“Qui, nel cerchio labile di fuoco,
lo senti, sempre più distintamente,
farsi gorgo, mutare in vortice
il suo fondo, dov’è?
Tu colmalo se puoi,
scrutane il buio.”
La silloge poetica dell’autore romano Flavio Ferraro, Il Silenzio degli oracoli edito da Edizioni L’Arcolaio, si apre con un invito al lettore a farsi rapire da una sorta di rito: attraversare il cerchio di fuoco per uscirne, forse, fenice perché, per dirla con un altro suo verso: “attraversare non è nulla”. Ma al contempo è pericoloso l’incoraggiamento a colmare il fondo di un vortice nel quale sarà immerso, perché trovarlo sarà difficile.
Eppure, nonostante il prologo epico, il poeta cerca la fissità, la forma necessaria, tende a cristallizzare il brivido che l’onda dei suoi versi provoca nel lettore.
“tu custodisci una parola straziata./Uno spazio aperto ai vènti.” O ancora: “la tua ombra, quieta, che si staglia,/a dire il vuoto d’ogni pietra:”
Arriva sempre, nei versi di Ferraro, una immagine statica. Qui è la pietra, che però si contraddice con il suo vuoto. Una estetica del vago contenuto nella forma, un ammonimento all’impossibilità di cristallizzare l’emozione:“Non puoi chiudere gli occhi. /Ci sono stelle, alberi curvi in ascolto,” oppure “parola che perdura,/ svanendo”.
In alcune strofe le sinestesie richiamano immagini vivide, come l’albero neve che affonda le sue radici nella terra per sollevarlo, in altre, più sibilline, il tono si fa più travolgente, come nei versi che esondano in atmosfere acquatiche, talvolta putride come stagno, altre limpide come un fiume, chiare come la luce che nasce dal fondo.
“Che il mondo è mondo,
la terra è terra,
e noi destino.”
L’uomo è l’essere cha la calpesta, la terra, vagando nel mondo e facendo il suo cammino (destino). La vita dell’uomo sembra uno strappo dall’infinito sopra di lui. L’uomo cammina sotto la volta celeste, gettato nel mondo alla ricerca della sua luce. Perché l’uomo è chiamato dall’Uno, non può chiamarlo da sè, non commette gesti titanici, ma sembra subire quelli di una dimensione altra, prima di poter ricongiungersi all’Uno. “Non fondare né distruggere,/ ma dirigersi, sempre.”
“Questo buio spazio di terra
già cade verso l’alto
rompere
un vaso e poi indovinarne
la forma – sarà questo,
scendere nel buio.”
Il buio sembra aprire un varco, quasi permettesse di comprendere.
“Se molto deve scendere
nel buio, affinché
molto accada”
Il buio è misterioso, è come una rivelazione, ma il poeta non svela, sembra che nasconda una verità di cui aver paura, il buio nei suoi versi provoca terrore. È una dimensione ben lontana dal cerchio di fuoco che coraggiosamente invitava ad attraversare.
“Chiudi gli occhi,
e dimmi se resistono
i colori.”
Più si procede nella lettura e più si fa nitida la paura di smarrirsi, di perdere l’equilibrio e il contatto con la realtà, di finire nel buio, senza colori. Il poeta vorrebbe smarrirsi nei sogni, ma sa che non è più possibile, essi sono prigionieri in un recinto.
Quello raccontato da Flavio Ferraro è un presente di sfacelo, di costante smarrimento senza approdo, di un il dolore che non finisce, e se non finisce, non c’è amore, non lo si può donare: “nel mio sangue ti specchi,/e non sai dove svernano le rose.”
Non c’è incoraggiamento a stare nel buio e a farsi penetrare da esso, per conoscerlo e infine vincerlo, o meglio assimilarlo al proprio sé.
Il silenzio degli oracoli è una silloge pervasa da una poetica del dualismo, dove luce e buio sembra non possano incontrarsi. Paralizza questo dualismo, lo stesso poeta, che usa parole e immagini immobili, fredde, statiche. L’oscuro resta inconoscibile.
“Ti lascio questa fede paziente, /questa pietra amorosa /nell’accogliere il fondo, (…) Ti lascio parole /A cui non credo.” O ancora: “Sai, non c’è desiderio/che ci colmi, né precipizio/che al vuoto ci conduca.”
È proprio come se fossimo già nel vuoto e vivessimo in esso, il precipizio non è occasione.
“Non sperare nell’abisso.”
Anche il potere della parola è debole: “Siamo lontani da qui (…) il prodigio che sognavi,/ quell’urna che dicevano,/ traboccante brezza.”
Non più ode all’immaginazione, dunque, alla stregua della poetica romantica di Keats. Così come, sempre attingendo dai poeti romantici inglesi, l’uomo è destinato a non potersi elevare, perché “Tigre immemorabile, sei qui nel cuore di ognuno, assorta in ampiezze.” La tigre di William Blake è la creatura che abita la notte, incarna il lato oscuro dell’uomo che Ferraro rifugge e denuncia, e che quasi teme, perché lontano dall’esperienza del divino in termini cristiani. Ma se il poeta inglese auspicava la possibilità umana di vedere oltre la realtà fisica attraverso il potere immaginativo, ne Il silenzio degli oracoli la parola non ha valore catartico.
“Si dicono parole per placare/ la distanza (…) ma c’è una parola/ che non colma non adorna/ sue figure, sola perdura/ e in sé raccoglie/ ogni suprema sapienza/ – ecco, ascoltala,/ colei che non chiama.”
Perché la parola, per il poeta, rasenta il disadorno e crede a ciò che appare, non può riempire un senso che sfugge nel buio, che non è un chiaroscuro, una dimensione medianica.
L’umanità non è più in grado (o degna) di gesti titanici o sacrificali, perché “non sono gli Dei ad oscurarsi, ma i vostri occhi indegni della Luce.” O ancora: “io so che la notte è l’ultima tentazione/, e come l’orizzonte resta indietro.”
L’uomo è dunque cieco, incapace di cogliere i messaggi nascosti, di leggere gli oracoli, così come si afferma nel componimento che ricorda la parabola kafkiana “Davanti alla legge”:
“C’è una Porta, nel centro/ del Sole, oltre la quale/ il tempo non è più./ Ma se tu, giungendo fino/ ad essa, dicessi “sono io”:/ non entreresti, fossi anche/ l’angelo più alto./ Non perché tu abbia/ un nome, sia chiaro;/ ma poiché il tuo nome/ non è ancora il Suo.”
Ma se nella prima parte della silloge l’umanità è destinata a vivere perennemente nel vuoto, il precipizio non è contemplato come occasione di confronto con la tigre che alberga in ogni individuo, nella seconda i versi assumono un ritmo più incalzante, si animano di nuovo ardore, un ardore che si traduce in oracolo, come se la Verità, prima nascosta e irraggiungibile, adesso trovasse un approdo. Se prima il precipizio non donava possibilità, adesso è necessità, perdersi diventa il mezzo per raggiungere la meta.
Il poeta sembra quasi ammetterlo, affermando che “Il Mito è sempre vero (…) la Porta stretta,/ l’Albero dai frutti d’oro,/ il Ponte periglioso/ non furono mai,/ ma sono sempre.”
Scheda del libro
Autore: Flavio Ferraro
Genere: Poesia
Casa editrice: L’Arcolaio
Pagine: 200
Prezzo: Euro 15,00
EAN: 9788899322830
Chi è Flavio Ferraro
Flavio Ferraro è nato a Roma nel 1984. Poeta, saggista, studioso di dottrine metafisiche e conferenziere, scrive articoli per varie riviste e giornali online, tra cui Il Primato Nazionale, Il Pensiero Forte, Axis Mundi e L’Intellettuale Dissidente. Tra le sue ultime pubblicazioni: La malvagità del bene. Il progressismo e la parodia della Tradizione (Irfan, San Demetrio Corone 2019); la traduzione delle Odi di John Keats (Delta 3, Grottaminarda 2021); e il libro che raccoglie tutte le sue poesie, Il silenzio degli oracoli (L’Arcolaio, Forlimpopoli 2021).