Franz Kafka voleva vivere per scrivere e nella sua scrittura non c’è verità assoluta, ma solo un riflesso di luce intravisto attraverso metafore e parabole. Nel seguente approfondimento troverete un tentativo di entrare nella sua Verità.
“Il mondo interiore può essere solo vissuto, ma non descritto” (Diari- F. Kafka)
Enigmatiche, spesso incomprensibili, le atmosfere create dall’autore praghese Franz Kafka nei suoi scritti esercitano sul lettore un fascino sinistro. Cosa vorrà mai dire la trasformazione di Gregor Samsa in un immondo insetto o quale sarà il motivo dell’arresto di Joseph K.? Chi sono, in realtà, le strane creature che popolano i suoi racconti, come Odradek il rocchetto animato? La scrittura di Kafka è un rebus, impossibile da decifrare, così come inganno è la ricerca della verità. Franz Kafka gioca dunque con il suo pubblico? Se si pensa che sul punto di morte chiederà al suo più fidato amico, Max Brod, di bruciare tutti i suoi scritti, è credibile che Kafka scrivesse solo per se stesso? Al buio, in completa solitudine, ripiegato su se stesso, Kafka componeva di notte, quando, oltre ad avere il tempo da dedicare alla sua vocazione, il silenzio lo circondava e lui si sentiva un eremita nel suo sepolcro, quando aveva tutto il tempo a sua disposizione, quello che Pietro Citati nella monografia dedicata all’autore praghese definisce «un tempo infinito, perché l’ispirazione illimitata come il mare ha bisogno di non avere confini attorno a sé». In questo modo egli si annullava totalmente, liberando i propri mostri interiori. Di giorno era gracile, aveva le mani gelide e il cuore intirizzito, mentre di notte trovava la pace.
Ma i mostri e le immagini di Kafka vengono liberati e non spiegati attraverso la ragione, i racconti vengono scritti di getto. L’autore praghese componeva in maniera vulcanica, temendo di perdere l’ispirazione, a un passo dal precipizio, conteso tra cuore e dovere. Non riuscendo a dedicarsi completamente alla scrittura, sentiva l’urgenza di liberare le sue immagini, ma allo stesso tempo non lo faceva come un esteta, che segue la Legge, i suoi personaggi subiscono la loro tragica sorte, come se fosse normale. Viveva come un asceta, abbandonato completamente al suo istinto alla scrittura, dormiva poco e rinunciava a mangiare e a bere e metteva a dura prova il suo corpo con una rigorosa dieta vegetariana, esercizi di ginnastica e lunghe passeggiate all’aria aperta.
La verità non può conoscere se stessa
Come spiega il critico germanista Giuliano Baioni nel suo saggio Kafka. Romanzo e parabola, solamente le metafore, i frammenti, la parabola e la pantomima possono rappresentare, come un riflesso, la verità. Kafka scrive nelle tenebre per scovare un po’ di luce, ma non ne esce mai illuminato. Solo con l’annullamento torna il sereno, come accade nel suo più noto racconto La Metamorfosi.
Al pari dei cabbalisti, Kafka credeva infatti che le troppe interpretazioni fossero l’inganno che ha ottenebrato il mondo, inganno da distruggere per far tornare la luce nel mondo. Per questo motivo solo le forme letterarie della metafora e della parabola riescono ad avvicinarsi alla realtà, cogliendone un riflesso, attraverso cioè un linguaggio più alto, non sensibile, che è quello dell’inganno.
La realtà che Kafka descrive si cela dunque dietro l’immagine. Sempre Baioni sottolinea che Franz Kafka è un narratore che non agisce, ma viene agito, come accade nel sogno. Kafka scrive per immagini perchè la parola evoca e quindi la verità non si può cogliere razionalmente, ma solo captare mediante similitudini. Al tempo stesso, essa viene percepita come il limite umano all’accesso alla verità. Tale condizione è dunque un inganno per l’uomo e ne è un esempio la parabola Davanti alla legge, contenuta nel romanzo Il processo, dove un uomo giunto dalla campagna si ritrova di fronte a un portone chiedendo di attraversarlo, al custode che sorveglia l’ingresso. Si dice che dietro la porta ci sia la Legge. L’uomo di campagna trascorre invano tutti i suoi anni a cercare di convincere il custode a farlo passare, fino a dimenticare il motivo per cui si trova lì. Prima di spirare chiederà perché nessun altro, tranne lui, ha chiesto di entrare a conoscere la Legge e si scoprirà che l’ingresso era destinato a lui. Alla sua morte il custode richiude la porta. Fuor di metafora, la parabola allude molto probabilmente alla scelta umana di fermarsi e attendere nel voler conoscere la Legge/Verità, anziché vivere.
Dato che l’interpretazione è inganno, l’unica verità è dunque l’immagine evocata. La parola, infatti, scrive Baioni «conserva la frattura tra un vedere interno e un vedere esterno, e rinnova il verdetto, la punizione dalla natura delle cose per l’essersi ritirato nel mondo interiore.»
Lo straniero senza identità
La letteratura critica appare concorde sull’inscindibile legame fra l’autore praghese, il sostrato culturale a lui contemporaneo e le sue origini ebraiche. Kafka visse ed elaborò la sua vasta produzione letteraria a cavallo tra gli ultimi decenni del diciannovesimo secolo e i primi due del ventesimo. La cultura di cui si nutrì fu essenzialmente quella praghese esistenzialista, contemporanea all’affermarsi delle teorie psicoanalitiche. Ma la singolarità, o meglio l’originalità, delle opere di Kakfa sta proprio nel suo dissociarsi sia dall’Espressionismo che dalla psicoanalisi, che pure riteneva imprescindibile dalla questione ebraica. «Non c’è alcuna gioia di occuparsi di psicoanalisi, – scriverà in una lettera indirizzata all’amico scrittore Franz Werfel – io me ne tengo lontano il più possibile, eppure esiste almeno la generazione.»
Per via materna Kafka annoverava in famiglia autorevoli talmudisti, suo padre era un ebreo assimilato alla comunità praghese, abile commerciante. Ma mentre i padri della generazione di intellettuali di fine secolo si rivolgevano all’affermazione della società capitalistica, i figli si rifugiavano nell’espressione artistica e, in particolar modo, prima che estetica, per Kafka la letteratura era una scelta di vita.
«Più che la psicoanalisi mi piace in questo caso la convinzione che questo complesso paterno, del quale taluno si nutre spiritualmente, non riguarda il padre innocente, bensì l’ebraismo del padre. La maggior parte di coloro che cominciarono a scrivere in tedesco volevano allontanarsi dall’ebraismo, per lo più con il non chiaro consenso dei padri (rivoltante era questa mancanza di chiarezza), volevano bensì, ma con le zampette posteriori erano ancora attaccati all’ebraismo paterno e con le anteriori non trovarono un terreno nuovo.» (Frammento di una lettera a Max Brod)
Estremamente sensibile, dal fisico cagionevole, Franz Kafka era spesso preda di crisi depressive. Lacerato interiormente dal dilemma dell’individuo socialmente affermato attraverso la professione e il matrimonio, da lui considerati terreno paterno da cui distaccarsi, e la vocazione per la scrittura, il giovane autore praghese si sentirà un ibrido, un essere alienato e non a caso nelle sue opere ricorrono di frequente le figure di animali, come talpe, topi o insetti, rinchiusi in tane, abbandonati in camere. Franz Kafka instaurò diverse relazioni con le donne: prima con Felice Bauer, con Julie Wohrizek, poi con Grete Bloch dalla quale si dice abbia avuto un figlio di cui non è venuto mai a conoscenza, con l’intelletuale attivista e già coniugata Milena Jesenskà e infine, negli ultimi mesi della sua vita con la semplice anima Dora Dymant, ma senza giungere mai a convolare a nozze con esse. Egli si definiva «il più ebreo occidentale degli ebrei occidentali», un essere inquieto, incapace di approdare a una serenità interiore, una creatura indefinibile, quale è Odradek, un bizzarro personaggio di uno dei suoi racconti dal titolo Il cruccio del padre di famiglia. Odradek è un rocchetto di fili ingarbugliati con una asticella da cui spunta una stella che consente all’oggetto di stare in piedi. Ma cosa significa Odradek? Odradek è una parola ibrida, appunto, tedesca di derivazione slava, probabilmente. Questo strano essere è animato, si muove, non si riesce ad afferrare e si nasconde in diversi angoli della casa e ora parla, ora tace. Un essere inquietante, una sorta di espressione dell’individuo di fine secolo senza identità ben definita, uno straniero, ma allo stesso tempo immortale, un groviglio insomma di indecifrabilità, di cui dice l’autore in conclusione «egli non fa del male a nessuno; ma l’idea che egli possa anche sopravvivermi, mi è quasi dolorosa.»
Tra il 1912 e il 1917 Franz Kafka visse una tormentata relazione con Felice Bauer, giovane viennese conosciuta a casa dell’inseparabile amico Max Brod. La prima rottura tra i due fidanzati avvenne nell’autunno del 1912 e gettò lo scrittore in un momento di profonda crisi interiore.
«L’amore causa sempre ferite che non guariscono mai pienamente, perché l’amore è sempre accompagnato dal sudiciume. Al distacco dell’amore dal sudiciume provvede soltanto la volontà di chi è amato.» (Diari- F. Kafka)
Franz Kafka aveva deciso di non sposare Felice. È proprio questo un aspetto che secondo alcuni critici va approfondito, ovvero Kafka sentirà gravare su di sé una atavica colpa di derivazione religiosa per la sua incapacità di realizzarsi attraverso il matrimonio, di scegliere fra letteratura e la vita borghese di un ebreo occidentale assimilato come suo padre. È noto il suo lacerante conflitto con la figura paterna, descritto nella Lettera al padre, in un confronto continuo e assillante fra un essere che lo sovrastava sia fisicamente che socialmente, al punto da essere considerato un parassita. Nel Talmud si dice infatti che «un uomo senza una donna non è un essere umano.»
È legge unirsi alla donna, regola che Kafka trasgredisce. Nel racconto La Metamorfosi, una delle possibili chiavi di lettura dell’assurda vicenda potrebbe essere proprio questa incapacità di realizzarsi socialmente. Kafka desiderava dedicarsi interamente alla scrittura, questo significava per lui scrivere: vivere per essa. Ma non gli era possibile. All’età di ventinove anni era un impiegato presso una compagnia di assicurazioni ligio al suo dovere, che rispettava gli orari e metteva in pratica norme e procedure in maniera impeccabile.
La stesura febbrile de La Metamorfosi, avvenuta nel corso di una notte, rappresentò per lui una discesa negli Inferi, simbolo della sofferenza dell’individuo impossibilitato a realizzare la sua vocazione. Lo psicoanalista Aldo Carotenuto ha dedicato un saggio alla figura di Kafka intitolato La chiamata del Daimon in cui mette in luce il viaggio di una difficile individuazione, di una interiorità lacerata alla ricerca della sua identità, un continuo interrogarsi, scelta che subito diventa colpa.
«Essere chiamati al cospetto del tribunale, come accade a Josef K., vuol dire, quindi, essere chiamati a rispondere dell’unico vero ‘peccato mortale’, dell’unica ‘colpa’ della quale l’individuo può macchiarsi: il tradimento di se stesso, del proprio destino individuale. Il richiamo alla realizzazione personale è la più forte voce interiore che a ciascuno di noi è dato sentire, ma quanto più esso è intenso, tanto maggiore sarà la pena, nel caso di mancata risposta. Per Josef K. la pena sarà la morte.» (La chiamata del daimon – Aldo Carotenuto)
La metamorfosi – analisi
«Il mondo immenso che ho in testa. Ma come liberare me e il mondo senza spezzarmi? È meglio spezzarmi mille volte che trattenerlo o seppellirlo in me. Sono qui per questo, me ne rendo perfettamente conto.» (Diari – F. Kafka)
Fra gli incipit più straordinari della letteratura, quello de La metamorfosi è un esempio di destabilizzazione narrativa.
«Gregor Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato nel suo letto, in un enorme insetto immondo.»
È facile ipotizzare che il protagonista sia un alter-ego dello stesso Kafka, che egli intenda descrivere la propria angoscia nel sentirsi un insetto, un parassita schiacciato e cacciato dal mondo. Lo stesso cognome, Samsa, ha tante lettere quanto Kafka e la ripetizione delle a. Inoltre, l’ambientazione del racconto pare rimandi alla stessa disposizione dei mobili della stanza dell’autore. Gregor Samsa è un commesso viaggiatore che svolge pedissequamente il suo lavoro, si alza ogni mattina allo stesso orario, prende il solito treno, lavora, rientra e assicura alla famiglia un agiato tenore di vita. Quando però si ritrova trasformato in uno spaventoso insetto, la famiglia gli volterà le spalle. Per questo è importante, come fa notare Vladimir Nabokov nella sua analisi critica al racconto, soffermare l’attenzione sul termine tedesco Ungeziefer utilizzato per indicare l’essere in cui si ritrova trasformato Gregor Samsa. Lo scrittore e critico russo ritiene che Gregor sia un essere umano nella veste di insetto (Aròb-Ungeziefer), mentre i suoi famigliari sono insetti «in veste di persone».
Con il tempo, la metamorfosi del commesso viaggiatore si evolve ma, anche se prende dimestichezza con il suo nuovo corpo, muovendosi con più agilità e imparando a vivere solo attraverso l’udito, Gregor resta umano dentro di sè, continua a sognare, a provare sentimenti ed è proprio in ciò che consiste la dannazione di questo essere ibrido. Pur vivendo in isolamento e al buio, come avrebbe sempre desiderato lo scrittore, il verme parassita non raggiunge uno stato di beatitudine. Quella sua trasformazione diventa una punizione (che egli impone su se stesso) perché lo priva lentamente dell’affetto della sorella (che nella realtà era l’unica a provare comprensione per il suo essere taciturno e strano) e il padre riesce a schiacciarlo, sia fisicamente nel racconto, sia realmente nella sua quotidianità. È come se scegliesse di non completare la metamorfosi, perché quel restare ibrido e sofferente rappresenta la sua punizione, il suo sentirsi privo di identità e non in armonia con il cosmo. Il suo sacrificio, l’autoannullamento, serve dunque a salvare la famiglia, a liberarla dal peso della sua esistenza.
Cosa si nasconde dietro la metafora dell’insetto, o meglio dietro questa metafora, la trasformazione, seppure non completa dallo stato umano allo stato animale? Secondo Baioni si tratterebbe di un graduale e sempre più passivo passaggio a uno stato di inerzia. Kafka si sente svuotato di energia vitale perché non riesce a realizzarsi, sia socialmente attraverso la professione, sia affettivamente attraverso il matrimonio. L’individuo umano Gregor si sente perso, perché intorno a lui non c’è umanità (la famiglia ha terrore di lui e lo dimentica, lo abbandona anche la sorella in una stanza tugurio che diventa con il tempo un ripostiglio, il pavimento si riempie ogni giorno di polvere, le pareti si imbrattano e Gregor, muovendosi sempre più a fatica, si insudicia sempre più). Il padre, che all’inizio del racconto appare indebolito e si fa mantenere dal figlio, acquista sempre più energia e, rinvigorito, viene assunto come usciere in banca e diventa orgoglioso della sua nuova divisa, mentre la madre diventa cucitrice, restando sempre al di fuori, interviene come nella lettera solo per placare l’ira paterna e la sorella commessa. Appare evidente quanto La Metamorfosi sia tutto il contrario di una favola, ma il racconto dove per l’essere animale non c’è redenzione. Gregor non viene salvato, non ritorna umano, la sua è una trasformazione irreversibile e perisce a seguito di una ferita inferta dal padre mentre gli lancia una mela, che si conficca nella sua corazza, abbandonato e dimenticato dalla sua famiglia. Padre, madre e sorella non mostrano preoccupazione per la condizione fisica di Gregor, ma solo per la condizione economica a cui li ha condannati.
Quando Gregor muore per consunzione, i famigliari piangono, ma non lo seppelliscono, verrà gettato via dalla donna delle pulizie, ritorna il sereno fuori dalla finestra dopo il lungo inverno di pioggia durante l’isolamento di Gregor e la famiglia esce a fare una passeggiata. La vita riprende così a scorrere nella sua normalità, come se Gregor non fosse mai esistito, come se il suo sacrificio non avesse avuto senso, come se nulla fosse mai accaduto.
Conclusioni
Ha voluto forse Kafka consegnarci un lugubre presagio sulla condizione umana a venire nella sua lucida, quanto drammatica analisi, di una impossibile redenzione? O forse c’è dell’altro? Come ha scritto egli stesso in un aforisma di eco nietzschiano del 1918:
«Vi sono per noi due specie di verità così come sono rappresentate dall’albero della conoscenza e dall’albero della vita. La verità di chi agisce e la verità di chi riposa. Nella prima il bene si divide dal male, la seconda non è altro che il bene, essa non sa di bene o di male. La prima verità ci è veramente data, la seconda ci è data solo come presagio. Questo è l’aspetto triste. Quello lieto è che la prima verità appartiene all’istante, la seconda all’eternità, perciò la prima verità si spegne nella luce della seconda.», così una scintilla di redenzione si intravede nel momento in cui l’uomo rinuncia all’ottuso tentativo della ricerca di verità e riesce ad accettare la paradossale e indecifrabile antitesi di bene e male.
«Teoricamente vi è una perfetta possibilità di felicità; credere nell’indistruttibile in sé medesimi e non tendere verso di esso.» (Aforismi di Zürau- F. Kafka)
Testi citati:
Franz Kafka, Il processo (1925), a cura di G. Zampa, Adelphi, Milano 1973.
Id., Racconti, Mondadori Editore, Milano 1970.
Id., Diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1953.
Letteratura critica:
M. Freschi, 1993: Introduzione a Kafka, Laterza, Roma-Bari.
G. Baioni, Kafka. Romanzo e parabola, (1962) Feltrinelli, Milano 1997.
P. Citati, 1987: Kafka, Rizzoli, Milano.
A. Carotenuto, 2014: La chiamata del Daimon. Gli orizzonti della verità e dell’amore in Kafka, Bompiani, Milano.