Nel tentativo di elaborare il lutto per la perdita della madre, la voce narrante di Una donna di Annie Ernaux, quella dell’autrice stessa, cerca di far emergere dall’involucro dei ricordi la donna reale che sua madre è stata, espellendola dalla sua memoria come una placenta che, fuori dall’utero, palpita di vita propria.
“Per me mia madre è priva di storia. C’è sempre stata. Il primo impulso, parlando di lei, è quello di fissarla in immagini senza alcuna connotazione temporale: “era violenta”, “era una donna che bruciava tutto”, e rievocare alla rinfusa scene in cui era presente. Così facendo ritrovo soltanto la donna del mio immaginario, la stessa che, da qualche giorno, nei miei sogni torna a essere viva, senza un’età precisa, in un’atmosfera di tensione simile a quella dei film dell’orrore.”
Uscito in Francia nel 1987 e pubblicato in Italia nel 2018 da L’orma Editore con la traduzione di Lorenzo Flabbi, “Una donna” di Annie Ernaux è un racconto carnale, di lacrime e di sangue. Lacrime di lutti e perdite, sangue di vita che sboccia e vita che sfiorisce. È una narrazione lucida, cruda, sincera, senza orpelli o enfatizzazioni della figura materna, ritratta in tutto il suo realismo, e l’uso di un linguaggio scarno, asciutto, accentua il desiderio di tale mistificazione.
Dar voce alle parole
Occorre tempo prima di decidere “di scrivere in cima a una pagina bianca”, occorre attendere che il dolore venga diluito, goccia dopo goccia, nel silenzio delle lunghe notti abitate da sogni violenti, che tentano, con i loro artigli nascosti, di squarciare il velo dietro il quale, vanamente, ci si rifugia. Dopo aver compiuto i riti del caso, muovendosi attraverso gesti impersonali, scanditi dall’apparente distacco emotivo alla notizia della morte della madre, finalmente l’autrice impugna con risolutezza la penna e comincia a comporre il vero racconto di questa storia.
“Ora mi sembra di scrivere su mia madre per la prima volta, metterla al mondo.”
La campagnola inesperta
Come in rapidi fotogrammi, i ricordi si rincorrono fra loro e, ripescati da un passato lontano e sconosciuto, da un vecchio scatto in bianco e nero che ritrae i genitori nel giorno del loro matrimonio nel 1928, fanno emergere una figura femminile custode di un sapere che sa di miseria, rinuncia e fatica, devozione religiosa alla famiglia e, al contempo, una lottatrice alla ricerca di un suo posto nel mondo in un momento storico in cui le donne cominciano ad emanciparsi. I rumori dei bombardamenti nei primi anni ’40 si sovrappongono al battito del piccolo cuore di bambina, spaventata, assieme al padre, per l’eventualità di perdere la donna di cui sono entrambi innamorati. La narrazione oscilla così tra il ricordo di buona e cattiva madre, caricandosi di immagini forti e, da un punto di vista stilistico, il ritmo è scandito da frasi lapidarie, scagliate dalla madre dispotica come frecce avvelenate sulla figlia indifesa. Affiorano allora sentimenti ambivalenti verso la figura materna, una donna che si è ribellata alla vita sfuggendo alla povertà, che ha lottato con ostinazione per garantire un futuro di benessere alla figlia. Operaia in giovane età, una volta coniugata gestirà con il marito uno spaccio alimentare con bar annesso rilevato a Lillebonn, nei pressi del paese natio, Ivetot, Normandia. All’assillo di non farcela con le spese, si affianca la potente sensazione di soccorrere le famiglie vendendo a credito, perché l’attività di vendita, per la donna, non consiste solo nel mero scambio di merce-denaro, ma è l’accoglienza dell’altro da ascoltare e con cui parlare.
Il doppio volto di una donna
Il contrasto fra la sequenza rumorosa dei gesti materni durante le faccende domestiche e lo sguardo vigile e silenzioso della voce narrante bambina, mette in luce l’evoluzione materna che, da campagnola inesperta a venditrice ostinata che “avrebbe venduto anche i sassi” si trasforma in una mamma sguaiata, manesca e volubile, in bilico fra attacchi di rabbia e eccessi di tenerezza. Presa dalla smania di portare avanti la baracca, per la donna il lavoro occupa il primo posto nella scala delle sue priorità che, però, le provoca una lacerante e costante tensione. “Aveva due facce – dichiara sua figlia – una per la clientela e una per noi.”
Alacre e, al contempo nevrastenica, la madre descritta anticipa la figura della donna contemporanea che vuole fare tutto: in casa, al lavoro, in famiglia e che finisce col barcamenarsi a fatica per far conciliare ogni aspetto della sua vita. Si trasforma, così, in una sorta di ibrido: donna tenace ma stanca, venale nei commenti sentenziosi: “mi merito proprio di sedermi un po’” o “qui dentro faccio tutto io”, celando il desiderio di avere uno spazio per sé che emerge nel tentativo di acculturarsi attraverso gli studi della figlia e di trattare i libri come reliquie, che tocca solo dopo essersi doverosamente lavata le mani.
Agli occhi della figlia adolescente, quella materna finisce col diventare una presenza sempre più appariscente e ingombrante, e nei modi di imporsi e di vestirsi, e nel fisico. La figura si riempie, sia nelle forme morbide che nella sua imperiosità. Il conflitto tra le due si inasprisce sempre più, al punto da instillare nella figlia il malefico pensiero che la morte della madre l’avrebbe lasciata indifferente.
Trattenere il ricordo
Negli anni della vecchiaia lo spazio che la madre occupa comincia a restringersi. La donna abita in un monolocale buio, in cui c’è spazio per i mobili più indispensabili. Da donna volitiva e socievole, quel che resta sono una rabbia esacerbata e un sospetto insidioso. Adesso, madre e figlia, più vivono lontane e più si ritrovano vicine: la prima, ormai vedova, si ritrae in se stessa, la seconda, che ha messo su famiglia, si separa dal marito. Colpita dall’Azheimer, la madre ormai “demente” comincia a trasformarsi in una donna selvatica, che si muove svestita nella camera di ospedale senza vergogna e mangia con le mani. Pur nella sua ostinazione, la donna si rimpicciolisce agli occhi della figlia, rivelando l’umana natura fragile e, allora, da madre a figlia, da figlia a madre, i ruoli si ribaltano. Ecco che un dolce richiesto con insistenza diventa una coccola, la carezza mancata, la mano tesa a un passo dal precipizio, prima che la storia di due creature unite da un legame indissolubile si perda per sempre.
Alla fine del viaggio
Quando riceve la notizia della scomparsa di sua madre, la narratrice si sente schiacciata dal peso della responsabilità di quell’abbandono inevitabile, necessario, due anni prima, nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise. Non è facile, a questo punto, guardarsi allo specchio e decidere di attraversarlo, proprio come l’Alice di Lewis Carroll, per dipanare i fili della storia di e con sua madre, per scoprire dove comincia l’una e dove finisce l’altra, attraverso un viaggio circolare, il viaggio perfetto, in cui smarrirsi è facile, ma ritrovarsi è la vera gioia.
“Era necessario che mia madre … diventasse storia perché io mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee in cui, secondo i suoi desideri, sono entrata”.
Chi è Annie Ernaux:
Annie Ernaux è nata in Francia il 1° settembre del 1940 a Lillebonne in Normandia. Dopo la laurea, insegna lettere moderne in un liceo e collabora come articolista per Le Monde. Nel 1974 pubblica il suo primo romanzo, Gli armadi vuoti, che tratta del tema del’aborto e della solitudine e fa parte di una trilogia a sfondo autobiografico. Dieci anni dopo ottiene il Premio Renaudot con il romanzo Il posto. Nel 2000 lascia l’insegnamento e pubblica L’evento, al quale seguono altri romanzi, tra i quali i più noti Gli anni, nel 2008, L’altra figlia, nel 2011 e Memoria di ragazza, nel 2016, anno in cui si aggiudica il Premio Strega europeo.