Tessendo la trama intorno a vicende dalle atmosfere oniriche e perturbanti, dove i principi di bene e male ora si capovolgono, ora si intrecciano fra loro, Filippo Tapparelli, vincitore del Premio Calvino – edizione 2018, crea una rete di trappole che avvinghiano il lettore in un incessante stato di suspense, segnando un potente esordio nel panorama della narrativa contemporanea.
L’INVERNO DI GIONA
Filippo Tapparelli
Romanzo
Mondadori
Euro 17,00
ISBN 788804708070 – Anno 2019
Come ci insegna Dostoevskji, attento esploratore della psiche umana, secondo lui divisa fra la polarità luce e ombra, l’uomo è creatura tendente sia al bene che al male e il punto di incontro fra le due polarità converge nella capacità di scegliere, nel libero arbitrio. Ed è proprio questa, la libertà, un’arma tagliente, giunta troppo presto fra le sue mani di bambino per Giona, che egli maneggia pericolosamente contro se stesso. Sulla vita di Giona, quattordicenne che vive in un villaggio di montagna senza nome con un nonno rigido e manesco, Alvise, cala un sipario di tenebre dietro il quale il personaggio sceglie di nascondersi.
Nelle sue “Memorie dal sottosuolo” il grande scrittore russo afferma: «Amare significa per me tiranneggiare e dominare moralmente. Durante tutta la mia vita non sono riuscito a rappresentarmi un altro amore, anzi qualche volta sono arrivato al punto di pensare che l’amore non consista in altro che nel diritto, liberalmente accordato dall’essere amato a colui che ama, di tiranneggiarlo. Nelle mie fantasticherie di sottosuolo io non immaginavo l’amore se non come una lotta: lo cominciavo sempre con l’odio e lo finivo con l’assoggettamento morale», parole emblematiche che il giovane protagonista de “L’inverno di Giona” edito da Mondadori sembra imporre a se stesso come colpi di frusta, per punirsi e perdonarsi, perversamente, allo stesso tempo.
Rinchiuso in un abisso di visioni sbiadite e violente allucinazioni, Giona condanna se stesso, infliggendosi la pena delle percosse da parte di Alvise, il nonno severo e manesco che lo ha accolto in una dimora buia e dalle fredde pareti. La voce che Giona sente e con la quale dialoga continuamente è la coscienza interiore che si aggira nel dedalo dei suoi pensieri asfissianti: paura, violenza, dolore. La figura di Alvise si erge monolitica nella sua dura severità, al lettore incomprensibile. La persecuzione sia psichica che fisica che egli impone a Giona appare terrificante, inspiegabile nella prima parte del romanzo, caratterizzata da descrizioni evocative che rendono tangibile l’atmosfera claustrofobica e perversa del paesaggio dove i personaggi si muovono, un villaggio di montagna avvolto dalla nebbia in cui tutti gli abitanti temono Alvise. Il dolore distrugge Giona, che pian piano impara a non sentirlo più. Le ferite inferte dal crudele nonno bruciano ma non lo piegano, bensì lo ripiegano ciclicamente su se stesso.
«La sapienza, Giona, si acquisisce attraverso la sofferenza. (…) Con il dolore, Giona. Solo con il dolore si impara», così ammonisce Alvise il giovane Giona, il quale lo presenta con queste parole:
«Non ho mai visto sorridere Alvise. Secondo me non ne è capace. In lui tutto è schema, precisione, definizione. Ogni suo gesto è misurato, identico allo stesso che ha usto in precedenza per compiere quella funzione. Parlare, guardare. Intrecciare cesti, tagliare, mangiare. Alzarsi e sedersi. Picchiarmi (…) Non c’è anima in quegli occhi. Non c’è rabbia né odio. Gli sono utili solo per vedere, nulla di più.»
Una drammatica sofferenza
Tutto il dolore trattenuto negli anni esplode improvvisamente quando lontani ricordi cominciano a sovrapporsi all’immagine del logoro maglione rosso di lana e ai frammenti di una vecchia fotografia: Luca è un bambino che si smarrisce nel bosco e perde di vista i suoi genitori, un uomo dal fisico possente lo afferra e lo porta con sé. Giona cade allora in un lungo sonno, un inverno freddo e terrificante, dominato dalla figura di Alvise, dal quale una notte decide di fuggire. Rinchiuso nella chiesa del villaggio, dove la figura impaurita della perpetua lo accoglie con benevolenza, il ragazzo sarà vittima di lunghe allucinazioni, costringendo il lettore a domandarsi incessantemente dove sta il bene e dove il male.
I personaggi de “L’inverno di Giona”
Ruotano, attorno alla storia del protagonista, una serie di figure ambigue, quasi ombre astratte, dalla coppia di coniugi rinchiusi nel perfido dolore nei confronti della figlia ribelle Lucia, fuggita dal villaggio, alla piccola Nerina che compare improvvisamente accanto al suo gatto nero, con parole di sibillina saggezza. Essi appaiono di soppiatto, comparse teatrali che contribuiscono ad accentuare l’atmosfera sempre più onirica e visionaria che coinvolge il lettore nella prima parte del romanzo.
Fra menzogna e verità
«Il timore e la resistenza che ogni uomo naturale prova quando scava troppo a fondo in sé stesso, sono in ultima analisi la paura del viaggio nell’Ade. Se si provasse soltanto resistenza, la cosa non sarebbe così grave. In realtà però da quello sfondo psichico, dunque proprio da quello spazio oscuro, ignoto, emana un’attrazione, una fascinazione, che minaccia di diventare tanto più travolgente quanto più a fondo si penetra.» (“Psicologia e alchimia”-Carl Gustav Jung)
Giona si sdoppia, da innocente bambino a sicario esecutore della propria decadenza morale, un peso troppo grande da sopportare. Se in un primo momento il lettore si sente infastidito dall’atteggiamento passivo di Giona, pian piano comincia a nutrire compassione verso di lui. Ed è in questo che l’autore rivela una matura abilità narrativa, nel suscitare cioè reazioni forti con la costruzione di personaggi che sono vere e proprie rappresentazioni di idee che sveleranno il loro significato nascosto nella seconda parte del romanzo. Oscillando nell’ambiguità, il lettore si domanda, assillandosi al pari del protagonista, dove sta la colpa di Giona che sceglie così drasticamente il suo destino. Un fato negativo e pesante è stato “donato” a Giona e quel castigo interiore che egli impone a se stesso, lo condurrà o no a una redenzione? La risposta è nel patto segreto che l’autore sceglie abilmente di suggellare con il suo lettore.
Nella punizione che Giona impone a se stesso, si ravvisa dunque la traccia di bene della sua drammatica scelta. Alvise personifica il male, il boia persecutore che con le sue percosse violenta l’anima innocente di Giona, una pena che a lungo andare si rivelerà un fardello di cui liberarsi. Con l’impeto di violenta ribellione del protagonista, la narrazione prende una nuova piega. Cosa vorrà dire Norina con le sue parole quando Giona si scontra con Alvise sotto il boato della montagna che si squarcia introno a loro?
«Ti sta chiedendo di finirlo, Giona. Perché oggi è il giorno della morte (…) Ti sta chiedendo di essere tu, adesso, il vecchio del paese. Ti sta chiedendo di portarlo al crepaccio e di aggiustare ciò che è stato rotto. Ti sta chiedendo di farlo con le sue ossa e con il suo corpo.»
La scelta
Negando il male commesso dal reale artefice della colpa che aleggia kafkianamente come un’ombra/assenza perpetua per tutta la trama, Giona fa una scelta nietzschiana da Superuomo che lo porta all’autoannientamento. Nella costruzione della figura di Alvise si ravvisa difatti la padronanza tecnica e stilistica dell’autore: il personaggio, costruito magistralmente, si impone da subito come un’ombra malefica che perseguita il Giona vittima. Alvise lo rincorre, lo percuote, ma questa violenza rivela una forte ambiguità: Alvise intende forse preservare Giona dal peso della verità, una verità che lo farebbe precipitare in un abisso da cui rischierebbe di non risalire più. E invece Giona compie la sua scelta: si oppone a una autorità superiore (interiore) e allora la realtà finalmente si squarcia, rivelandosi per quella che è. L’autore sovrappone a questo punto due piani narrativi: onirico e reale, con un cambio di registro stilistico, da evocativo a esistenzialista-psicologico, che mescola nuovamente le carte in tavola della trama. Giona, riemergendo in superficie liberatosi dal ventre della balena, fuori di metafora dalla sua dimora mentale passata, si ridesta dal suo sonno, pronto a segnare una nuova tappa dell’intricato percorso che potrebbe condurlo alla verità.
Ma in fondo, dove sta la Verità? Oscillando fra senso di colpa, sentimenti ambigui verso l’autorità genitoriale, fra realtà e immaginazione, il lettore varcherà la cortina di nebbia fitta che avvolge la trama, avvicinandosi (finalmente) a una possibile interpretazione, libero da una lunga e perversa, magistrale trappola narrativa.
«La realtà è migliore della malattia, dottore? E cos’è la pazzia, se non aver guardato in faccia la realtà senza mentirsi? Non ci sono cose più fragili della verità. Per questo motivo va detta a bassa voce. Le parole si sporcano e la confondono, non sanno riportarla in modo fedele. La verità è fatta di silenzio. Un silenzio che riesce a rendere sordo il mondo, quando ciò che cela è troppo grande per essere compreso.»
Chi è Filippo Tapparelli
Nato a Verona nel 1974, Filippo Tapparelli lavora in un’azienda veronese. In passato è stato istruttore di scherma, pilota di parapendio e artista di strada. Ha studiato letteratura inglese e russa all’università. L’inverno di Giona è il suo primo romanzo, con il quale si è aggiudicato il Premio Calvino 2018.