomprese spiritualità perché siamo soltanto all’inizio, fra quelle definite immagini regali. (La Papessa, Arcano II) “Maria Prophetissa/ non può sposare il rosso/ all’oro – nell’ora/ in cui le madri bussano/ alle porte – la morte/ conosce ogni ingresso/ ma non riconosce la propria figlia.” Il distacco è vitale, da terre matrigne e false certezze. Per partorire la figlia, la madre deve morire. “Hai fatto uscire un altro/ Dalla tua vagina/Ma ancora non ti capaciti/Del suo miracolo” E la figlia (L’Imperatrice, Arcano III) che nasce è ancora figlia di sé stessa, non ancora madre, il parto è solo l’inizio di un viaggio che per imparare ad amare ha bisogno di lontananze, carnali e viscerali. E il figlio (L’Imperatore, Arcano IV) che inizio ha? Diviso fra Eros e Thanatos, muove i passi fra le macerie, verso un destino da rifare, per giungere a quello del padre, il Sé (Il Papa, Arcano V), che qui è detto “nume tutelare”.“Sarebbe davvero una festa
il volo di una testa
libera dal giogo dei pensieri.
Nume tutelare, non sei aria
ma spirito amato terracqueo.”
Unione e contemplazione Tra bipolarismi alchemici, rosso/oro, terra/acqua, testa/cuore, piedi/ali, si giunge a una coniunctio amatoria nell’immagine di Teseo e Arianna (Gli Amanti, Arcano VI), fra chiusure e aperture, paura e audacia, sfida e fermata, verso un viaggio trainato (Il Carro, Arcano VII) così definito:“Amore è carrozzone senza fissa
dimora è azione contraria
ormea, ramoe, eroma
è prendere la tessera
del partito NOI.
Peccato le rughe
ma, se le radici sono tante
io sono l’agave
non monocarpica”
E poi fermarsi, fra le tappe (La Giustizia, Arcano VIII e L’Eremita, Arcano IX), per scoprire la lentezza e il valore del raccoglimento, anche nostalgico, dall’azione alla contemplazione, in uno “Spazio illegale del Sé”, da cui nasce Identità (La Ruota, Arcano X), fra “barlumi di memoria” e “ipotesi” fino a scoprire che “la maturità non è un esame. /È senso della terra.” (La Forza, Arcano XI)
“Ma noi, prima della morte
possiamo leggere tutte le storie
per scrivere la sorte a colori.”
Nascere (scoprirsi) e morire
La poesia allora si fa senso, come negli echi di putrefatio dell’immagine che l’autrice definisce “senza nome”, (La Morte, Arcano XIII) la nera signora morte, e che diffonde quel necessario sentire la fine, quel morire che è anche rinascere, sempre, proprio come un Cristo, ritenuto il “tuo clone”. E in questo eterno rinascere si frappone l’attesa, lenta, saggia, perchè “La mescolanza sapiente/ di casualità è incrocio/ non causale, crea nessi/ a-causali, sincronicità.” Ombre, maschere e figure oscure ci aspettano, tremori dinanzi a credenze cadute e negate, ambivalenze di vita e morte, giorno e notte, luce e oscurità. (Le Stelle, Arcano XVII, La Luna, Arcano XVIII, Il Sole, Arcano XIX) “Aspettando sulla Luna/ lui arriverà presto?/ Aspettando il Sole/ Valeria imbraccia il fucile/ per sparare al Signor Ombra/ nel bel mezzo del prato./ Valeria sulla Luna/ conta le stelle con un cucchiaio/ e semina i semi sulla Terra/ per riempire il tuo piccolo cuore.” Dagli abissi la Luna aspetta il suo Sole sorgere. “Oggi sono: è passata quella febbre del femminismo spontaneo F to M/F/ e, nuova Orlando, esco dalle pagine/ della Storia nel corpo che ha vagina/ per scrivere La Quercia su foglia/ tessendo idee” Con questa sua potente silloge “Vit[amor]te Poesie per arcani maggiori” edita da Miraggi Edizioni, Valeria Bianchi Mian ci insegna come la “lettura” dei tarocchi non è operazione divinatoria, bensì meditativa, esplorativa, ascolto di echi lontane, collettive e atemporali, in un fluire di immagini archetipiche che assumono, di volta in volta, di mano in mano, di cuore in cuore, infiniti significati, consegnandoci poesie cromatiche, di perduti e ritrovati sensi, odori e sapori, poesie che si fanno manifesto alchemico del viaggio che compie l’anima terrestre alla ricerca del suo doppio celeste.“Il volo e l’albero uniti
per il mio ritorno a casa.”
Chi è Valeria Bianchi Mian: Valeria Bianchi Mian è psicoterapeuta, psicodrammatista e tarotdrammatista – metodo che coniuga lo Psicodramma alle immagini archetipiche nell’arte, utilizzando soprattutto i Tarocchi come mediatori e strumenti espressivi – www.tarotdramma.com. Socia Apragip Psicodramma e Sipsiol Società Italiana di Psicologia Online. È redattrice per Psiconline.it e Oubliette Magazine; speaker per www.radiomorpheus.it. Cura i blog Favolesvelte e Poesie Aeree (micro giornale di versi). Organizza la Rassegna Nazionale di Psicodramma e Sociodramma L’Io e l’Altro. Co-organizza eventi poetici e laboratori di Poetry Therapy per Medicamenta – lingua di donna e altre scritture. Tra i suoi libri: “Favolesvelte” (filastrocche illustrate, Golem Ed.), “Utero in anima” (saggio, Lithos Ed.), “Non è colpa mia” (romanzo noir, Golem Ed.). Con Miraggi Edizioni ha pubblicato “Vit(amor)te. Poesie per arcani maggiori” (22 carte e 44 poesie). Ha curato e illustrato: “Poesie Aeree” (Matisklo Ed.), “Una casa tutta per lei” (Golem Ed.), “Maternità marina” (Terra d’ulivi Ed.). Articoli, poesie e racconti compaiono in antologie cartacee e online. Ha partecipato a numerosi saggi corali di psicologia e filosofia (Alpes Italia). La foto di copertina è dell’artista Maura BanfoLa felicità degli altri di Carmen Pellegrino
Quanto dolore ci portiamo dentro. Un dolore duro come pietra, che si sedimenta tutto intorno al cuore. A quel dolore diamo una forma, un volto, un nome. E ci cammina accanto, come presenza rassicurante nello psicodramma della vita che insceniamo. Attori sul palcoscenico, con l’abito di gesso cucito addosso, nulla più ci infrange. E osserviamo la platea, in attesa di uno sguardo. In attesa di essere guardati. E intanto ripetiamo la nostra parte, insceniamo e immaginiamo. Le immagini sono i fotogrammi che arrivano, confusi, da un passato che crediamo reale. Su questo passato ordiamo il canovaccio del nostro spettacolo. Dall’origine… Inizia sempre in un luogo, la nostra storia. In una casa che prima accoglie, poi scaccia via. Siamo gettati nel mondo come feto respinto, con violenza, verso un baratro perturbante. E allora impariamo a proteggerci, in un angolo di mondo uteroso, buio, che rifugge la luce, “una terra dove tanti di noi scolorano.” È il luogo che i più temono, perché impegnati a cercare la luce, come in una tela di Caravaggio: “La luce nei suoi dipinti, la luce su cui noi ci soffermiamo per indicarne il genio, è un bianco che si afferma per contrasto: se non ci fosse ombra, non lo vedremmo.” La natura è tutto uno scontro-incontro di opposti, e la coppia Luce-Ombra partecipa di questo conflitto. O ci oscuriamo o ci illuminiamo. Sempre e solo da una parte. Come fa Cloe, nella quale urge l’abisso, e che preferisce essere Anais, la quale si assume “il compito di togliere il genere umano dalle tenebre.” Di salvare i bambini feriti per sempre, con un varco aperto nel cuore nascosto nella dura pietra, da padri assenti e madri Medea. Sono le anime innocenti che dalla vecchia Europa giungono a Gerusalemme in una spedizione di coraggio e speranza e che, arrivati alla vetta del Monte, chiedono a Dio:“Nell’inverno del mio cuore ho desiderato a lungo di essere amata”
Il genere umano, sembra gridarci la storia, o nasce sotto una stella calda e rassicurante, o cresce all’ombra di violenza e incuria. Come sopravvivere a questo dolore, come perdonare chi non ha saputo proteggerci dal buio? E soprattutto, si può amare se non si è stati amati? L’amore come rifugio, come antidoto alla solitudine, come fuga. “… l’oscurità, diceva il professor T., è ciò da cui la luce prende origine. Nessun giorno spunterebbe mai, se la notte non preparasse la vita.” Giorno e notte, dunque, si inseguono, ma senza incontrarsi mai. Nel loro perenne sfuggirsi e scontrarsi, c’è infine anche un volersi incontrare. Quando il loro amarsi e odiarsi si dilegua per ricongiungersi, finalmente, l’uno nell’altra. Ma fino a quando non capiranno cosa manca all’uno, e cosa all’altro per ritrovarsi, non si troveranno ancora. La Luna può credere di essere il sole nella notte e il Sole la luna che illumina la notte. La luna vive di luce riflessa del sole, essa splende nella bassa oscurità, mentre il Sole si innalza, nella luce piena. Fra discese e risalite, la luce si alterna tra le braccia umide della luna e quelle forti del sole, fra abisso e coscienza. È l’altalena sulla quale sale e scende Cloe, a intermittenza, nella sua vita. “Se solo avessimo il coraggio di fare la posta alle ombre, di coglierne il suono leggerissimo rivolto soltanto a noi.” … al confine L’oscurità vuole dirci qualcosa, vuole che teniamo gli occhi ben aperti mentre ci immergiamo in essa, solo così il velo potrà calare e rivelare un bianco accecante. Scopriremmo, così, che è nel buio che si nasconde la luce. Ma se non ci riappacifichiamo con la notte, l’alba mai spunterà. Bagnandoci di oscurità, entriamo in una nuova fonte battesimale, risaliamo dopo aver toccato il fondo. “Chi attinge a quest’amara e salutare fonte, beve la conoscenza dell’Ombra.” (Carl Gustav Jung, Mysterium coniunctionis) Tenendo le redini della propria vita, Cloe si illude di poter guidare la biga trainata dalla coppia di cavalli di platonica memoria: “Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sì e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini, l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso.” (Platone, Fedro) Un’altra opposizione, fra cavallo (istinto) buono, e cavallo (desiderio) peccaminoso. Perché trainare a forza verso la contemplazione alta, l’animale che è dentro noi? Perché ammansirlo, esponendolo alla luce, anziché lasciarlo libero di vagare anche nell’oscurità? L’esperienza degli opposti può condurre l’auriga sulla strada giusta? Potrà Cloe accettare la traccia della sua vita, come una mappa di ferite e dolori? Potrà mai tornare nell’abbraccio delle acque amniotiche di chi l’ha scaraventata nel mondo, senza amore? “qualche volta il colpo ha un ritorno e becca proprio noi, così si aggiunge ferita a ferita, e finiamo per essere le nostre ferite…” Accettare il proprio destino è forse la sfida più grande che l’uomo debba affrontare. Un destino che non è fato gratuito, ma è conquista di quella parte di sé che già si è in nuce (o in noce-ghianda come direbbe James Hillman). E Cloe, che si fa Redentrice fra le selve di occhi che interrogano/incolpano, da madri senza utero in un ventre pieno di vita, e da altre che partoriscono senza amore, diventa fatale punto di incontro tra Bene e Male. Sul precipizio sceglie se, passando per rassegnazioni, sfiducia, rancori, proiezioni, immaginazione, fantasticherie, il suo viaggio nell’ombra potrà renderla l’adulta in grado di provvedere alla bambina che è stata. Il percorso catartico diventa allora catena umana, dove anime avvezze alle ferite del mondo tendono mani, spesso invisibili come quella del professor T, esperto dell’Estetica delle ombre. E allora in nuovi panni, quelli di Esoluna, Cloe si immerge nel suo dolore, per uscirne come anima purificata, diretta verso una consapevolezza interiore sconosciuta, tracciando un nuovo e possibile cammino. Un cammino che tende all’immaginabile spiegazione al male, perpetrato contro gli innocenti, e una umanità inconsapevole.“cosa c’entriamo noi?”
“Il fatto è che siamo viandanti nell’oscurità, ogni vita è qualcosa che non si potrà mai afferrare del tutto.”Poesia ispirata a “La felicità degli altri” di Domizia Moramarco La mia Anima fragile Venne A mani nude Vuote Ferite. Sanguinava parole. Incedeva nel fango, i piedi scorticati, la scia purulenta dietro di lei. Non volse lo sguardo indietro. Sapeva che, se lo avesse fatto, non sarebbe più venuta da me. Io che l’accoglievo, ogni volta. Annusavo il sudore sui suoi capelli. Aspiravo il sale dalle sue guance. Così, derelitta e perduta, lei veniva da me. Io, la sua ancòra. Lei, lo strappo da ricucire. Recensione di Anna Quatraro L’opera di Carmen Pellegrino condensa nel tempo labirintico e frammentario della memoria una storia (im)personale che offusca i confini del reale e del possibile, trasportando il lettore nella dimensione dell’infranto, nel vuoto senza tempo e nella fragilità che continua a incespicare su di sé, in ragione di un’affezione per le cose spezzate. Il passato è per Clotilde un luogo senza confini precisi, disseminato di fantasmi selvaggi, dilaniato dal suo centro e sempre più sbilanciato. In un mondo decentrato, il tempo perde la sua consistenza, per diventare abisso e annegamento: la verità e l’amore si zittiscono per far riaffiorare l’imperduto che si rileva frammisto al senso del sacro e nascosto nella crudezza del reale – pur senza accompagnarsi a bieco cinismo e rassegnazione. Si dispiega così il tempo della caduta, e del peccato originale che non risparmia i bambini, ma li sacrifica senza motivo, per una necessità ultraumana la cui logica balugina appena nell’arco della narrazione. La memoria è un meccanismo onnivoro che trafuga le apparizioni del vero e dell’immaginario, investiga nelle ombre che non hanno il coraggio di rivelarsi a tutto tondo, cerca la pace nel gioco straniante della sottrazione e della fuga. Cloe vive una voragine: appaiono invece la madre Beatrice, il fratello Emmanuel, il professor T., docente di Estetica dell’ombra a Venezia, il compagno Baldassare, il Generale e Madame, l’amico Jerus, l’infermiera Angela. Le immagini, come quella di una figurina alla quale da piccola Cloe si appassiona, e di una Venezia schiacciata dalla nebbia – una Venezia fantasmagorica – giocano così un ruolo centrale, fra luce e tenebre, nell’equilibrio che Cloe cerca di ricostruire: si tratta di un’anastilosi, ovvero di un graduale processo di ridefinizione dell’identità, per liberarsi dal timore dell’oscurità:
L’equilibrio abbozzato da Cloe è un mazzo di interrogativi che si sciolgono di fronte alla responsabilità verso il mondo, alla lacerante assenza di Dio, o al suo semplice disinteresse, i quali tuttavia non impediscono alla protagonista di confrontarsi con il suo mistero. C’è così tanta luce, negli occhi della donna, da annebbiarne la visione: solo il buio, il confronto con la terra, umida e materna, le restituiranno la capacità di vedere, oltre il visibile, nello spettro dell’immateriale, nella consistenza dell’acqua e dell’aria, infine nella distanza impercettibile fra il respiro e la sua assenza. Chi è Carmen Pellegrino Classe ’77, è una scrittrice e storica. Nel 2008 ha pubblicato il saggio storico sui movimenti collettivi di dissidenza ’68 napoletano. Conflitti sociali e lotte studentesche tra conservatorismo e utopie, mentre è del 2015 il suo esordio narrativo con il romanzo “Cade la terra” Giunti, vincitore del premio Rapallo Carige opera prima e il premo Selezione Campiello. Nel 2017, con il secondo romanzo “Se mi tornassi questa sera accanto” Giunti, si è aggiudicata il premio Dessì. Dedita alla scienza dell’abbandono, indaga i borghi disabitati e le rovine di antichi insediamenti, cercando di far rivivere i luoghi e le loro anime. Scrive per l’inserto letterario La lettura de Il corriere della sera ed è saggista su numerose riviste letterarie. “La felicità degli altri” è il suo nuovo romanzo pubblicato da La nave di Teseo nel febbraio 2021.“Se solo avessimo il coraggio di fare la posta alle ombre, di coglierne il suono leggerissimo rivolto a noi. Se riuscissimo a entrare nella casa chiudendoci la porta alle spalle e poi, armati di grimaldello, aprire le stanze, una ad una….”
Gridiamolo forte con una canzone
Forse non abbiamo ancora capito abbastanza quanto l’arte sappia renderci umani e quanto ci aggreghi. Parole senza una voce traduce questo pensiero in musica, e noi ascoltatori non possiamo fare altro, con la nostra di voce, che farle sentire, più forti, queste parole, affinché non restino “solo parole come neve sui ghiacciai.” Perché se è vero, come ha affermato Victor Hugo che nell’arte la libertà è l’ispirazione, allora in questo tempo che stiamo vivendo, arido di arte, siamo davvero tutti incatenati a un cancello. PAROLE SENZA UNA VOCE Il testo Mi guardo intorno e rifletto Nella penombra spettrale di questa fredda stanza Mi guardo intorno e rifletto Nella penombra spettrale di questa fredda stanza Un pianoforte muto, solo perché costretto Dall’incalzante follia di quest’uomo che non è mai… Non è mai folle abbastanza. Nella mia mente risuonano quei tasti bianchi e neri Tra l’euforia della gente nei teatri, nelle piazze e nei locali Tra gli applausi scroscianti e il tintinnio dei bicchieri Che ci si sente importanti, che ci si sente… ci si sente speciali. Un palco vuoto, lo sai, è uno spettacolo indegno Oltre il sipario, là fuori, nel buio, c’è un catenaccio a un cancello Solo il rumore assordante di quelle tavole in legno In quel teatro ormai chiuso, che per noi… Per noi artisti è un castello Gli spalti, le platee, le poltrone, il botteghino Da troppo tempo stan lì ad aspettare sotto quei riflettori Che si riapra il sipario, che si faccia un provino, Tra ballerini danzanti, tra musicisti ed attori. E mentre si sparge del sale sulle nostre ferite Paghiamo il prezzo di vivere in questo tempo, in in questo tempo feroce Che inaridisce la mente, consuma le nostre vite, E intanto passa veloce In questo fiume che scorre e che non torna indietro mai Che corre verso la foce Restano solo parole come neve sui ghiacciai Parole senza una voce. E mentre regna il silenzio sopra le piazze deserte Le luminarie, le folle, i sorrisi son vecchie fotoingiallite Alle vetrine dei bar, dei negozi, gente a braccia conserte Incatenati a questa arida terra, come le piante… come le piante appassite. È tempo di ripartire, ragazzi, oltre delirio e follia Perché l’arte è una parte di noi che non può e che non deve sparire Perché l’artista è una radio, un jukebox che ci fa compagnia Perché l’artista è quell’uomo sul palco, che non vuole morire. E mentre si sparge del sale sulle nostre ferite Paghiamo il prezzo di vivere in questo tempo, in questo tempo feroce Che inaridisce la mente, consuma le nostre vite, E intanto passa veloce In questo fiume che scorre e che non torna indietro mai Che corre verso la foce Restano solo parole come neve sui ghiacciai Parole senza una voce. PAROLE SENZA UNA VOCE Il videoclip: TIZIANA MANFREDI. Una vita per la musica Tiziana Manfredi è cantante professionista e attrice di teatro. A dieci anni esordisce sul palcoscenico. Pochi anni dopo, nel 1994 fa la sua comparsa in tv come solista su RaiUno in occasione del “50° anniversario C.S.I.”, presentata da Pippo Baudo e Simona Ventura. Seguono, la diretta su RaiDue “Ci vediamo… in Tv”, presentata da Paolo Limiti, la diretta su Tmc “Tappeto volante”, presentata da Luciano Rispoli, nel 2001 la diretta nella trasmissione televisiva “Brava gente”, presentata da Fabrizio Gatta e Cinzia Tani, mentre dal 2001 al 2003 è cantante solista al Capodanno di Rai International, presentata da P. Saluzzi e S. D’Amico e nel 2002 è cantante e attrice nello “Speciale Saranno Famosi”, presentato da M. De Filippi. Nel 1999 ottiene il 1° premio nella categoria “Cantanti” in occasione del concorso televisivo “Giovani al via”, in onda su TMC. Dal 2010 al 2012 è attrice-cantante nel musical “Noi..figli delle stelle”, con la regia del celebre ballerino Adolfo Marazita. Nel 2013 torna in TV, nella fiction televisiva “Il prezzo del potere” diretta da Daniele Filograna, con la partecipazione di Patrizia Rossetti, e a teatro con lo spettacolo autoprodotto“Nana’d”. Non ha mai smesso di studiare musica e frequenta corsi di vocologia e perfezionamento della tecnica vocale coi migliori esperti di logopedia e foniatria. Si è anche cimentata nella musica dance-house, incidendo i brani “Love beat” e “Lovely”, col nome d’arte Timanei.“Perché l’artista è quell’uomo sul palco, che non vuole morire.”