Quanti inutili perché

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“La vita è più semplice di quello che sembra” mi ha sussurrato questa mattina Federico all’orecchio. Era da poco spuntata l’alba e io, raggomitolata su me stessa, tra i cuscini della sdraio a dondolo di vimini sulla veranda, mi sono lasciata cullare dalle sue parole. Osservando di sottecchi il cane acquattato in giardino, mio marito ha continuato: “Se ne sta accucciato incurante, apparentemente indifeso, ma basta sentire i passi di uno sconosciuto avvicinarsi, che le sue orecchie si rizzano e subito scatta sull’attenti. Così nella vita – e a questo punto ha sorseggiato il caffè sottraendo dolcemente dalle mie mani la tazzina ancora tiepida – il sentore di un pericolo ci fa affilare i denti e nella bava che produce la bocca inferocita ristagna il sapore di una rabbia sopita. Non è la vita a essere complicata, Angelica, siamo noi a fuggire da noi stessi, a difenderci con i tanti e, spesso, inutili perché.” L’ho capito soltanto ieri sera, a mie spese, che il senso che mi sono ostinata a cercare a ogni litigio con mia madre, in realtà è sempre e soltanto stata la schermata per difendermi dal dolore, quello di non aver mai potuto contare su una figura materna amorevole e indulgente. Non serve accarezzare la mia ferita, adesso, come Federico vuole farmi credere, devo riaprirla ancora una volta per ricordarmi quanto sono stata forte a ricucirla in tutti questi anni. Il fantasma che tutte le notti mi viene a trovare sin da quando ero bambina non ha mai avuto un volto. Si siede sul mio letto voltandomi le spalle e comincia a dondolarsi. Io ogni volta lo accolgo in modo diverso. In alcuni momenti mi terrorizza, in altri mi provoca una profonda pena, al punto che decido di tendergli la mano e accoglierlo benevolmente. Da alcune notti, invece, l’ho scacciato via, per la prima volta gli ho urlato contro un antico risentimento, tentando di strattonargli le spalle per farlo voltare e scoprire, finalmente, il suo vero volto. Ma è scomparso, all’improvviso, lasciando sulle mie mani una impronta di rancore.

Quando ero bambina mi hanno messo in braccio una bambola per imparare a fare la mamma, spiegandomi che una volta diventata mamma, non avrei più potuto giocare. Erano gli anni ’60 e in tv spopolavano le bambole Furga. Quella che avevo ricevuto io si chiamava Carolina e aveva un caschetto cotonato biondo cenere come una diva americana, occhi verdi e ciglia nerissime e rigide; indossava un abitino bianco a pied de poule azzurro, al collo un fiocco rosso dal nastro sottile. Era un regalo da parte degli zii che vivevano al nord e che avevano da poco comprato finalmente l’ambito alloggio. Sapevo bene che mia madre si rodeva dall’invidia per la fortuna che anno dopo anno suo fratello e la moglie accumulavano, ma nonostante lei tentasse in tutti i modi di metterli in cattiva luce ai miei occhi di bambina, proprio non riuscivo a trovare loro alcun difetto, per me restavano gli zii affettuosi e generosi che ogni anno per il mio compleanno mi inviavano un regalo. E Carolina era uno di quei regali costosi per il quale, lo sapevo bene, mia zia aveva lavorato ore in più anche di domenica. Compiuti i dodici anni, un subdolo sospetto ha cominciato a rodermi. Appena mia madre usciva di casa per recarsi al lavoro, non prima di avermi severamente raccomandato di rassettare le cucina e le camere, mi precipitavo nella stanza da letto dei miei genitori, rovistando con foga i cassetti, senza premurarmi di rimettere in ordine perché la biancheria era sempre gettata alla rinfusa, nella speranza di trovare un documento che comprovasse la mia adozione. Proprio non mi rassegnavo all’idea di essere figlia di mia madre, sempre adirata con il mondo e pronta a inveire contro il marito remissivo, così diversa da mia zia da immaginare che fossi in realtà figlia sua e che mi avesse lasciata al sud perché costretta a lavorare incessantemente per mettere su la fortuna che un giorno mi avrebbe consegnato per farmi un futuro, mentre io di lì a qualche anno non avrei mai potuto contare sui soldi del mio stipendio, che puntualmente mia madre mi avrebbe sottratto. Per mesi, accarezzando il folto caschetto della bambola, mi ero domandata come si fa a diventare mamma. Essere mamma per me significava cullare un bambino per tutta la notte, proprio come facevo io con la mia Carolina, riempirlo di coccole, invitare i suoi amici a casa per feste e merende, insegnargli ad andare in bicicletta, a giocare a dama, proprio come faceva mio padre con me, ma sempre di nascosto da mia madre, che altrimenti lo avrebbe rimproverato di tirar su una figlia viziata e molle. Ogni volta che rientrava dal lavoro, mia madre mi tempestava di richieste sulla cena, sui panni da piegare e da stirare che lei stessa gettava alla rinfusa su una vecchia poltrona e che soltanto lei aveva il diritto di tirar fuori quando uno di noi ne necessitava. Se solo osavo controbattere perché avevo bisogno di continuare a ripetere la lezione in vista dell’interrogazione a scuola dell’indomani, subito inveiva contro di me, fino a sfogare il suo rancore con ingiustificate percosse. Non ricordo mai un momento di complicità passato in sua compagnia a preparare una torta o a incollare le bamboline di carta che tanto adoravo, per lei queste attività avevano solo lo svantaggio di sporcare e mettere disordine in casa, e lei di tempo per farlo non ne aveva mai. Avrei voluto urlarle tutta la mia rabbia per la sua assenza, per l’insensibilità con cui mi ignorava, ma quell’urlo restava perennemente strozzato in gola, e si palesava di notte, al buio, sul cuscino bagnato di lacrime. Mi mancava avere una madre disponibile all’ascolto, alla quale confidare i miei primi turbamenti sentimentali. Se solo le chiedevo di uscire un po’ più spesso, subito mi assaliva con le sue domande insidiose, ammonendomi a frequentare solo ragazzi laureati e a non commettere passi falsi, in modo da non far sparlare “di noi” i compaesani pettegoli. Il suo tono astioso mi spingeva, contrariamente, a rifugiarmi tra le braccia di Federico, un non laureato dal sorriso sempre stampato in faccia. La sua bontà mi sembrava ogni volta un dono ricevuto per la sofferenza a cui mi sottoponeva quella che ormai non credevo fosse mia madre. Era “la strega” che con le sue parole lanciava malefici sull’ingenua ragazza che tentava, senza mai riuscirci, di sfuggire ai suoi crudeli ricatti emotivi. Mi ero convinta, col tempo, che una madre può avere solo due volti: o Cornelia o Medea. I figli, o li mostra con orgoglio come i suoi preziosi e intoccabili gioielli, per i quali è disposta a dare la vita, o li annienta con la sua ferocia per vendicarsi della vita. Non un nido accogliente in cui rifugiarmi quando le aquile divoratrici del mondo esterno spezzavano le ali del fragile volatile che ero diventata nella mia adolescenza, ma una tela aggrovigliata tessuta con compiacenza da un ragno velenoso trovavo ad attendermi tutte le volte che precipitavo. Leggevo chiaramente nel suo sguardo la delusione di non aver partorito un figlio maschio, il fiocco rosa dietro la porta per lei era stato un oscuro presagio. Il suo più grande reato ero io, lo sentivo, che non rispondevo alle sue aspettative. Il mio amore per lo studio la costringeva a sgobbare duramente e a pretendere un mio sostegno continuo. Mi sentivo una belva in gabbia, pronta a scalciare appena mi si avvicinava. Il coraggio di fuggire da lei per sempre me lo ha dato proprio Federico, quando mi ha chiesto di sposarlo. Non aspettavo altro. Il principe generoso, pronto a donarmi il suo cuore, mi ha portato in salvo nella calda dimora che è da sempre la sua famiglia d’origine. Ho tessuto, così, una coperta morbida dalla trama trasparente nella quale ho avvolto Francesca e Simone, i figli che sono arrivati. Stringendoli a me, dopo ore di fatica, ho giurato di non umiliarli mai, di guidarli nella loro crescita con atteggiamenti di benevolenza e, al contempo, con parole di autorevolezza. Ma anche così il fantasma di notte non smetteva di tormentarmi. Si presentava, puntualmente, a dondolarsi sulle mie coperte, impedendo alle mie gambe, rigide per la paura, di scacciarlo via.

Poi ieri ho deciso di invitare mia madre per il mio compleanno. In realtà non volevo farlo, ma una voce stanca dentro me mi ha chiesto di darle una nuova possibilità di riscattarsi e così ho deciso di alzare la cornetta del telefono, dopo anni, e chiamarla, proprio come fanno le brave persone e lei mi ha sempre ribadito di comportarmi da brava persona. Ho tentato di spiegarle perché non riuscivo ad andare d’accordo con lei, ma come in passato ne sono uscita sconfitta. Mia madre riesce sempre a farmi sentire in colpa. Tuttavia, all’ora di cena, il campanello ha squillato.

La serie di trilli insistenti mi ha fatto sobbalzare e subito Federico mi ha preso la mano conducendomi con passo deciso alla porta. Con le mani sudaticce ho stirato le pieghe del vestito elegante che ho voluto indossare per l’occasione, in fondo un po’ ci speravo nel suo arrivo e, passando per il lungo corridoio, mi sono rivolta un’ultima occhiata. “Non male” ho sussurrato a me stessa, sorridendo nervosamente. Una volta ritrovatami di fronte alla sua figura imponente, l’ho attirata a me con un gesto affettuoso. La piega dei capelli perfetta, le labbra di un rosso scarlatto accecante, la gonna lunga, zeppa di merletti colorati da zingara, la facevano sembrare, al contrario dei miei gesti iimpacciati, una presenza padrona di sé, ma un paio di stivali dal tacco alto, consunti, tradivano una sciatteria che non è mai riuscita a nascondere e che io ho subito smascherato.

Allargando le narici, ha tirato su con il naso, mettendo in evidenza le rughe sotto gli occhi che tutto il cerone che maldestramente si ostina a spalmarsi non riesce più a nascondere. Stavo per commuovermi all’idea che qualcosa dentro lei si fosse sciolta nel rivedermi, quando mi ha annusato la testa con aria disgustata e ha esclamato: “Ma quanta lacca ti sei spruzzata, i tuoi capelli sembrano una parrucca! E che odore pungente c’è in questa sala, non ditemi che usate uno di quei profumatori sintetici…” All’elenco delle mie imperfezioni ho celato una furiosa irritazione, tradita dai pugni serrati con forza che subito Federico ha sciolto avvicinandosi con premura e porgendo la mano alla strega. È sempre stato più bravo di me a rompere l’imbarazzo che mia madre provoca con le sue parole sprezzanti, è sempre stato maturo nel comprendere e accettare un carattere difficile che io non riuscirà mai a decifrare. Facendo fatica a guardarla negli occhi, ho spostato lo sguardo su un sacchetto di carta che serrava tra le mani. Ho chiesto se si trattasse per caso di un regalo per me, ma lei con aria di sfida ha nascosto il pacco dietro la schiena, urlando: “Oh no, questo è per Simone!”

“E ne hai preso uno anche per Francesca, vero, non vi vedete da un sacco di tempo ….” ho sottolineato con tono implorante.

“Ma certo che no! A quella ragazza avete sempre comprato tutto, come mi avete fatto sapere quando mi sono prestata per preparare il corredino della nascita. A Simone, invece, non ho regalato quasi nulla visto i lunghi anni in cui mi avete tenuta lontana …”. Fingendo di non aver udito l’asprezza delle infamie appena pronunciate, ho detto amareggiata: “Ma così Francesca ci resterà male!”

“Simone è il mio unico nipote maschio e tu sai quanto ho desiderato un figlio maschio, io!”

“Nascere donna non è un reato!” ho controbattuto a voce alta, stupendo me stessa per quel tono stranamente fermo.

“Simone farà grandi cose, proprio come avrei dovuto insegnargli se solo non mi aveste esclusa dalla sua vita! Ma dov’è il mio cucciolo? Nella sua stanza? Ditemi dove si trova così gli faccio una sorpresa, entro quatta quatta e gli faccio il solletico!”

“Simone ha ormai tredici anni, non è più un cucciolo!” ho cominciato a spazientirmi. Incurante, ha cominciato a dirigersi al piano di sopra. Sono rimasta inerme a osservarla mentre si affannava su per le scale, annaspando nei vecchi stivali dal tacco troppo alto per le sue caviglie gonfie.

“Ahhh le mie povere gambe – si è lamentata come se mi avesse maleficamente letto nel pensiero –  questo è il risultato di anni e anni di lavoro mentre tu te ne stavi tranquilla in casa a studiare.” Scalino dopo scalino, al ticchettio dei tacchi, quelle parole pronunciate, questa volta con incauto sdegno, hanno rimbombato nella mia testa come una maledizione e, come ipnotizzata, mi sono precipitata su per le scale guidata da una furia ormai incontrollabile. Non ricordo più le parole che ho tirato fuori come una partoriente incosciente che spinge precipitosamente fuori di sé un feto sofferente, che ho subito visto scivolare per le scale nella sua viscida e oscura placenta. Simone e Francesca sono sbucati dalle loro stanze lanciandomi espressioni sconvolte e preoccupate, Federico mi ha afferrato per un braccio prima che non rispondessi più delle mie azioni… Mi sono risvegliata da quel malefico incantesimo, ritrovandomi sprofondata nel divano al centro della sala. La luce era spenta, solo quelle soffuse delle applique rischiaravano la stanza, lasciando in penombra una figura seduta accanto a me. Era lei, la madre strega che avevo assalito pochi minuti prima. Ci avevano lasciate sole, alle prese con la nostra resa dei conti, negli ultimi anni tacitamente rimandata. In silenzio l’ho osservata in quella posizione insolita per lei: le spalle incurvate e lo sguardo basso rivolto al pavimento sotto di lei. Era silenziosa, come non lo è stata mai. Era sconfitta. E per la prima volta mi è apparsa non madre, ma donna. Non ricordavo più le parole vomitate con astio su di lei poco prima, sentivo solo il mio corpo scosso dalla violenza di quel mio atto furioso e il cuore svilito da un’amarezza ingoiata per troppi anni. Improvvisamente ho sentito tutto il rancore dileguarsi, lasciando spazio a un’espressione accorata che le ho rivolto mentre il viso si rigava di lacrime. Il suo corpo ha cominciato a scuotersi, profondi singulti la facevano tremare come una montagna scossa da tuoni, squarciata da una voragine improvvisa nella quale precipitano anni di silenzi, angoscia e parole non dette, mentre tutto scompare e quel vuoto si richiude per sempre. Mi sono sentita le mani afferrare e nel buio ho visto spuntare, su quel suolo roccioso appena precipitato, nuove radici.

“Mi dispiace” ho sentito che mi sussurrava “non sapevo come si cresce una figlia, nessuno me lo ha insegnato.”

E ho rivisto Carolina, la mia vecchia bambola, che fortunatamente mi avevano messo tra le braccia.